Referendum:
ai margini e nel cuore di una legge
di Lidia Campagnano e Pina Nuzzo

Lidia Campagnano
Attorno alla procreazione assistita c'è un spessore di tenebra.
È impastato di vari elementi. Del silenzio delle donne che hanno
fatto esperienza di PMA - o della moderazione che è stata imposta
alle loro testimonianze.
Della sostanziale
falsità che circonda le intenzioni del legislatore, pressato tra
l'obbedienza alle leggi non scritte sul funzionamento (e sul finanziamento!)
della ricerca scientifica e sulla pratica medica e l'adesione alle volontà
di potenza delle gerarchie ecclesiastiche.
Del balbettio politico sulla dimensione (mondiale) di ogni questione (milioni
di bambini e bambine nel mondo muoiono entro i primi cinque anni di età)
dimensione che potrebbe anche indicare il vero rischio insito negli indirizzi
della ricerca scientifica stessa: quello di rivoluzionare la nascita umana
segnandola programmaticamente con la disuguaglianza nei diritti.
Così è nata una legge crudele, bugiarda, inapplicabile,
che esercita violenza sul corpo delle donne e pretende già da ora
di imporre, in luogo della tutela dei neonati, comunque siano venuti al
mondo, il modo "giusto" di venire al mondo (da una coppia eterosessuale
convivente: come se nel mondo tutti nascessero tutelati da una coppia
eterosessuale convivente).
E c'è una fonte di tenebra che riguarda tutte e tutti singolarmente:
è l'incapacità di fare i conti con la distanza tra desideri
profondi e realtà.
Il primo e ottimo motivo per ridurre a zero la legge 40 sta nel bisogno
di diradare coraggiosamente quelle tenebre così da riaprire la
strada per una convivenza migliore, una vita migliore, un pensiero più
ricco sulla vita e sulla morte umana, mettendo al lavoro le coscienze
che guardano lontano quanto vicino a sé.
Perché si faccia di meglio rispetto a ciò che propone il
mercato e a ciò che prescrive il patriarcato ecclesiastico. Perché
si pensi laicamente, nel significato più democratico, aperto, creativo
e responsabile di questa parola.
A partire da un principio che si chiamò autodeterminazione.
Nel momento in cui nuove tecniche consentono di produrre la fecondazione
e il primissimo stadio dello sviluppo dell'embrione umano fuori dal corpo
femminile, questo principio va approfondito nelle sue motivazioni. Esso
nasceva da un'esperienza divenuta coscienza, soggettività: l'esperienza
di una materia vivente al cui sviluppo una donna doveva dare un sì
intimo assolutamente personale: il sì del corpo-mente-cuore che
avverte o viene avvertito di quella materia, interna a sé eppure
non del tutto "propria", corpo proprio toccato da altro, dall'altro.
Un sì umano che può fallire. Può essere un no bio-fisiologico,
un no in nome del modo in cui la fecondazione è avvenuta, un no
in nome di un futuro per qualunque motivo minaccioso.
Attorno a quel sì e a quel no così intimo si avvolge e radica
molto della possibilità di essere umane e umani, quando si "mette
al mondo". Perché è nell'intimità, nell' individualità
protetta dal suo personale segreto (dalla sua inviolabilità) che
può nascere o no un rapporto tra sé e l'altro che non debba
rimontare volontaristicamente un abisso, un rapporto con il desiderio
che non sia censorio o avido, un rapporto tra la forza e la debolezza
che non sia imperialista, violento
Questa esperienza dell'intimità generativa è così
importante per la donna e potenzialmente per tutti che solo il pervicace
impegno storico di alienare le donne, di tenerle lontane dalla parola
e dalla pratica dell'autodeterminazione ha potuto a lungo isterilirla
e renderla irrilevante: per il male di tutti.
La minaccia continua e ripetuta a questa intimità ha fatto sì
che gli uomini considerassero l'intimità in sé stessa come
una minaccia dalla quale tenersi lontani, per il pericolo del contagio.
Così che, mentre le donne molto hanno imparato dagli uomini, questi
ultimi poco hanno imparato dalle donne sul piano della costruzione profonda
di sé.
Ora che la scienza consente il portar fuori dall'intimità la prima
parte del processo generativo (ma in futuro sarà probabilmente
tutto il processo generativo), la reazione della legge non è quella
di ripristinare in ogni modo l'intimità della relazione donna-embrione,
bensì quella di "farla fuori" nominando immediatamente
l'embrione come persona portatrice di diritti, anche contro il corpo femminile
che ancora lo deve ospitare, e addirittura imponendo a quel corpo l'ospitalità.
