La
casa di riposo
Lea Melandri conversa con Adriana Nannicini

Kate Kollowitz
"Forse,
con il prolungamento della vita negli ospedali e negli ospizi e nella
solitudine delle case - scrive Franco Rella nel suo libro Ai
confini del corpo (Feltrinelli 2000) -, la vecchiaia è
davvero diventata un'altra cosa, tanto che non può più sorreggerci
la sapienza del passato, e in essa vediamo quella vita nuda che, secondo
Agamben, ci espropria della vita come tessuto di eventi, di esperienze:
della vita come storia e racconto".
Quand'è che la vecchiaia ci appare tale? Dei miei nonni, cresciuti
e morti nei campi che avevano coltivato e dove ancora si muovevano autonomamente
all'età di ottanta e novant'anni, non ho avvertito il precipitare
del tempo verso il suo termine. Sarà che nella giovinezza la morte
è ancora un'astrazione, un'ombra che passa accanto senza mettere
radici, sarà che i contadini guardano alla vita dell'uomo non diversamente
che al trascorrere naturale delle stagioni, o sarà, come dice Rella,
che la possibilità di ricordare e raccontare è la soglia
estrema che ci separa, per qualche tempo ancora, dal nulla. Ma, a far
cadere il silenzio e il vuoto intorno all'invecchiamento, sono anche le
mutate condizioni in cui viene a collocarsi la fase ultima della vita,
quando il corpo torna a farsi protagonista, nella perdita di forza propria
e nell'estrema dipendenza dagli altri.
Viviamo in una società che invecchia senza essere compensata da
nuove nascite, che si affanna a prolungare la vita senza tener conto dei
mali che la insidiano, che promuove la libertà dell'individuo contro
i vincoli soffocanti della famiglia, ma che non si preoccupa allo stesso
modo di creare rapporti sociali alternativi, forme nuove di amore e di
solidarietà. Rispetto alla lunga degenza in un ospedale, a corpi
diventati appendici delle macchine che li tengono in vita, anche la morte
solitaria di un anziano, scoperta dopo mesi nella sua casa, può
diventare desiderabile. Con la disgregazione dei nuclei famigliari e i
cambiamenti intervenuti nelle società occidentali riguardo ai ruoli
femminili tradizionali, sembra che non ci siano alternative, per l'assistenza
dei vecchi, tra l'ingresso in una casa di riposo e la delega del lavoro
di cura a donne straniere. Su queste scelte, che rispondono a un margine
molto limitato di libertà, per ragioni economiche o affettive,
si sa poco, confinate come sono nella sfera di un "privato"
che neppure la vorace curiosità dei media è riuscita a stanare.
Per questo è importante l'esperienza di chi in questi luoghi vive
e lavora, prezioso è il racconto che ne possono fare, perché
non resti "impresentabile" proprio quel passaggio della vita
che alcuni considerano il più vicino alla verità della condizione
umana.
Adriana Nannicini, filosofa, psicologa, consulente di organizzazione
del lavoro e del lavoro in gruppo, dirige da più di un anno tre
strutture residenziali private per lungodegenti anziani a Milano.
Ho chiesto di incontrarla e di rivolgerle alcune domande.
Lea
Tempo fa lessi un libro dello psichiatra Claude Olievenstein, La
scoperta della vecchiaia (Einaudi 1999) con un sottotitolo accattivante:
Una nuova stagione della nostra vita. Per imparare a riconoscerla e
ad amarla, senza subirla. Rimasi colpita dall'età dell'autore:
66 anni. Avvicinandomi oggi a quell'età, mi viene da chiedere "quando
comincia la vecchiaia?" Di chi stava parlando Olievenstein in quel
momento, con una immedesimazione così forte? Si riferiva alla propria
esperienza o a quella dei suoi pazienti? Non siamo forse tentati di dilazionare,
proiettare l'invecchiamento sul tempo che ci sta davanti?
