Violenza: la parola ai maschi

di Miro Renzaglia


da Torniamoinpiazza


Fino a qualche anno fa in Italia, il 25 novembre – giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne – passava quasi inosservato. O non c’eravamo resi conto di quanta violenza subivano e subiscono le donne, o facevamo finta di non accorgercene. La denuncia, per lo più inosservabile dall’opinione pubblica,  era affidata alle volontarie che lavorano nei centri antiviolenza e poco altro. Non so se sia una fortuna, perché sarebbe di gran lunga preferibile che di questa “emergenza internazionale” come la definisce il Presidente Napolitano, non se ne dovesse più parlare ma, visto che le cose sono di gran lungi da questo approdo, è bene che al fenomeno, e alla data di richiamo, sia data la rilevanza che ha su tutti i media.

Eppure, in tutto questo passa parola mediatico c’è qualcosa che non mi torna, che non quadra, che sposta il problema. Sembra quasi una giaculatoria per esorcizzare un male generico. Un male che riguarda il mondo, riguarda gli altri, non riguarda noi. Noi uomini, intendo, (anche) italiani. Eppure i dati parlano chiaro. E parlano di noi. Una donna su tre nella sua vita ha subito violenza. Il 90 per cento delle volte tali episodi avvengono in famiglia, tanto che il Consiglio d’Europa (sulla base di una percentuale fornita da Amnesty International), denuncia la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne europee tra i 16 e i 40 anni come causata dalla violenza esercitata da mariti, padri, fratelli, conviventi o ex di ogni tipo. Sono uomini che dicono di amare le donne, di amarle tanto fino al punto, nei casi più estremi, di ucciderle.
 
Dati che dicono come la violenza sulle donne non si riferisce all’India, all’Africa, o ai paesi cosiddetti fondamentalisti. Il fondamentalismo è qui, a casa nostra. Eppure, quando se ne parla, tutta l’attenzione è spostata sulla donne, mentre scompaiono come d’incanto i soggetti che la producono. Gli uomini coinvolti sono senza volto, senza identità, senza nome. La cronaca ne dà conto solo quando gli autori del delitto si posso “mostrizzare”, quando, cioè, la violenza assume una valenza eccezionale che, rendendola unica, in qualche modo la rende più lontana, più strumentalizzabile. Ma – lo ripeto – questo tipo di violenza maschile particolarmente diffusa e vile non ha niente d’eccezionale, niente di apparentemente mostruoso. E’ una terribile normalità che si annida nel quotidiano rapporto di coppia e di modello di famiglia costruito in millenni di storia,  come ha spiegato benissimo Lea Melandri nell'intervista di Annalisa Terranova, pubblicata ieri su questo giornale.

Il punto, allora, è un altro. Se davvero si vuole sconfiggere la violenza maschile contro la donna, non si può che passare attraverso una messa in discussione del nostro “essere” uomini, della nostra identità, del nostro modo di vivere il rapporto con l’altra. E’ il passaggio più difficile, perché investe tutto di noi, tutto il nostro modo di stare nella società, nelle relazioni e nella politica. Fin qui si è scelto di combattere la violenza con politiche repressive che, guarda caso però, hanno puntato i riflettori non nelle case, dove il fenomeno è straordinariamente maggioritario, ma nelle strade e nei parchi dove gli autori dei pochi casi emergenti hanno per lo più come attori del delitto i migranti, i presunti colpevoli di tutto. Un modo comodo, insomma, per depistare e mistificare. Vale la pena ribadirlo: la violenza, almeno questa, ci rende tutti uguali. E dicendo “tutti”, mi riferisco alle nostra stessa patente di uomini.

Non serve dire: io non sono così, io non mi comporto così. E’  solo un altro modo per deresponsabilizzarci. La violenza contro le donne non è frutto della cattiveria, di impazzimenti, né di raptus di qualcuno di noi. Nasce dentro il rapporto uomo/donna ed è intrinsecamente collegata ai ruoli del maschile e del femminile. Evidentemente, serve un salto di qualità e una ridiscussione proprio di questi ruoli. E dobbiamo essere noi maschi a pretendere di essere chiamati in discussione ogni volta che una donna subisce un qualsiasi tipo di violenza. Perché su questo, non abbiamo riflettuto bene. Non abbiamo riflettuto abbastanza.

E, per farlo, potremmo partire, per esempio, da Pierre Bourdieu che in uno dei suoi libri più noti e intensi, Il dominio maschile (Feltrinelli, 1988) dimostra come la costruzione del maschile e del femminile non abbia nulla di naturale e che quanto consideriamo oggettivo, cioè il dominio di un sesso sull’altro, su altro non è fondato che su un principio culturale di subalternità indiscutibile, in quanto: «La forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi». Come ogni ordine, può essere infranto ma per farlo non basta l’atto di volere del dominante che fa concessione al dominato di una generosa parità (tanto per fare un esempio: le famose “quote rosa” di rappresentanza politica). E’ necessario, invece, che il maschio rinunci a quel «non» (della citazione sopra riportata) convincendosi che la sua forza, invece,  «deve» essere sempre e comunque giustificata dall’altra. Dove il “giustificarsi” ha un senso di giustizia condivisa. E’, ovviamente, un percorso ben più difficile da compiere, ma qualcosa si muove.

E si muove anche da noi. In Italia, è in corso una elaborazione del fenomeno in cui gli uomini iniziano a prendere parola non in maniera neutra ma come soggetti sessuati. Soggetti consapevoli, cioè, dalla propria parzialità. L’Associazione “Maschile Plurale” (anche in rete: www.maschileplurale.it), da anni fa questo lavoro a livello nazionale e sabato scorso, proprio in occasione della giornata internazionale contro la violenza maschile, ha convocato a Roma un presidio con il documento “Da uomo a uomo”. Un documento per dire che la violenza contro le donne è qualcosa che riguarda la nostra identità maschile, ma anche la nostra libertà di produrre dinamiche di cambiamenti sociali che convengono a tutti. Concetto che ritorna nel libro di uno degli esponenti di “Maschile Plurale”, Essere maschi, tra potere e libertà di Stefano Ciccone (ed. Rosenberg &Sellier, pp. 252, euro 18). L’autore ci mette davanti alla questione più importante: «Un uomo può schierarsi per la parità tra i sessi nell’accesso al potere o al reddito, può battersi contro la violenza sulle donne o la mercificazione dei loro corpi, può affermare il loro diritto a decidere del proprio corpo e a determinare le proprie scelte riproduttive. Ma se ascolterà fino in fondo ciò che queste scelte portano dentro di sé, vedrà che non parlano soltanto delle donne, ma parlano di lui, del suo rapporto con il proprio corpo, con la sua identità di uomo…».

Finora abbiamo fatto esattamente il contrario. Anche gli uomini più sensibili, più attenti hanno pensato che parlare del rapporto uomo/donna fosse una concessione alle altre. Un atteggiamento “politicamente corretto” ma che resta tutto al di qua del ripetersi meccanico della dinamica dominante/dominato e che, nel migliore dei casi, non va al di là delle buone intenzioni. Vicende come quelle Berlusconi/escort o Marrazzo/trans, hanno fatto irrompere il pubblico nel privato, dimostrandoci come cose che pensavamo non incidessero nella politica – sentimenti,  desiderio, sessualità -  riguardano da vicino non solo il potere ma la società stessa che viviamo e quella che vorremo costruire.

 

29-11-2009

 

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