Reinventarsi il maschile

Andrea Arrighi
(psicoterapeuta, analista junghiano)

 

Tempi duri per il maschio, almeno quello occidentale.
Il giorno della festa del papà gli viene provocatoriamente ricordato che il genere femminile appare sempre più quotato nel mondo del lavoro e presto sarà la donna ad assumere il ruolo di capofamiglia, proprio nel senso più ‘tradizionale’ del termine, cioè come ‘soggetto ‘che mantiene economicamente il nucleo familiare’.
Se la donna ha più successo lavorativo, mette il maschio in una crisi davvero drammatica; ‘le donne sull'orlo del possesso del mondo cambiano i parametri della società dalle caverne a Facebook’ (Donne. Soldi, fama e potere ora il capofamiglia è lei di Angelo Aquaro in "Repubblica" del 19-3-12, p.29)

Ma è davvero così?
Siamo tutti consapevoli che il percorso dell'emancipazione femminile nei rapporti con l'altro sesso e le famose ‘pari opportunità’, ovvero uguali occasioni di lavoro e retribuzione per la stessa attività lavorativa, sono ben lontane dall'essere raggiunte da una significativa maggioranza di donne, nei paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi industrializzati. Sempre su ‘Repubblica’ ci viene ricordato che: ‘da Bankitalia all'OCSE il coro è unanime: il lavoro femminile è un ‘tesoretto’ da scoprire e sfruttare (...).  Se le occupate fossero sei su dieci il nostro Pil aumenterebbe del 7%" ("Perchè conviene investire sulle donne" di Cinzia Sasso, in ‘Repubblica’  del 20-2-2012). Come ricorda nelle stesse pagine Chiara Saraceno, il mercato privilegia di fatto ancora il sesso maschile ed è auspicabile rivoluzionare l'offerta di servizi e la divisione stessa dei compiti. (C. Saraceno ‘I difetti di un mercato che privilegia l'uomo’, in ‘Repubblica’ del 20-2-12, p. 25).

Sembra esserci una guerra più o meno sotterranea in corso, dove il genere maschile, pur riconoscendo e approvando l'inevitabile avanzata professionale delle donne, non riesce ad accettare psicologicamente questo dato di fatto. E la cosa appare non giustificabile, ma almeno comprensibile: Gli uomini spesso appaiono come colonialisti che devono accettare la parità di diritti e doveri di una popolazione fino a poco tempo fa ‘colonizzata’ di fatto e, in quanto tale, ritenuta ‘inferiore’. Se queste parole possono apparire eccessive, può essere utile ricordare quanto scriveva Mariella Loriga, analista e didatta junghiana, nota anche per il suo lavoro di critica ai punti di forza e di debolezza del percorso dell'emancipazione femminile e del femminismo:

‘Vorrei riprendere il tema della "psicologia degli schiavi", di cui parla T. Szasz nel libro "Il mito della malattia mentale". L'autore, facendo un paragone tra schiavitù e condizione femminile, dice che il timore di mostrarsi soddisfatto è caratteristico della psicologia dello schiavo; questi è costretto a lavorare finchè non riveli gravi segni di fatica; per riposarsi deve mostrare i sintomi di un imminente collasso. Szasz riconduce a questo meccanismo tutti i casi di esaurimento cronico, le cosiddette nevrastenie: coloro che ne sono affetti, dice, sono inconsciamente in sciopero verso le persone con le quali hanno un rapporto di sottomissione e contro le quali sono in continua - ma segreta e quindi inutile - ribellione (Naturalmente però si potrebbe qui notare quanto spesso la donna strumentalizza la propria sofferenza, tramutandola in una forma di pressione nei confronti dell'uomo). Affermazioni come quelle di Szasz possono sembrarci eccessive: è difficile riconoscersi nel ritratto dello sfruttatore, ma anche in quello dello sfruttato. Per secoli il condizionamento della donna alla subalternità è stato tale che essa non poteva neanche accorgersene, che sembrava connaturato in lei. Oggi possiamo forse sperare che le donne comincino a vivere la loro sofferenza non come qualcosa da accettare, da subire per scontato (la famosa maledizione biblica), ma come un punto di partenza.’
(Loriga, M. L'identità e la differenza. Conversazioni a Radiotre su donne e psicoanalisi, Bompiani, 1980, Milano, pp.26-27)


