Il RICCIO

di Curzio Maltese



 

Una nota legge del cinema recita che da un bel romanzo si ricava un brutto film e viceversa. Il caso de Il Riccio, sulle orme del famoso bestseller, rappresenta un' eccezione inutilmente complicata, nello spirito di questo curioso fenomeno letterario. Da un romanzo non bellissimo e magari sopravvalutato, è sortito un film non brutto ma sicuramente sottovalutato. Anzitutto dall' autrice de "L' eleganza del riccio", Muriel Burbery, che ha scomunicato l' opera, stroncata senza pietà, e ha intimato alla produzione di sostituire la dicitura «tratto da» con la più generica «liberamente ispirato». Come se per gli spettatori facesse questa gran differenza. Una spiegazione un po' maliziosa di tanta furia è che la Barbery si sia pentita d' aver venduto i diritti cinematografici troppo presto, quando il romanzo non aveva ancora venduto milioni di copie, accettando la regia e la sceneggiatura dell' esordiente Mona Achache. Una dose di calcolo è del resto il difetto principale della scrittrice, peraltro compensata dall' intelligenza e da un notevole sense of humour. Queste due qualità in effetti si perdono non poco sullo schermo.

Ma Il Riccio ha altre qualità. La capacità di dipingere con pochi tratti, rispetto alle tirate filosofiche del testo, il penoso senso della vita dell' ipocrita alta borghesia francese. E soprattutto, la gigantesca interpretazione di Josiane Balasko, nella parte dell' eroina del romanzo, la portinaia autodidatta Renée Michel, il riccio, ispida e puntuta all' esterno quanto «terribilmente elegante» nell' anima. Bastano un mezzo sorriso o uno sguardo o una lieve esitazione di tono alla Balasko per schiudere allo spettatore i mondi segreti di sogni e idee e bellezza che al lettore erano raccontati in decine di pagine.

L' incontro fra la cenerentola cinquantenne, brutta, grassa e «con le cipolle alle ginocchia» con l' anziano principe azzurro, catapultato di colpo dal Giappone nel condominio di lusso di Rue de Grenelle, conserva la grazia ironica della pagina. Il libro abbonda di citazioni. Tranne una, che è un' astuta omissione: il meraviglioso saggio di Isaiah Berlin su Tolstoj («Il riccio e la volpe») dal quale forse la colta autrice ha tratto l' ispirazione più bella.

Nel film di citazioni ce n' è una sola, ingenua e autolesionistica: la scritta «Chabrol» che campeggia nella libreria nascosta di Renée. Inevitabile ricordare con nostalgia gli straordinari ritratti d' interno borghese del maestro francese. Mona Achache non è Chabrol, ma dopotutto neanche Muriel Barbery è Georges Simenon. Alla fine vale comunque la pena, per lettori e spettatori, di seguire le orme del riccio.

 

da Repubblica del 9-1-10

 

11-1-10