Religioni in guerra contro l’insidia dell’ateismo
di Lea Melandri


Carla Accardi


La pedagogia con cui si vorrebbe risanare l’Italia dall’insidia dell’ateismo, considerato la fonte prima di ogni decadimento morale, passa con sempre maggiore frequenza attraverso i cerimoniali religiosi, i convegni della Cei, e i talk show televisivi. A colpi di versetti biblici e coranici, che chiunque si sente ormai di impugnare come arma per zittire l’avversario, si fa strada una pericolosa lezione di inciviltà, che il nostro Paese e il mondo intero potrebbe pagare a caro prezzo.

Parlando dell’Islam “cupo” che sta diffondendosi rapidamente nella “più laica delle nazioni arabe”, un’intellettuale tunisina intervistata da Guido Rampoldi per La Repubblica (22.10.06) indicava, tra le cause di una così sorprendente regressione, la “stupidità” europea: «Quel vostro modo grossolano di discutere del velo: allucinante. A me il velo ripugna, ci vedo qualcosa di fascista. Ma se in Europa lo proibite nel modo più rozzo e punitivo, ne fate inevitabilmente un simbolo dell’identità araba; a quel punto metterlo diventa un punto d’onore, non metterlo una viltà. Per vietarlo finirete per imporlo a una intera generazione di immigrate».

Ciò significa che, là dove non hanno avuto presa l’oscurantismo, l’intimidazione di un capofamiglia o di una comunità, può agire il potere vincolante di leggi promulgate in nome della libertà femminile. Ma di questa palese, paradossale contraddizione, non sembrano curarsi le promotrici, all’interno del parlamento, di cordate trasversali - la “lobby rosa” proposta da Livia Turco -, convinte che l’abbandono di un velo dai molti significati, possa diventare un sicuro, visibile attestato di integrazione. E’ così che, con irresponsabile incuria, inconsapevole disattenzione, o malizia politica, ci si può intrattenere nel salotto di Bruno Vespa (Porta a Porta, lunedì 22.10.06) indifferentemente sul velo o sulla lapidazione di un’adultera ad opera di militanti di Al Quaeda in Iraq, come se fossero la stessa cosa, e come se i roghi con cui l’Inquisizione cattolica ha bruciato milioni di donne accusate, per le ragioni più varie, di “stregoneria”, fossero stati accesi non da una mano assassina ma da un fuoco purificatore. Non a caso nessuno dei presenti se ne è ricordato.

Puntati i fari dell’indignazione sull’Islam “barbaro”, divenuto immagine unica di una civiltà multiforme, maschera deformante in cui si dovrebbero riconoscere milioni di musulmani oggi cittadini europei, spariscono secoli di storia, per lasciar posto alla tranquillizzante amnesia di “cristiani rinati”.

Quanto si può regredire per ignoranza, rassegnazione, senso di impotenza, cecità indotta da messaggi martellanti, sorretti da sapienti scenografie, dalla complicità insospettabile delle massime autorità istituzionali, dalla miseria crescente di luoghi collettivi di riflessione e “vita attiva”, come direbbe Hannah Arendt?

L’odio è il peggiore dei virus, proprio perché raramente si riesce a isolarlo dalla maschera di vittimismo con cui da sempre si accoppia e si confonde, così come è difficile interrogare il circolo vizioso di azioni e ritorsioni, fomentato da partigianerie opposte e speculari. Nell’estrema confusione in cui sembra caduta una società in mutamento, nella lontananza sempre più palpabile tra interessi considerati prioritari dalla politica e le preoccupazioni della vita quotidiana, può capitare che anche una visione apocalittica, distruttiva di faticose conquiste della coscienza storica, possa, come è avvenuto al recente convegno dei cattolici a Verona, essere celebrata quasi unanimemente come una ripresa della “missione spirituale” della Chiesa.

Mi chiedo come Rosy Bindi abbia potuto leggere, nel discorso del Papa tenuto in quell’occasione, un richiamo al Vangelo, come non si sia accorta, lei così attenta a distinguere e mediare tra il suo credo religioso e il suo impegno politico, che è proprio nella progressiva “secolarizzazione” della politica, e della religione stessa, che Papa Ratzinger vede la “crisi di valori” e la “perdita di senso” dell’Occidente.