Adriana
Nel mio lavoro come dirigente delle case di riposo io ho davanti i "grandi
vecchi", quella che può essere considerata la quarta età;
gli ospiti hanno dagli 80 anni in su, sono persone non autosufficienti,
di cui la struttura e il personale che vi lavora si deve fare carico.
Paradossalmente mi sembra più preparata all'incontro con questa
vecchiaia la 35enne che le donne della nostra generazione:"le ragazze
di cinquant'anni", come dice il titolo del libro di Marina Piazza,
una generazione che pensa a se stessa come sempre giovane, vitale, attiva.
Una struttura per anziani è per i giovani un luogo di accesso al
lavoro,rappresenta la possibilità concreta di esercitare una professione.
In questo periodo, per gli stranieri e le donne straniere, può
rappresentare la prima occupazione che regolarizza la loro presenza in
Italia, uno dei pochi lavori che permette di uscire dal mercato informale,
di uscire dalle case dove sono "badanti", presenze magari attente
, magari competenti, ma spesso in situazioni chiuse, nella solitudine
domestica.Sia le italiane che le straniere sono donne giovani, la maggior
parte appartiene alla generazione tra i 25 e i 35 anni. Forse è
questa opportunità di lavoro che facilita soggettivamente l'impatto
con la vicinanza alla vecchiaia.
Lea
Comincio a farti la prima domanda: che cosa ti ha spinto ad affrontare
questo tipo di incarico, che io vedo gravoso anche dal punto di vista
della responsabilità organizzativa oltre che relazionale? Si tratta
di incontrare quotidianamente aspetti della vita, dell'umano, che si preferisce
rimuovere, delegare ad altri, almeno finché non ci si trova dentro.
Adriana
Con il mondo dei grandi vecchi non ho mai avuto in precedenza esperienze
dirette, mi ero orientata verso altri tipi di popolazione. Non ne sapevo
niente e perciò avevo l'impressione che si trattasse di una nuova
frontiera, un "mondo" da costruire utilizzando la posizione
di dirigente. Mi attirava la novità, l'idea di dar vita a uno stile
di organizzazione del servizio.
Lea
Di fronte a famiglie che si disgregano, anzianità che si prolungano
nel tempo diventando per questo uno dei problemi sociali fondamentali,
è vero che si delineano nuove mappe relazionali, alternative da
immaginare e costruire. Ma non sono comparse anche fantasie, paure, legate
al proprio invecchiamento?
Adriana
Non per me, non adesso, ho una storia famigliare in cui la vecchiaia appare
sfocatissima, coperta da grande pudore e riservatezza. I miei interrogativi
e i miei timori riguardavano invece il modo di trattare un corpo invecchiato:
odori, colori, deformità. Mi sono domandata quale sarebbe stata
la mia relazione con un corpo per me "sconosciuto" L'unica rappresentazione
che avevo del corpo nella vecchiaia mi proveniva dalle pagine di "
una morte dolcissima" di Simone de Beauvoir. Alquanto astratto! Poi
ho incontrato anche le persone dementi. Quando mi sono trovata davanti,
nel salone, quaranta persone sedute in quaranta carrozzine, ho pensato
che il corpo di carne e il corpo di metallo erano insieme,come un tutt'
uno, un'immagine che mi è parsa aggressiva, sconcertante, non comunicabile.
Ho cercato di renderla meno inquietante collegandola con l'abitudine dei
giovani di riempirsi di percing di metallo, ma non è la stessa
cosa. E' quel tipo di vecchiaia, quella fisicità dei corpi che
mi ha colpito. Tanto è vero che ho deciso che non sarei entrata
in una camera senza bussare, diversamente da altri colleghi che hanno
assunto le abitudini dei medici. I primi giorni mi sono data l'indicazione
di avvicinare i pazienti, far conoscenza con qualcuno, capire che rapporto
si stabiliva. Il primo è stato un signore che camminava con un
sostegno e che aveva sempre un libro in mano. Ho pensato: comincio con
qualcuno con cui ho una somiglianza. Era un personaggio simpatico e spiritoso.
