Femminismo: ricostruire i nessi
di Dolores Ritti


Sempre generose le donne, da Genova alle manifestazioni pacifiste, fino a Milano, dove hanno sfilato per ore nel gelo.  La loro presenza nel movimento noglobal e pacifista è stata enorme, ma la vastità ne ha sottolineato piuttosto la frammentazione che la ricchezza e la forza, e un’arretratezza rispetto ai temi trattati nell’epoca d’oro del femminismo, quando la priorità era chiara: analisi e ricostruzione del nesso tra sessualità, ruolo all’interno della famiglia e, allora appena intravisto ma oggi dirompente, il lavoro.

Intanto bisogna porre fine a un pensiero persistente all’interno del movimento più recente ma poco dialettico che vede operanti all’interno della società e della cultura due logiche contrapposte, una logica della dissipazione e l’altra della cura, per cui mentre gli uomini distruggono, le donne conservano. A leggere tanti documenti noglobal, un po’ ovunque sul pianeta le donne si opporrebbero con forme di lotta esemplari alla distruzione della comunità  e della natura, continuando l’opera di civilizzazione di cui uomini e stati sarebbero oramai incapaci. Se le cose fossero così semplici, e cioè che le donne sanno riparare ai disastri dell’insipienza maschile, basterebbe svelare questo arcano e ritrovare qualcosa che è già presente nella storia come un bene e da sempre, ma che tuttavia non ne ha cambiato il corso.

Accanto a questa rappresentazione che vede le donne tanto avanti da aver rotto ogni complicità con gli uomini, una che a me sembra complementare: essa vede in atto nella nostra società una inarrestabile regressione verso forme arcaiche di sfruttamento ed emarginazione e non ha trovato di meglio che riaffidarne la liberazione alla lotta di classe e al movimento operaio “suo riferimento strategico”,  salvo sostenere, nell’ultimo periodo, una sorta di “antagonismo sessuale” che, enfatizzando le differenze, cerca riconoscimento e chiede diritti.

Più di trent’anni di femminismo hanno mostrato i limiti dell’emancipazione femminile attraverso il lavoro, anche perché esso rimane per lo più, nei suoi contenuti, una variante di quello domestico (addette ai servizi, commesse, cameriere, colf, promotrici di prodotti, , etc.), e la tipologia che si è imposta negli ultimi anni con contratti brevi e selezioni feroci per età e aspetto, ha reso più forte la dipendenza all’interno della famiglia che nel nostro paese con un sempre più modesto stato sociale, resta la comunità per eccellenza. (Quelle che vi cadono fuori, per separazioni, vedovanza, etc. spesso rasentano la miseria come mostrano tante inchieste). Così pur avendo la donna che lavora sottoposto la famiglia tradizionale a uno scuotimento senza precedenti, ne rimane ancora prigioniera nel ruolo di riproduttrice che vi gioca.

Bisogna però aggiungere un altro elemento: per la donna che può disporre di sé grazie a un lavoro pagato, il denaro può funzionare come surrogato al mancato riconoscimento sociale. Non dimentichiamo che milioni di donne hanno dato il voto a un signore ricco e felice perché ricco, dimostrando come l’immaginazione (già al potere) sia fragile sostegno alla durezza della vita, in una società dove la gerarchia precipita continuamente verso il basso con l’arrivo degli immigrati e la crisi economica incombente.

E poi la “legge del cuore” con cui le donne hanno governato la famiglia cercando la salvezza dell’umanità contro il disordine del mondo, è sempre meno efficace in una società tutta mercato come la nostra, dove ogni buona intenzione viene meno per un ricorso sempre più  immediato e attivo alla identità sessuale, perché più pagante e ossessivamente suggerita dalla comunicazione mediatica alla quale no sembra esserci scampo, in mancanza di una critica radicale del fenomeno.

Se poi le donne accettano lavori servili e bassi salari, non è solo colpa del feroce mercato. Bisogna ribadire fino a farne senso comune, che c’è un prima non immemoriale nella nostra storia, una svalorizzazione  subita e interiorizzata nella costituzione della persona, quando sguardi e comandi creano non solo il senso di “indegnità corporea” ma anche psichica e culturale, per cui predisposizioni biologiche o doti “naturali” sono piegate e strutturate nel lavoro immane dell’accudimento e della cura di cui si appropria la società.

Una ingiustizia originaria e invisibile, vissuta come più profonda e irreparabile di quella esercitata dal potere sulle piazze e sulla quale il femminismo aveva allargato l’occhio della politica.. Purtroppo su questa ingiustizia  e quello che provoca in termini umani e sociali ha appena una vaga percezione, anche perché manca in questo momento, pur drammatico, quell’inquietudine esistenziale e il desiderio di trasformazione che aveva incalzato e messo in crisi la politica nella fase più feconda del femminismo. Tutto offuscandosi in un quadro planetario minacciato dalla guerra e dai nuovi processi di accumulazione, è sparito ogni altro orizzonte di conflitto legato alla vita quotidiana dove la crisi economica e culturale, se sottrae autorità al maschio, carica le donne di un peso e di una responsabilità  senza precedenti.

Manca un’analisi del qui e ora, la delimitazione di un orizzonte entro cui pensare e agire. Fin qui vediamo, fin qui possiamo. Definire l’orizzonte che non va a piacimento dal campanile all’intero pianeta come in internet, significa ritrovare i confini che la globalizzazione tende a eliminare, salvo scavare disuguaglianze sempre più acute tra individuo e individuo. Forse le ultime battaglie delle donne non hanno entusiasmato nemmeno le stesse donne. E il femminismo che ha privilegiato la sfera dei sentimenti o la relazione tra donne, i temi del corpo e del genere, è affascinante ma non cambia la realtà. A me pare che restando ferme a quelle modalità di approccio senza spingersi al mondo meno spettacolare e gratificante del lavoro, ontologicamente inteso certo un bene essenziale per la persona ma anche preistoria e necessità, capiremmo quanto se ne va di vita  delle donne.