Personalmente credo basti riflettere sul recentissimo riconoscimento per le donne del diritto di voto, che nel nostro paese arriva solo all'indomani del secondo conflitto mondiale.
La negazione di questo diritto è come la certificazione ufficiale di un’ inferiorità ‘naturale’:  per appartenenza ad un genere, quello femminile, ritenuto, non idoneo a scegliere il governo di un paese.  E questo è solo uno dei numerosi possibili esempi.
Le pari opportunita,  se applicate veramente, implicano un rivoluzionario cambiamento in termini di ruoli e compiti. Se è sempre la donna a partorire, dopo la gravidanza e il parto, l’accudimento  dei bambini dovrebbe essere equamente diviso tra i due partner, ognuno dei quali con pari diritto ad una vita professionale, oltre che coniugale ed affettiva. 
Quello che vediamo, per ora, è spesso una sorta di corsa agli opposti: uomini che decidono di fare loro ‘la casalinga’ o il ‘mammo’, riproducendo una nuova divisione dei ruoli. Stesso discorso per la ‘donna in carriera’, che necessita di badanti/baby sitter quasi full time, o di un uomo che svolga, sicuramente con qualche perplessità e incompetenza il ruolo unilateralmente casalingo che la donna ha svolto fino a poco tempo fa e spessissimo svolge ancora oggi.
Da un lato abbiamo quindi uomini che non si fanno apparentemente, grossi problemi a rinunciare agli stereotipi maschili più duri a morire: lavano i piatti, puliscono la casa con rigore e impegno, accudiscono i bambini, sentendosi quasi ‘materni’. A volte hanno anche qualche lavoretto part-time, come le donne di una volta. Per tanti altri, credo la maggior parte, abbandonare gli stereotipi che vogliono il maschio ‘forte’ e soprattutto autonomo, non solo in termini lavorativi ma anche come ‘eterno dongiovanni’ o con una notevole quantità di tempo libero da passare fuori casa, è durissima.

Lea Melandri sintetizza bene la questione

"Quando comincia questa differenziazione così violenta? La madre è già collocata nella storia, per millenni le donne si sono pensate solo come madri e l'allarme degli uomini è scattato, non a caso, quando le donne hanno iniziato a svincolarsi dal ruolo obbligato di madri. Delle violenze che conosciamo molte avvengono su donne che hanno un'istruzione e una posizione all'interno della società, perchè è lì che si manifesta la nuova consapevolezza che hanno di sè, la loro libertà di decidere la propria vita. Il momento in cui scatta la violenza è quasi sempre quello della separazione, quando gli uomini sentono e realizzano la loro dipendenza dalla donna. Senza questi letti rifatti, quei panni stirati, quei figli accuditi - notava già Virginia Woolf - non ci sarebbe stata nessuna civiltà, nessuna opera pubblica. Ma quando si accorgono gli uomini che la vita pubblica dipende dal sostegno della garanzia che hanno nel privato? Se ne accorgono quando le donne non fanno più figli. La denatalità inquieta. La comunità storica degli uomini ancora si illude di avere, nella vita pubblica, una libertà che non ha."
(Melandri, L. - Ciccone, S. "Il legame insospettabile tra amore e violenza". Effigi, Arcidosso, 2011 pp.45-46)


Ecco appunto, l'uomo questo sostegno nel privato e libertà nel pubblico non sembra più averli, a parte il notevole divario tra leggi scritte e vita reale.
A mio parere è stata anche la crisi del maschile, proprio per come si è imposto alle donne e a se stesso, che ha messo in dubbio queste libertà maschili e i tanti stereotipi ad esso connessi. Il modello dell'uomo guerriero, ad esempio, si sgretola notevolmente, forse definitivamente, di fronte al fatto che le guerre in quanto tali sono sempre meno auspicabili. Conseguenza non tanto di un generico impegno pacifista o di una maggiore consapevolezza di costi e benefici, ma del fatto che si sta ricreando una situazione simile alla guerra fredda, solo più generalizzata, come nota il filosofo Severino nel suo "La guerra" (Rizzoli, Milano 1992).

In buona sostanza, se tanti paesi dispongono di armi atomiche, anche in piccola quantità, il rischio che un conflitto locale possa estendersi non è più relegabile ai film di fantascienza. Proprio perchè la guerra in generale è diventata eccessivamente rischiosa, il modello del "guerriero" viene radicalmente messo in discussione.
Certo il pianeta è ancora pieno di conflitti armati, ma sono le stesse grandi potenze, a porre freni prima di iniziare una nuova guerra. Risulta sempre più difficile giustificare davanti alla pubblica opinione che:
1) Le vittime delle guerre passate e recenti sono state soprattutto o in egual misura civili inermi, come sostenuto, in "Bombing Civilians: A Twentieth-Century History" (Di Y. Tanaka e M. B. Young, New Press, 2010) e in "Soldaten. Protocolli del combattere, dell'uccidere e del morire" (di N. Sonke e W. Herald, tr. it Garzanti 2012)
2) Si sta sgretolando l'idea ritenuta più o meno indiscutibile che la guerra sia il motore del progresso, come riferisce lo storico inglese J. Giddings, parlando del suo saggio "La gloriosa arte della pace. Dall'Iliade all'Iraq (Oxford University Press, 2012), in una recente intervista ad Ennio Caretto su "La lettura", inserto del  "Corriere della sera" del 29-4-12.