Quel giorno mi ha letto la mano: lui agiva sul mio corpo, mi diceva delle
cose, approfittava dell'occasione di toccare una donna, farle un po' la
corte, avvicinare la direttrice, stupirla con una lettura maliziosa.
Lea
E quindi stabilire un minimo di reciprocità. In quella situazione,
che cosa hai notato di particolare partendo dalla consapevolezza di cosa
significa essere uomo o donna.
Adriana
Un ruolo direttivo ti mette a contatto con tutti, ma ti lascia anche molto
separata. Mi chiedevo: come faccio a condividere, cosa metto in comune
e con chi? Le prime persone che ho "incontrato" sono state le
donne straniere, perché erano le più distanti per bisogni,
lingue, cultura, ma anche le prime che mi venivano a chiedere una mano
per problemi immediati, da risolvere subito: figli, ricongiungimenti famigliari,
viaggi. Mi raccontavano subito la storia della loro vita, potevo trovare
differenze e somiglianze.
Lea
Dicevi che era un ambiente prevalentemente femminile, parlavi del contatto
coi corpi, della spudoratezza
Adriana
Si, mi colpiva una certa litigiosità infantile tra tutte quante:
pazienti, operatrici, familiari, un po' come in famiglia. Ma una struttura
così grande deve rispettare tempi e modalità stabilite.
Questo crea distanza, spersonalizzazione. Si apre una contraddizione che
pesa su tutte: sulle operatrici, sulle degenti che vivono la freddezza
come abbandono, o che si sentono avvicinate con un tocco di famigliarità
fittizia, che risulta umiliante.Comunque è interessante vedere
cosa succede quando le stesse funzioni che sono del privato, della casa,
della famiglia, si spostano in un luogo di socialità allargata.
Le funzioni restano le stesse, ( l'igiene, il cibo, la compagnia, ) mentre
i ritmi e le regole si fanno più precise. Vale anche per i famigliari?
I parenti sono le persone con cui ho passato più tempo: incontri
di gruppo, incroci informali, risposta a reclami, interviste, lettere.
Persone diverse, per età e contesto culturale. Ci sono quelli che
si fermano tutto il giorno, facendo salotto con altri famigliari. A volte
danno indicazioni utili, altre assumono ruoli impropri di cui sono consapevoli,
gli stessi che hanno a casa. Sembra che sia difficile per le donne rinunciare
al ruolo di cura, accettare di avere tempo per sé. Il rischio che
temono è di sentirsi egoiste. Alcune si sentono in colpa perché
hanno portato il genitore in casa di riposo, per cui devono almeno venire
a trovarlo e dare suggerimenti, anche perché conoscono meglio degli
operatori i cenni del paziente, mantenere almeno un ruolo di "interprete,
mediatrice" le aiuta a rappresentarsi ancora in ruoli familiari,
a dare consistenza e concretezza a legami affettivi.
Ho fatto molti colloqui approfonditi con i parenti e ho visto che le famiglie
di una grande città, o di centri limitrofi, vivono in grande isolamento,
per cui, quando si tratta di portare un anziano in casa di riposo non
dispongono di una socialità allargata con cui affrontare dubbi
e discutere incertezze. Spesso è una decisione che prendi in un
attimo e che ti accorgi di aver fatto dopo che l'ingresso nella struttura
residenziale è già avvenuto. Le donne che passano lì
tanto del loro tempo, lo fanno spesso per elaborare una decisione che
non hanno maturato; devono tornare a raccontare la vicenda, immetterla
nella storia famigliare,lo fanno per raccontarla ai figli, per se stesse,
forse è anche un modo per anticipare la loro storia futura. Quello
che spesso appare come un tempo da salotto, talvolta viene usato anche
per affrontare domande e solitudini.
Lea
Questo indugiare penso risponda inconsapevolmente anche al bisogno di
riflettere su un'esperienza che non ha luoghi, né privati né
pubblici, per potersi esprimere. La vecchiaia e le infermità che
spesso l'accompagnano è vissuta in solitudine. Anche se oggi è
uno dei principali problemi sociali, legato alla disgregazione della famiglia,
stentano a profilarsi alternative, progetti condivisi da collettività
allargate.