Chi critica, con buone ragioni, la sharia, che non prevede alcuna distinzione tra legge di Dio e legge di uno Stato, non sembra guardare con la stessa attenzione e con uguale giudizio la prospettiva che si va disegnando nella “lezione” che viene oggi dai massimi rappresentanti della Chiesa, quando affermano la necessità del “ruolo guida” dei cattolici nella nazione italiana, l’impegno dei fedeli laici ad “opporsi a scelte politiche che contraddicono valori fondamentali”, come quello della vita, della famiglia basata sul matrimonio, delle scuole confessionali.

Dire che “Dio è escluso dalla cultura e dalla vita pubblica”, nell’Occidente democratico, erede di una lunga tradizione religiosa, sede del Capo della Chiesa, può significare semplicemente che sta diminuendo il numero dei credenti o la frequentazione del culto, che una parte sempre più estesa di cittadini si orienta secondo principi etici, convinzioni culturali e politiche, maturati al di fuori del cattolicesimo, non perciò deboli e perversi.

Ma non è questo l’intendimento di una Chiesa che i suoi vertici vorrebbero oggi collocare nel cuore dello Stato, come fonte prima e unica dei suoi assunti etici e legislativi in materia di sessualità, nascita, morte, sofferenza, famiglia, educazione; una Chiesa che teme l’ “indifferenza” più che l’“ostilità”, disposta, per dare maggior peso alla sua “sfida”, a creare imprevedibili sinergie con i “molti e importanti uomini di cultura” che, pur non avendo la stessa fede, “avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”.

La legge coranica, pur condannata, è lì a ricordare al cattolicesimo insidiato dal “secolarismo” incombente, dalla disaffezione dei suoi stessi fedeli, di quanto, al contrario, l’Islam goda oggi di un forte “risveglio religioso, sociale e politico”. L’allusione ai legami tra l’Islam e il terrorismo, rimarcati ogni volta dal Papa e dal cardinal Ruini, perché siano chiare le differenze tra il Dio cristiano dell’amore, della ragione, e il Dio guerriero, violento, di Maometto, non deve trarre in inganno. “Scontro” e “dialogo” interreligioso vanno a braccetto, quando si tratta di piegare la politica, la coscienza dei popoli, ai superiori, imprescindibili dettami di una verità trascendente.

Di fronte alla crisi che attraversa il mondo, cristiani e musulmani sono chiamati da Ruini a “operare insieme per la gloria di Dio e per il bene di tutti gli uomini”, e, soprattutto, perché quello che è in gioco oggi è “la credibilità delle religioni” e dei “capi religiosi” (Corriere della sera, 21.10. 06).

Rispetto reciproco e difesa dei contenuti della propria fede sono esattamente i termini con cui Samuel Huntington definisce il non più tanto avveniristico “scontro di civiltà”.

In confronto a questa fede agguerrita, determinata a riprendersi “piena cittadinanza” nella vita pubblica, con direttive precise culturali e politiche, appare invece davvero futuribile la posizione assunta dall’arcivescovo di Canterbury, passata non a caso come notizia di giornata, e priva di seguito. Vale la pena di riportarla alla memoria, anche solo per rendersi conto di quanto l’attuale, confuso dibattere di violenza contro le donne e fanatismo religioso sia ancora distante dall’afferrare i nodi di fondo della confusione tra religione e politica, del legame tra patriarcato e oppressione femminile.

L’uso di una terminologia maschile per indicare Dio nella Bibbia e nelle funzioni religiose - ha detto facendosi autocritica il massimo rappresentante della Chiesa Anglicana -, finisce per incoraggiare la sottomissione della donna all’uomo e perfino le violenze domestiche contro le mogli. Allo stesso modo, l’esaltazione della Vergine Maria, può spingere le vittime di violenza a perdonare, a non sporgere denuncia (La Repubblica 4.10.06).

Un incontro tra religioni, e tra religione e politica, fuori da logiche di inglobamento reciproco, non può che partire dalla critica del maschilismo da cui traggono, sia pure in modi diversi, il loro fondamento. Ma quanto è pensabile questa svolta per la Chiesa di Roma e per la nostra classe politica?
 


questo articolo è apparso su Liberazione del 26 ottobre 2006