di
Annamaria Rivera Perché la violenza contro le donne conquisti le prime pagine dei giornali il faut chercher l’étranger. Altrimenti, silenzio di tomba oppure qualche trafiletto di cronaca per lo più confinato in quotidiani locali o gratuiti.
La tendenza, della quale La Repubblica è all’avanguardia, si è ormai
consolidata come carattere strutturale e distintivo dello stile mediatico
del Belpaese, finendo per diventare anche un tratto peculiare
dell’immaginario collettivo italico. Immaginate quale putiferio si scatenerebbe in Francia o nel Regno Unito se un quotidiano osasse le imprese che i nostri compiono ogni giorno. E non perché altrove siano assenti xenofobia e razzismo; semplicemente perché in altri paesi funzionano dei freni inibitori o, se preferite, un minimo di correttezza politica condivisa, che almeno occulta o stempera le pulsioni più intolleranti. Solo un esempio fra i tanti: non pago di ciò che aveva combinato in occasione della strage di Erba, l’8 ottobre scorso il quotidiano in questione, dedicando un’intera pagina alla cronaca dell’omicidio di Perugia, ne ripropone ostinatamente lo schema. In quel momento, gli indiziati in carcere sono tre, e per almeno uno dei due bianchi gli indizi sembrano essere consistenti. Ma nella pagina campeggia un’unica foto: quella del cittadino congolese Patrick Lumumba Diya, al quale peraltro è dedicato il pezzo che ne ricostruisce la personalità - anzi, “il mistero”, “l’enigma”: un pezzo infelice, firmato dal pur stimabile Giovanni Maria Bellu. La foto, l’impaginazione, i titoli e gli occhielli concorrono a disegnare il dito puntato minacciosamente contro il Colpevole ideale: straniero, esotico, negro, anticonformista. Mica il biancocattolicoitalianomediopadredifamiglia che certune pensano sia il genere di femminicida e stupratore più consueto, e con loro le statistiche che, come si sa, sono sempre bugiarde… Scarcerato il congolese per insussistenza d’indizi, quindi fallita, come nel caso di Erba, la costruzione del colpevole ideale, ecco apparire il Quarto Uomo: ancora un africano, per la gioia dei nostri gazzettieri.
Tutto questo fervore nell’enfatizzare e mediatizzare stupri e femminicidi
allorché sulla scena del crimine s’affacci il volto dello straniero, fosse
pure del tutto incolpevole, si affloscia miseramente quando si tratta di
dar conto della quotidiana violenza subita dalle donne, anche nelle forme
più estreme: violenza maturata spesso in seno alla famiglia, consumata nel
chiuso delle mura domestiche, perpetrata nell’ambito delle relazioni di
prossimità. Come se non fosse tragicamente vero (ce lo dice il Rapporto 2007 del World Economic Forum sul Gender Gap) che, per parità femminile nel campo del lavoro, della politica, delle istituzioni, della salute, delle aspettative di vita, l’Italia occupa uno scandaloso 84° posto su 128 paesi: clamorosamente in basso rispetto alle Filippine (6°), allo Sri Lanka (15°), al Sudafrica (20°), alla vituperata Romania (47°)… E come se le discriminazioni, le offese, le molestie, la violenza sessiste niente avessero a che fare con tale vergognoso gap.
Impermeabile ai dati empirici più inoppugnabili, la retorica che fa leva
sulla razzializzazione del sessimo ha, fra gli altri effetti, se non
scopi, proprio quello di persuadere che, quanto a diritti delle donne,
viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Se la tendenza a razzializzare il sessismo fosse confinata nel mondo dei
media, la cosa sarebbe preoccupante ma arginabile, forse. Essa invece
dilaga verso il basso e verso l’alto, fino ai vertici sommi delle
istituzioni. L’idea implicita che ispira queste tendenze è che la liberazione delle donne s’identifichi con l’estensione e l’applicazione conseguente del modello liberale, insidiato dall’irruzione nelle nostre società della barbarie del mondo non-occidentale. Per fortuna, questa tendenza non è affatto prevalente: il sintetico appello che convoca la manifestazione di sabato prossimo afferma limpidamente che la violenza sessista, “il peggiore crimine contro l’umanità”, è “inflitta senza differenza di età, colore della pelle o status".
questo articolo è uscito su Liberazione del 24 novembre 2007
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