Adriana
E' proprio per questo che la casa di riposo mi è parsa una specie
di nuova frontiera, in cui ciascuno è un po' pioniere, operatori
e famigliari lì insieme, in pomeriggi in cui chiacchieri della
famiglia. Ci sono nipoti ventenni, allevati dalla nonna, che sono lì
tutti i giorni, soprattutto nelle ore di pranzo. Forse non vogliono perdere
il legame con l'infanzia. Nelle varie occasioni informali, nei tempi non
direttamente operativi, quello che si vede è una transizione non
ancora elaborata. La transizione dalla casa alla struttura, dalla vecchiaia
alla "grande vecchiaia", all'attesa della morte. Alcuni parenti
chiedono cure terapeutiche e sanitarie fino al limite dell'accanimento:
tenerli in vita in ogni modo. Fuori la società accelera tutti i
tempi, qui sembra che si dilatino, che un rallentamento sia necessario
per dar spazio ad un tempo "interno".
Lea
Per quel poco che ho potuto constatare, mi sembra che ci sia un'altalena
tra chi è presente a tutte le ore e chi è quasi sempre assente,
tra chi rimanda all'infinito il distacco e quelli che consegnano l'anziano
a una sorta di "anticamera della morte". Così almeno
era considerata la casa di riposo nella famiglie contadine in cui sono
cresciuta: la miseria estrema, l'estremo abbandono. Strappati dalla loro
radice -casa, affetti-, smarriti luoghi e abitudini, molti anziani muoiono
subito dopo il ricovero. Quello che manca ancora è la capacità
di portare alla coscienza, e quindi alla cultura, alla storia, alla progettualità
politica, un passaggio fondamentale della vita come l'invecchiamento.
La vicinanza con la morte contribuisce sicuramente a farlo precipitare
nella fatalità delle catastrofi naturali. Essendo una delle vicende
chiave dell'esperienza umana ha bisogno di una riflessione collettiva,
tanto più che i sostegni tradizionali, come la famiglia, la dedizione
femminile alla cura, stanno venendo meno. Nessuno auspica un ritorno alle
famiglie numerose del passato, ma come mai non si riesce a fare un passo
avanti? Anche la cultura nata dal femminismo sembra abbia perduto la capacità
di interrogarsi a fondo sulla vita, benché oggi per molte di noi
la cura di un anziano genitore e il nostro stesso invecchiamento siano
parte non secondaria del vissuto personale. Il termine della vita ormai
si è profilato all'orizzonte e la reazione è sempre la stessa:
rimuovere, dilazionare il momento in cui si comincia a farne oggetto di
riflessione. La vecchiaia resta il volto impresentabile della vita. La
sua "oscenità", ciò che la sposta fuori dai nostri
pensieri, è il fatto intollerabile che la vita finisca.
Adriana
Dentro una struttura come questa la morte c'è, è presente,
è un accadimento costante, che ha uno spessore concreto, materiale
e affettivo contemporaneamente; c'è come esperienza della morte
degli altri, come necessità di elaborare il lutto. Si fanno incontri
di formazione con gli operatori su questo, tempi e modi di riflessione,
non semplice addestramento tecnico, oppure, a tavola coi medici ci si
dice: "facciamo un patto tra noi, se incappiamo in un ictus ci diamo
una pillolina", che è un modo di esorcizzare sul registro
del cinismo, per tenere a bada la paura senza nominarla e riconoscerla
a voce alta. Ci sono degli ospiti che muoiono improvvisamente lasciando
un forte ricordo tra le operatrici, provocando emozioni intense e rimpianti,
come si trattasse della perdita di un parente. La morte è stata
molto presente nella mia vita personale, ci sono cresciuta in mezzo, l'ho
frequentata, per cui mi pare di avere meno paura e reticenza ad avvicinarla
di quante ne ho avute nell'affrontare il corpo anziano nella sua materialità.