Durante i conflitti mondiali del ‘900 le donne hanno significativamente portato avanti il discorso delle pari opportunità, vedendo che erano loro, il "sesso debole", a portare avanti quello che restava della vita familiare e sociale. Con la crisi della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti, e con un ulteriore notevole passo verso il riconoscimento della parità tra generi femminile e maschile, veniva dato un durissimo colpo anche al concetto stesso di virilità, spessissimo associato alla guerra come giusto mezzo per conquistare nuovi territori, risolvere controversie e far diventare i maschi "veri uomini". (Bellassai, Sandro "L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea", Carocci, Roma, 2011).
Il modello della guerra può essere ulteriormente messo in questione, senza parlare di armi nucleari come deterrente, se, a parte la morte stessa, andiamo a vederne i risvolti più atroci. Aspetti che si mostrano se mettiamo a nudo la fragilità dei soldati stessi, quelli più addestrati ed economicamente più supportati, come gli americani. E' una fragilità legata proprio ad un eccessivo scarto tra indottrinamento militare e realtà grezza del combattimento stesso. Come nota Zucconi

"L'edificio psicologico costruito nei soldati  dall'addestramento e dall'indottrinamento, puntellato dalla retorica del <<Siamo tutti con le nostre truppe>>, si sbriciola al primo contatto con la realtà. Resta soltanto quella domanda che proprio George Bush pose a se stesso più volte: <<Ma perchè ci odiano tanto?>> alla quale il soldato non ha spesso altra risposta che odiare a propria volta. E quindi urinare sui cadaveri. Bruciare libri sacri. Sparare sugli inermi. Fare agli altri quello che hanno fatto o vorrebbero fare a te. Si piange su vecchi, donne, bambini, civili di ogni età caduti, come se da decenni essi non fossero affatto il <<danno collaterale>>, <<l'errore del quale scusarsi>>, ma l'obbiettivo principale degli attacchi. E tutti lo sanno. Non esisteva nessuna ragione tattica per radere al suolo Coventry o Dresda, per incenerire Hiroshima o Nagasaki, città di retrovia, per demolire casa per casa una Berlino già morta nell'aprile del 1945. La motivazione strategica, da quando l'aviazione è divenuta un'arma fondamentale, era far strage di civili per spezzare il morale ai combattenti. Perchè dunque il soldato americano che è entrato imbracciando il suo <<unico amico>>, il fucile automatico, nelle case di Kandahar e ha <<innaffiato>> di proiettili chiunque fosse a tiro, dovrebbe provare più inibizioni dei generali che ordinano i bombardamenti a tappeto e le salve di missili dagli elicotteri, dai droni dagli aerei
(V. Zucconi "Dal Vietnam all'Iraq quell'orrore che insegue i soldati al fronte. Così l'odio cancella la pietà e scatena i massacri." In "Repubblica" del 12-4-12, p.9.)


La guerra stessa, quindi, viene svuotata di senso. La guerra di oggi e molto probabilmente anche quella del passato meno recente. Ed essendo essa, almeno nella cultura patriarcale, collegata principalmente col maschile, è il maschile stesso ad essere
seriamente messo in discussione nei suoi ruoli e nel suo immaginario. Anche i famosi "obbiettivi umanitari" sono ben lontani dall'essere raggiunti, come nota sempre Zucconi, rispetto al ritiro USA dall'Afghanistan nel 2014,
 "la democrazia non c'è, resta l'orrore. Ci sono - lo scrive la CNN - ancora 400 donne afgane in carcere per <<crimini sessuali>> e i Taliban si preparano a riprendere in mano il Paese. Niente di nuovo sul fronte orientale."
E a proposito di "crimini sessuali", un saggio dell'analista junghiano Luigi Zoja descrive bene il fenomeno dello stupro di gruppo come pratica tollerata se non incoraggiata della guerra di tutti i tempi. Se pensiamo al rapporto uomo-donna, le guerre, da quella di Troia fino ai recenti conflitti etnici nella ex Iugoslavia o in Ruwanda, sono state pretesto per stuprare liberamente le donne dei paesi che di volta in volta avevano la peggio in un conflitto. Le donne sono state da sempre considerate "bottino di guerra". Secondo Zoja