Qui si incrociano due misoginie: quella dell'uomo prometeico e solipsista,
che sogna semplicemente di fabbricare umani senza le donne, e quello del
patriarca in nome di Dio (del patriarca-Dio) che ricolloca la donna nel
luogo della materia inerte, della materia preumana che occorrerà
poi e sempre salvare da se stessa donandole un'anima. Difficile dire chi
dei due è peggio.
Si può invece dire che entrambe le categorie di misogini sono tra
le meno adatte a parlare della tutela di quell'essere inerme, privo di
segreto e di precisi confini col mondo che è il neonato. E non
per caso entrambe sono così gravemente incapaci di fare qualcosa
contro la violenza che tocca l'intimità corporea, la violenza sessuale,
principio e metafora di ogni tortura, di ogni violenza.
Sul ristabilimento di quella intimità molto ci sarebbe forse da
fare, e ben oltre un referendum, ben oltre una legge. Perché alle
donne tocca di interrogarsi sulla propria parte, nella crescita di un
quadro così poco rassicurante.
A cominciare da una domanda: che cosa è avvenuto del desiderio
di maternità? Che cos'è, oggi?
In un paio di decenni è avvenuta una lenta metamorfosi. Generazioni
di donne sono passate dalla maternità come destino indipendente
da un desiderio che, se presente, era quasi muto, alla paura esplicita
della maternità, al desiderio questa volta nominato e analizzato,
reso consapevole, motivato in maniera multiforme. E adesso, a che punto
sono le donne? E quali donne?
E' difficile dirlo. Oggi in molte viviamo con fatica la gestione delle
nostre libertà e dei nostri desideri, che sono molteplici. E' forse
la prima volta nella storia che in una parte del mondo, o in varie parti
socialmente circoscritte del mondo, una generazione di donne si misura
con l'intera progettazione di un'orizzonte di vita: studio, lavoro, amore
e maternità, sulla base di desideri che non sono affatto facilmente
conciliabili, che sono spesso ugualmente forti eppure non sono misurabili
con la stessa unità di misura (una mentalità assolutamente
maschile, benché frequentata da molte donne, tenta invece di renderli
commisurabili: oggi un lavoro, domani un figlio, più tardi la ricerca
spirituale, e chissà che altro).
Sull'oggi del desiderio di maternità facciamo qualche ipotesi.
Le statistiche, molto poco diffuse, dicono che a richiedere la procreazione
medicalmente assistita sono prevalentemente le donne che si avvicinano
ai quarant'anni, quando cioè si teme il calo naturale della fertilità
e quando si teme di più la nascita di una creatura con problemi
di salute.
L'avanzare dell' "età per fare un figlio" è frutto
dell'emancipazione classica (l'emancipazione essendo, a detta di tutti
gli studi demografici internazionali, l'unico modo generalizzato ma non
autoritario di ridurre gli eccessi di natalità nel mondo).
Ma l'emancipazione si sta convertendo in una condizione altra: la condizione
della precarietà. Il sogno dell'emancipazione classica era quello
di programmare la maternità, l'incubo della precarietà è
quello di non farcela nella corsa col tempo fertile. La programmazione
e la "conciliazione dei tempi" sono state convertite in un unico
tempo di vita non programmabile se non dall' "altro da sé",
cioè dalle intricate strade della percezione del reddito.
La precarietà totale sta per giunta cancellando la possibilità
(e forse anche il desiderio) di avere una percezione più intima
del tempo che passa. Cioè sta devastando un vissuto del tempo proprio
che non sia semplicemente tempo libero bensì tempo "di sé
e per sé". Non solo il tempo del fai da te, dell'hobby, tempo
da giovanotto scapolo, per così dire, ma il tempo per l'ascolto
di ciò che accade dentro di sé, il tempo, anche, del "lasciar
accadere, lasciare avvenire" qualcosa dentro di sé, il tempo
di un'attesa dunque.
Tipico tempo fertile, in ogni senso.
La perdita di questo specifico tempo e senso del tempo ha conseguenze
oggi non innocentemente incalcolate sull'intero modo d'essere, dal pensiero
all'amore alla maternità. E nel contorto e affannoso tempo totalitario
della precarietà emergono, come funghi intatti, antichi desideri
che la tecnica promette di soddisfare "chiavi in mano": un prolungamento
della vita potenzialmente illimitato; un prolungamento della vita fertile
quasi altrettanto illimitato; una età giovane senza limiti, con
eterne e sempre uguali possibilità di successo, di seduzione, di
potere. Un figlio quando il reddito è divenuto sufficiente per
fermarsi e per pagarselo.
Se questa, a grandi linee, è la condizione materiale delle donne
candidate alla PMA, più difficile e forse più necessario
è capire come sta oggi una donna a tu per tu con un'ipotesi di
procreazione.