Quando è morta la madre anzianissima di una signora con cui avevo
parlato tante volte, una donna cortese e spiritosa che mi aveva portato
richieste precise e lamentele, ma che a me piaceva, sono entrata in camera
e ci siamo tenute per mano vicino al letto della madre. Piangeva : "Non
posso pensare di perderla, di salutarla". Io sono rimasta con lei,
pur essendo un'estranea totale. Dopo mi ha ringraziato, ma non era la
mia una presenza solo professionale è vero che io volevo essere
lì con lei. In questi luoghi si può piangere, e si può
farlo assieme ad altri. Io non ho potuto piangere la morte dei miei genitori.
Sono piccoli segni di cui si dovrebbe tener conto.
Lea
Mi sembra interessante poter guardare una casa di riposo dall'interno
e attraverso una donna che, come te, vi ha esercitato una funzione direttiva,
senza perdere per questo la disponibilità all'identificazione e
all'ascolto delle storie di vita, l'attenzione ai rapporti e ai segnali
buoni di quella convivenza per molti forzata. Mi è venuto da confrontare
il tuo racconto con la breve esperienza che ho fatto quando mia madre,
alcuni anni fa, dopo un ricovero in ospedale, è stata un mese in
una Rsa, per riabilitarsi. Non ho visto niente di ciò che tu dici.
Ho visto mia madre sempre più smarrita, sempre più immobile,
mentre avrebbe dovuto riprendere a camminare. Andavo tutti i giorni con
grande ansia e quando uscivo piangevo di rabbia perché avevo l'impressione
che lì tutto congiurasse a distruggere quel poco di voglia di vivere
che ancora le restava. Tu dicevi di aver visto presenze generazionali
diverse. Io non ho visto altro che degenti e mi sembravano tutte immerse
in uno stesso angoscioso universo, quale è quello della demenza
e dell'infermità, tutte ugualmente in attesa della morte, tutte
sofferenti dell'orfanità di case, affetti, abitudini perdute. Mi
sono rivista bambina, nella colonia estiva, in preda alla disperazione
dell'abbandono. So di aver forse frainteso lo stato d'animo di mia madre,
tanto era forte il sentimento che provavo io entrando in quel luogo, unito
al senso di colpa, al dubbio di dovervela lasciare per sempre. Non penso
che sia una soluzione neppure affidare a donne straniere la cura degli
anziani, anche se all'interno di una casa si possono trovare rapporti
nuovi, creare convivenze inedite e più libere rispetto ai legami
di sangue. Mi chiedo se si può cominciare a pensare ad alternative
che ci aiutino a uscire da questa stretta tra un privato che grava sempre
e comunque sulle donne, sul sacrificio delle loro energie fisiche, psiche
e mentali, e una dimensione pubblica, quali sono oggi le case di riposo,
così impersonali e totalizzanti.
Tu mi parlavi invece di generazioni diverse e di ruoli che si incrinano
Adriana
Non capita sempre e non è mai garantito. Le persone talvolta rompono
un ruolo indesiderato, anche perché sono portatrici di culture
diverse, come le donne che vengono dall'Est Europa o dall'America Latina.
Escono dalla rigidità delle regole anche solo infantilizzando l'anziano;
toccano i corpi in modo un po' brusco, ma così dimostrano che si
possono toccare, che si può dare un bacio, magari di corsa. Modalità
gestuali non necessariamente delicate o ben orientate, che però
non sono impersonali e meccaniche. Altre operatrici invece le vedi che
vengono a passare la notte, anche se non sono di turno, per fare compagnia
a una parente che altrimenti sarebbe lì da sola. Anche se molte
giovani accettano questo lavoro perché non c'è altro, ciò
non impedisce che si creino delle relazioni di grandissima intensità,
a volte armoniose altre più litigiose. Meriterebbe di essere meglio
capita la rabbia o l'insoddisfazione dei parenti, risolta di solito in
modo amministrativo. Il "reclamo" viene talvolta interpretato
sbrigativamente come l'espressione di un senso di colpa su cui non si
può intervenire. Penso invece che si possano trovare modalità
di relazione in cui sia possibile anche ascoltare quelle voci che in modo
ruvido esprimono emozioni di rabbia profonde e inconsapevoli : "mamma
non invecchiare, così demente mi spaventi, mi abbandoni".
