Giornalismo codardo e narciso
di Marco Revelli


 

Proponiamo questo articolo, apparso su Liberazione del 9 novembre 2004, che è stato scritto da un uomo, per due motivi: denuncia l'attacco odioso portato a due donne, Simona Pari e Simona Torretta, e conduce un'argomentazione di notevole lucidità e per nulla scontata.


Sono tante le "questioni" che affliggono oggi l'Italia. C'è, senza dubbio, una "questione politica". O meglio: un'"emergenza politica" legata al grado estremo di degrado del berlusconismo al governo. E c'è, connessa strettamente a questa, una "questione morale". Per non parlare dei mille frantumi in cui si è scomposta la "questione sociale". Ma vi è, altrettanto clamorosa e troppo spesso taciuta, anche una "questione culturale", chiamiamola così, che trova il punto di maggiore evidenza e di più visibile caduta nello stato del giornalismo italiano. Un problema che riguarda direttamente le forme e i modi che ha assunto l'informazione nel nostro paese, e che come tale ha molto a che fare con la caduta di livello della politica e del ceto politico.
Non si tratta tanto - o comunque non si tratta solo - del controllo diretto esercitato dal capo dell'esecutivo su una parte spropositata dei sistema dei media. Anche di questo, non lo sottovaluto. Ma mi riferisco soprattutto a un aspetto meno contingente, per così dire, più profondo e strutturale, che attraversa il mondo dell'informazione e chi la fa. Che riguarda - mi si passi il termine - l'antropologia del nostro giornalismo, berlusconiano e no, schierato o formalmente "indipendente". Ecco, se la cosa non appare troppo offensiva, parlerei di una sorta di "degrado antropologico" del giornalismo italiano. Di un suo involgarimento e impoverimento. Di una forma patologica di superficialità e di resa al più vieto senso comune. Di una connaturata codardia di molti suoi protagonisti, a cominciare dalla maggior parte dei direttori dei giornali.

Ci sono i casi-limite. Si pensi a "Libero" e dintorni: la scelta esplicita, calcolata e sciaguratamente realizzata, di immettere nello spazio pubblico - in quello che un tempo era il luogo della "pubblica opinione" - la spazzatura mentale dei sottofondi della società.

Ciò che un tempo, per giustificata vergogna, veniva solo sussurrato nei vicoli, nelle bettole, nel buio di un bar - umori rancorosi, invidia sociale, immagini deformi dell'"altro" stimolate dall'ignoranza o dal malanimo, illazioni oscure, malignità, sospetti indimostrabili - e che ora viene invece sbandierato nei titoli. Elevato a "voce pubblica". Squadrismo informativo travestito da "scapigliatura". Mimesi del pugno e dello schiaffo marinettiani trasferiti dall'avanguardia alla curva sud degli stadi, con tutta la carica di sottocultura plebea che ciò comporta.
E' anch'esso un segno dei tempi: ci dice molto della natura di questo populismo fin de siècle che da rancore metropolitano si è fatto ministerialismo. E ci dice anche molto di un mondo giornalistico che anziché costituire "comitati etici" (come per la manipolazione genetica e le cellule staminali) per difendersi dall'inquinamento ambientale di un tale uso della professione (certi titoli su Enzo Baldoni o sulle "due Simone" non meritavano almeno questo?), abbozza e tollera con omertà.