"Più delle donne, i maschi hanno plasmato le tradizioni (...) hanno spesso trattato le donne come una proprietà. I vichinghi, quando le loro donne venivano violentate, le uccidevano. (...) Così, i maschi plasmano anche gli eserciti: i quali, con la modernità, sono sempre più attenti alla preparazione psicologica dei soldati. L'addestramento militare per la guerra nel Vietnam prevedeva un'enfasi assoluta sulla mascolinità e non solo un disprezzo, ma un vero e proprio odio per ciò che è femminile. Fra i marines, per creare una solidarietà maschile nel gruppo, si cercava di uccidere la donna che è in ognuno di loro. C'è da stupirsi se, con questa rieducazione dello spazio interiore, fossero propensi a uccidere anche la donna che incontravano nello spazio esterno? La uccidevano, però, dopo averle fatto violenza in comune, dal momento che (...) lo stupro di gruppo era considerato essenziale perchè gli uomini potessero legare tra loro. Questo chiarisce perchè, nei fatti, il crimine era difficilmente perseguito e gli istruttori militari arrivavano praticamente ad incoraggiarlo. Con la guerra, sembra che una "centaurizzazione" dei soldati - una subcultura della violenza sessuale - nasca quasi in modo autonomo.
(Zoja Luigi, Centauri,  Mito e violenza maschile,  Laterza, 2010, Roma-Bari, pp. 90, 91)

 

Queste ultime considerazioni non mirano ad una "demonizzazione del genere maschile", peraltro giù espressa dal femminismo più estremo, quanto ad evidenziare un'eredità psicologica pesante con cui ogni maschio deve confrontarsi, in tempi di crisi profonda di tutto ciò che è stato per tempo immemore connotato come "maschile". Come l'Occidente  nel suo insieme, così come ogni cultura e nazione, il maschile deve conoscere ed elaborare il proprio passato, nel bene e nel male e col "senno di oggi", per cercare di non ripetere errori ed orrori avvenuti e rinforzare quanto di positivo la Storia è riuscita a produrre.
E’ utile ricordare che la donna è stata spesso complice del sistema patriarcale. Un esempio storico eloquente, a mio parere particolarmente significativo, è quello sintetizzato dal colloquio concitato tra Maria Montessori e la madre del giovane dottore di cui era innamorata e che diventerà il padre di suo figlio. Una produzione televisiva recente (Maria Montessori. Una vita per i bambini, di G.M. Tavarelli, 2007) mostra bene l'alleanza sotterranea tra un certo femminile e il patriarcato dominante: la madre del dottore scoraggia e minaccia Maria rispetto all'idea di sposare suo figlio. Il motivo? Lei, la Montessori, è una donna che potrebbe mettere in ombra professionalmente, e non solo,  il giovane dottore, anche lui in carriera. Secondo la madre, Maria non è abbastanza "donna tradizionale”. La Montessori, incredula che il suo uomo possa accettare seriamente un discorso simile, anche se fatto da sua madre, dovrà prendere atto di essere troppo avanti, non solo a livello professionale, medico e psicopedagogico, ma anche nella sua idea di rapporto paritario tra uomo-donna.
Un punto dove entrambi i generi sono chiamati a confrontarsi sono certamente le relazioni sentimentali. Qui, effettivamente, il legame insospettabile tra amore e violenza, come lo descrivono Lea Melandri e Stefano Ciccone, appare una sfida drammatica. Spesso, come psicoterapeuta, ho lavorato in relazione a questo legame: coppie dove la violenza è costante e dove spesso la donna, pur avendo la peggio, con grande difficoltà riesce a liberarsi della relazione stessa. Una novità sono le donne che cercano di andare oltre la spontanea demonizzazione del maschio, cercando di capire meglio la loro complicità, quella di donne fedeli, dipendenti comunque da uomini violenti- Fatte le leggi, il percorso è necessariamente lungo, per una parità psicologica tra uomo e donna. Oggi sembra esserci una sorta di ritorno, forse non molto convinto, a stereotipi passati. Come sintetizza Bellassai, parlando di note trasmissioni televisive