Forse l'istituzione è lì per raccogliere non solo la rassegnazione
ma anche questo tipo di sentimenti, inquietudini lasciati alla solitudine
di ciascuno.
Lea
E' vero, al di là dei ruoli e dei regolamenti possono attivarsi
relazioni simili a quelle famigliari, momenti che fanno sentire non più
soli. Si possono trovare condivisione e modi di stare insieme che preludono
a una socialità diversa. Mi resta però un dubbio riguardo
allo smarrimento che fa seguito alla perdita di luoghi e abitudini, soprattutto
in chi non si è mai mosso dalle sue radici. Anche nel caso di perdita
o allentamento delle facoltà mentali, il corpo trattiene la memoria
del suo passato. Dopo la morte di mio padre e di tutte le persone a lei
più vicine, mia madre non ha più voluto uscire dalla sua
stanza. Sta seduta immobile nella sua poltrona e gira lo sguardo dentro
uno spazio sempre più ridotto. Ma in quel cono tracciato dallo
sguardo entrano una sedia, una credenza, una lampada che riconosce, e
penso che siano questi oggetti, ultimi testimoni della sua storia, uno
degli elementi che la tengono ancora in vita. In quel breve periodo che
è stata nella casa di riposo ricordo la sua domanda insistente:
dov'è l'entrata, dov'è l'uscita? Aveva perso la sua mappa,
le traiettorie del suo quotidiano orientamento. Mi chiedo se, nel prospettarsi
alternative riguardo alla vecchiaia e alle sue necessità, si possa
tener conto di questa memoria del corpo, se si possa recuperare sul versante
di una socialità allargata, meno familistica, la continuità
con tratti riconoscibili della propria vita personale.
Adriana
Penso che non si dovrebbero perdere né la propria storia né
in parte gli oggetti personali. Ma sappiamo che la stanza singola costa:
Ho fatto confronti di servizio e mi sono resa conto che i costi sono elevati
in tutta Europa, sia per la quota che si assume il welfare sia per la
quota che riguarda la famiglia. Quanto più il servizio è
costruito sulla persona, tanto più è la famiglia a pagare.
Ho visto camere molto personalizzate, come quelle domestiche, in residenze
molto costose. Altrimenti restano solo i vestiti e qualche gioiellino.
Una signora mi ha parlato in modo positivo del collegio dove era stata
da ragazza. Ai suoi tempi era un uso normale: famiglie che si prendevano
cura delle figlie facendole studiare. Una buona immagine dunque, tanto
che per lei era più inquietante considerare la casa di riposo "la
sua casa". Preferiva vederla come un "collegio per vecchiette",
un luogo transitorio, rispondente a bisogni che nel tempo cambiano. Non
era lo stesso per i suoi figli, che sapevano, o temevano invece, della
irreversibilità di quel passaggio, della dimensione definitiva
di quell'abitazione. Erano loro i più vulnerabili, quasi impreparati.
Lea
E' chiaro che per prospettarsi in modo nuovo la vecchiaia e i suoi problemi
è necessario ripensare la sfera del privato e del pubblico così
come si sono costruiti, come astratta e violenta divisione di ruoli e
poteri, diventati per l'uomo e la donna destini "naturali".
Se non bastasse l'intelligenza e la sensibilità diversa con cui
si comincia oggi a guardare la vita in tutti i suoi aspetti, a partire
dal dominio di un sesso sull'altro, dalla divisione tra famiglia e società,
si dovrà comunque fare i conti d'ora innanzi con lo sfaldamento
di rapporti dati come eterni e immodificabili, radicamenti e appartenenze
che si eclissano lasciando all'orizzonte solo i bagliori minacciosi della
loro potenza immaginaria.
L' articolo
è stato pubblicato in forma ridotta su "D La Repubblica"
uscito l' 8-10-2004
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