C'è poi però, oltre il caso-limite, un altro aspetto che riguarda il giornalismo italiano - questa volta la maggior parte del giornalismo italiano -, e che costituisce, temo, la sua vera malattia. Comunque quella parte di malattia da cui è più difficile difendersi e immunizzarsi. Ed è la sua crescente incapacità di "vedere". Che non significa "cecità" ma "autoreferenzialità". Lo scambiare sistematicamente il (proprio) virtuale con il reale. Il cadere nel proprio stesso gioco di specchi scambiando l'immagine di sé che è riflessa con il profilo del mondo e delle cose. Con questo tipo di "sguardo", intanto non si vedono più le "persone" che stanno dietro la "notizia". E poi non si vedono più nemmeno le cose. Neppure gli eventi che si dovrebbero riferire. Quanti sono i giornalisti italiani che vanno a "guardare" ciò di cui parlano? Che vanno a cercarsi la "notizia"? Pochi. Si contano sulle dita di una mano. C'era Terzani, mai abbastanza rimpianto. C'è Bernardo Valli, talvolta Zucconi. C'è Giorgio Bocca, uno che finché le forze l'hanno sorretto di chilometri ne ha fatti tanti a scandagliare tra le pieghe della società, e che ora giustamente agita la frusta, come d'altra parte Stajano. E pochi, pochissimi altri. Quasi tutti se ne stanno chiusi in una camera a spiare sul video e tra le agenzie, pronti a sciorinare le proprie eterne prediche, commenti sempre uguali senza mai un passo avanti, la scintilla di un momento di comprensione (o di dubbio di fronte all'emergere dell'"esperienza"), una curiosità anche solo per un dettaglio che modifichi il quadro precostituito. Tutti commentatori del medesimo, riproduttori di un senso comune da cui non si uscirà mai perché trasformato in forma del mondo, in universo di senso non da percorrere ma in cui rinchiudersi e compiacersi.

Esemplare, di tutto ciò, il modo con cui è stato "trattato" il caso di Simona Pari e di Simona Torretta (di Mahnaz e di Ra'ad quasi nessuno se ne è occupato, se non come di ornamenti esotici). Qui, indubbiamente, i casi-limite si sono moltiplicati. Come dimenticare titoli come "Danza macabra delle Simone sulle vittime della resistenza" (Libero, 30.9.2004); o "Salvate, ma adesso salvateci dai pacifisti" (Il Giornale dello stesso giorno)? E le volgarità rivolte alle due "vispe Terese che tornano in Irak, […] che beatificano i terroristi, non ringraziano Berlusconi e dicono: il nostro posto è a Baghdad. Tanto se le ribeccano paghiamo noi" (ancora Libero), scritte, si badi, da chi infinite volte aveva domandato polemicamente "dove sono i nostri pacifisti? " sottintendendo che, vigliacchi, se ne stanno al sicuro mentre i nostri poveri ragazzi in divisa o gli eroi come i quattro body guard sequestrati rischiano la vita... Così dunque i "mostri" (nel senso di monstrum, latino).

Ma anche gli altri - i giornali "normali" - non hanno scherzato. Dopo il primo momento di emozione e di gioia seguito alla liberazione, è cominciata subito la fase di raffreddamento, del tacito e non tacito processo, perché quello che le "due Simone" dicevano usciva dai canoni dell'immagine di "vittima" di feroci saladini che avevano loro cucito addosso. Non aderiva abbastanza all'ethos nazional-popolare che vuole tutti gli italiani stretti intorno alle loro autorità e alle loro bandiere a festeggiare la rinascita di due di "loro". Perché le due "volontarie" guardavano più "là" che "qua". Pensavano più agli "altri" che a "noi". Ricordavano cose sgradevoli, come gli iracheni che soffrono sotto l'occupazione, come il fatto che per due italiane salvate una cinquantina di civili "locali" ogni giorno crepano anonimamente. Applicavano un criterio di "reciprocità" e di "pari dignità globale" che qui dà fastidio, perché mette in questione, obbliga a un esercizio di cui si sono ormai perse le tracce nell'autocompiacimento occidentale dominante. E poi, scandalo degli scandali, parlavano. Esprimevano idee proprie (come per esempio la richiesta del ritiro delle truppe italiane). E allora ecco le accuse più diffuse: ingenuità, scarso senso della misura, inopportunità. E il richiamo, paludato, a non varcare i propri limiti. A non parlare di cose "più grandi di loro". Insomma, a non "fare dell'ideologia". Poco importa che chi impartiva queste prediche conoscesse poco o nulla della situazione irachena, che l'Irak non l'avesse mai visto neppure da lontano, e nemmeno una guerra, o un profugo, o una casa sventrata o perquisita... E che, all'opposto, Simona Pari e Simona Torretta dell'argomento dei loro discorsi sapessero pressoché tutto, per decennale esperienza vissuta con intensità, e con quella gente avessero abitato, condiviso spazi e paure, che quella lingua la parlino e la comprendano...