"Stagione dopo stagione, si sono riaffermati antichi concetti: l'uomo è cacciatore, deve puzzare (concetto ribadito proprio in una storica puntata di "Uomini e donne"), la sua sposa deve essere una brava ragazza e ricevere l'approvazione della futura suocera" (Bellassai, cit, p. 159)
Del resto gli stessi uomini appaiono ancora pigri rispetto ai lavori domestici, e le donne poco inclini ad educare i giovani figli maschi al riguardo o a delegare questo stesso tipo di lavori agli uomini, come racconta Elvira Serra in un articolo del "Corriere della sera" del 13-5-12
("Quei mariti pigri in casa devono fare di più". Il ministro Fornero e la divisione dei lavori domestici. p.25), ricordando alcuni dati Eurispes 2011 sugli uomini italiani: 55,4% degli uomini non fa mai la lavatrice; 68,6% non usa mai il ferro da stiro; 37,9% non fa mai le pulizie; 32,4% non rifà mai il letto; 50,5% fa le riparazioni spesso o sempre. Il 71% del lavoro domestico ricade sulle donne. E anche tutto il "lavoro" di accudimento dei genitori anziani e dei figli è lasciato al genere femminile, salvo rari casi.
Secondo M. Loriga oggi è l'uomo ad essere particolarmente in crisi e ad avere le maggiori difficoltà, dato che per secoli la cultura e la società sono state dalla loro parte. L'aumento della violenza sessuale, oppure il voler "essere come la donna" attraverso omosessualità e travestitismo sono sintomi di questo disagio.
Tuttavia, nota Bianca Napolitani, nel testo di Loriga

"Credo proprio che la crisi attuale  sia una crisi dell'uomo e della donna; che non si possa fare una scissione per cui l'uomo è il <<cattivo>>  e la donna è la <<buona>>, perchè anche all'uomo sono stati strappati certi valori; quando gli si consegnava da bambinetto il fucile piuttosto che un bambolotto, l'uomo sentiva che una certa sfera affettiva gli veniva negata, così come la donna sentiva proibita per lei una sfera di produzione intellettuale e sociale. (Cit, p.30)

Le donne stesse devono stare attente a non abbracciare entusiasticamente modelli nuovi che subdolamente ripropongono la loro subalternità. E' quanto fa notare Elisabetta Rasy recensendo La mistica della femminilità  dell'americana Betty Friedan.
Il libro ripubblicato da Castelvecchi a distanza di cinquanta anni. pare ancora offrire spunti di riflessione attualissimi.  Rasy nota che oggi troviamo modelli apparentemente libertari e progressisti che ripropongono alla donna una "nuova" subalternità al maschio.

"Oggi, quello della casalinga soddisfatta non è più un'icona, in compenso altre se ne propongono non meno insidiose: da quello della donna in carriera che però contemporaneamente è anche una madre esemplare, che non rinuncia a una perfetta forma fisica e ha una gestione del sesso astuta e interminabilmente seduttiva, fino a quello delle ragazze che vendono il proprio corpo rivendicando orgogliosamente e narcisisticamente la propria scelta. Betty Friedan con le sue argomentazioni semplici insegna che la mistica della femminilità cambia aspetto ma non sostanza: ogni volta che le donne rinunciano a essere persone integre e responsabili per esaltare solo la maschera sottomessa oppure aggressiva della loro sessualità, ogniqualvolta si mettono a recitare la femminilità come una parte in commedia, la mistificazione - stessa radice di mistica - è sempre in agguato.
("La mistificazione della parità" di E. Rasy in "La Domenica del Sole 24 ore", 22-4-12, p.23)

Concludendo, a quale modello potremmo ispirarci, per sperare in un futuro anche lontano paritario davvero?
A volte penso alla mitologia di ogni cultura, non solamente a quella dell'antica Grecia, anch'essa fortemente patriarcale. Considerando la mitologia di tutto il mondo, forse, troviamo figure femminili forti, con un' importanza sociale e culturale pari a quelle maschili.
Dobbiamo sperare in un confronto conflittualmente costruttivo, anzichè sclerotizzato in una guerra perenne dove l'obiettivo è relegare uno dei due generi al ruolo di "sesso debole o inferiore". Si pensi anche a quanti stereotipi "inferiorizzanti" le donne creano, tra di loro più o meno ironicamente, verso il maschile, per reazione!

Riconoscere pari dignità e uguaglianza di diritti e doveri, abbandonando l'ipotesi dell'esistenza di un "sesso debole", e rintracciare invece le differenze di genere complementari tra loro, non svalutanti per nessuno. Questo potrebbe essere un punto di partenza.
Sarà possibile lavorare in questa direzione?

 

Per info e commenti: www.andrearrighi.it

 

18-06-2012

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