Qui, tra noi, in questa nostra società le donne giovani sono più
libere, anche o soprattutto nel sentimento di sé. Questa libertà
si traduce in un sentimento di individualità, di fronte alle proprie
possibilità procreative, che è stato una conquista molto
alta, ma che rischia sempre, e forse oggi molto più di ieri, di
diventare per lo più solitudine, impossibilità o rifiuto
a condividere con altre, oltre che con altri, il problema del se, del
come, del quando e con chi inserire nella propria vita l'esperienza della
maternità, in quali forme, secondo quali regole e priorità
liberamente scelte, affermando quali diritti e quali doveri.
Tanto più di fronte ai nuovi modi "tecnologici" di mettere/venire
al mondo.
Modi attraverso i quali sembra che il bisogno di uscire dalla solitudine,
di condividere e di comunicare un desiderio, prima ancora che di progettare
una procreazione, si traduca in un rapporto asettico e profondamente disuguale
tra donna e tecnico, tra donna e tecnica, sessualmente neutro, emotivamente
buio.
Modi che oscurano, tramite un'espropriazione visibilissima (di cellule,
ovuli, embrioni ecc.) la nuova responsabilità di ogni donna nei
confronti del proprio corpo, delle proprie potenzialità, dei "prodotti"
delle metamorfosi che dentro il corpo si verificano.
Responsabilità inedite, nel momento in cui un embrione può
essere portato fuori e poi di nuovo dentro una donna. Inedite, anche dal
punto di vista di una loro traduzione giuridica, per non parlare degli
scenari che prefigurano, alcuni davvero inquietanti. Credere, o fingere
di credere, come si fa, che l'evocazione di un presunto quanto astratto
valore-famiglia possa arginare gli esiti di queste novità, più
che essere ingenuo è in malafede.
Restringere o allargare la categoria della famiglia per garantirsi da
esiti abissalmente disumani provenienti dall'estrazione e dalla manipolazione
degli embrioni umani serve solo a ribadire l'irrilevanza dell'essere donne
di fronte alla procreazione, e la cancellazione del loro campo di responsabilità.
La procreazione passa ad altre mani, anonime, spersonalizzate.
E' in questo intero quadro che si colloca la procreazione medicalmente
assistita, ed è su questo intero quadro che occorre pensare a fondo
l'autodeterminazione.
Quest'idea, così cara al pensiero delle donne, diventa innominabile
se ogni momento della vicenda procreativa viene determinato da un meccanismo
economico e sociale, e ancor più se questo meccanismo opera anche
sul desiderio, lo plasma, lo rende adeguato alla tecnica. La quale a sua
volta si adegua.
L'idea della libertà di ricerca scientifica infatti è davvero
messa in questione dal fatto evidente che questa presunta libertà
non parla affatto di sé.
Sembrano spenti i dibattiti sul modo del conoscere scientifico (sulla
sua originaria umiltà rispetto alla teologia) nel momento stesso
in cui le scienze vanno a toccare il genoma umano.
Nessuno più sembra interrogarsi sulla relazione scienza-tecnica,
sulle finalità delle tecniche e delle pratiche che sulla scienza
si fondano: la medicina, per esempio, che cos'é? Una pratica di
prolungamento della vita umana? Una pratica di salvataggio della vita
in pericolo? Una pratica di cura del dolore che la malattia infligge?
Il dibattito è così poco diffuso e visibile che occorre
interrogarsi sulla base di sintomi: come si producono le agonie o i coma
che durano vent'anni? Come avviene che nascano e letteralmente sopravvivano
in condizioni spesso penosissime, bambini nati in maniera terribilmente
precoce?
Come, perché, sulla base di quali decisioni e di chi, e a che prezzo
vengono attivate e riattivate alcune funzioni vitali e non altre?
Forse non si apriranno davvero dibattiti di questo genere se non se ne
garantisce in qualche modo la finalità propriamente umana. Se non
si è sicuri e sicure di non scivolare verso trattamenti della materia
umana vivente, della vita umana inerme, di una disumanità senza
pari e peraltro in parte già sperimentata.
Se non si diffonde una buona pratica di riconoscimento e quindi di governo
dei propri desideri non solo all'interno delle vite personali, ma anche
nella vita sociale, professionale. Politica.
Forse non si apriranno, questa volta, simili dibattiti e simili pratiche
senza una capacità di interrogazione da parte delle donne, rivolta
al mondo intero, a partire da un'esperienza intima della fertilità
che sia riabilitata e protetta, che faccia da bussola, alle donne prima
di tutto. Ma occorrerà imporre anche un ascolto
6-06-2005
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