Ho in mente un articolo di Francesco Merlo, uscito su "La Repubblica" il primo di ottobre, dal titolo significativo: "La tentazione dell'ideologia", che gronda saccenza e supponenza. Una lezione da un pulpito basso basso, ma ricca di paroloni con cui si richiamavano le "due Simone" al dovere di percepire "come un fardello il favore e il privilegio di essere vive" [come se, appunto, dovessero vergognarsi almeno un po' della propria salvezza... ]. Le si invitava a incominciare "a pensare ai loro sventurati fratelli, agli altri ostaggi che non sono stati trattati con rispetto e non hanno avuto in regalo né abiti né biscotti né parole di conforto" [quanto deve esser dispiaciuto, ai costruttori professionali dell'immagine di un nemico assoluto, il fatto che quelle prigioniere, pur nell'orrore del sequestro, fossero state trattate dignitosamente]. E infine, senza neppure un minimo di pudore, si auspicava che prima di tornare a dedicarsi agli "altri" ("a curare e assistere i bambini iracheni"), si dedicassero un po' a "noi". Per che cosa? Per "aiutarci a capire cosa diventa un uomo negli antri infernali dove si bestemmia la vita in nome di Dio". Proprio così! Cioè per aiutarci a completare, se ancora ce ne fosse bisogno, quell'immagine del nemico estremo che invece, a mio avviso sacrosantamente - e coerentemente con le scelte fatte - Simona Pari e Simona Torretta volevano de-costruire.

Irritazione verso le due "volontarie" (e in generale verso la logica del "volontariato" che un professionista dell'informazione autocompiaciuta non può evidentemente capire). Ma soprattutto irritazione verso un ordine mentale che contraddice il senso di indiscutibile superiorità della "nostra civiltà". Che sdrammatizza le differenze. E si affanna, appunto, a "costruire ponti" sulle macerie di senso che tutti abbiamo contribuito a produrre. Lo testimonia lo strabiliante finale di quell'articolo, in cui si suggerisce, come beau geste auspicato ma non compiuto, l'accettazione condizionata di quel "pesante Corano" donato dai sequestratori: «Noi leggeremo la parola increata di Allah se voi leggerete la Critica della Ragion Pura». Libro contro libro. Lì ci sono loro e qui ci siamo noi. L'ho letto due o tre volte, quel finale, perché non ci credevo. La Critica della Ragion Pura di Kant? Come testo identificante del "noi" contro il "loro" Corano? Capirei ancora La critica della ragion pratica, che quantomeno riguarda la morale. O che so io? Il Progetto per una pace perpetua del 1795. Ma la Critica della ragion pura, che ci azzecca? Ho i miei dubbi che Merlo ne abbia letto qualche riga, ma certamente meno del'1% degli italiani l'ha fatto. E dunque là (sul Corano) loro, e qui (su un libro mai letto) noi?!? C'è, in questo paradosso, in fondo, tutta la miseria di uno stile giornalistico-predicatorio che nel narcisismo infondato ha smarrito i fondamenti stessi del proprio essere. E di una cultura che, nell'oblio dell'altro, perde soprattutto se stessa.

Forse di qui - da questa catastrofe antropologica - dovremmo partire per rifondare noi stessi, prima che dal vertice della piramide e dalle sfere della politica. O no?