Tutti pronti a condannare la violenza. Ma solo se l'uomo è "negro"

di Annamaria Rivera


Roma, 24 novembre 2007

Perché la violenza contro le donne conquisti le prime pagine dei giornali il faut chercher l’étranger. Altrimenti, silenzio di tomba oppure qualche trafiletto di cronaca per lo più confinato in quotidiani locali o gratuiti.

La tendenza, della quale La Repubblica è all’avanguardia, si è ormai consolidata come carattere strutturale e distintivo dello stile mediatico del Belpaese, finendo per diventare anche un tratto peculiare dell’immaginario collettivo italico.
La violazione dei principi etici più elementari quale si consuma in Italia nel campo dell’informazione non ha pari in altri paesi europei. Alla faccia del codice etico sottoscritto nel 1996 e di quello che vorrebbe riscrivere, non si sa per quale arcana ragione, una commissione istituita ad hoc presso un ministero.

Immaginate quale putiferio si scatenerebbe in Francia o nel Regno Unito se un quotidiano osasse le imprese che i nostri compiono ogni giorno. E non perché altrove siano assenti xenofobia e razzismo; semplicemente perché in altri paesi funzionano dei freni inibitori o, se preferite, un minimo di correttezza politica condivisa, che almeno occulta o stempera le pulsioni più intolleranti.

Solo un esempio fra i tanti: non pago di ciò che aveva combinato in occasione della strage di Erba, l’8 ottobre scorso il quotidiano in questione, dedicando un’intera pagina alla cronaca dell’omicidio di Perugia, ne ripropone ostinatamente lo schema. In quel momento, gli indiziati in carcere sono tre, e per almeno uno dei due bianchi gli indizi sembrano essere consistenti. Ma nella pagina campeggia un’unica foto: quella del cittadino congolese Patrick Lumumba Diya, al quale peraltro è dedicato il pezzo che ne ricostruisce la personalità - anzi, “il mistero”, “l’enigma”: un pezzo infelice, firmato dal pur stimabile Giovanni Maria Bellu. La foto, l’impaginazione, i titoli e gli occhielli concorrono a disegnare il dito puntato minacciosamente contro il Colpevole ideale: straniero, esotico, negro, anticonformista.

Mica il biancocattolicoitalianomediopadredifamiglia che certune pensano sia il genere di femminicida e stupratore più consueto, e con loro le statistiche che, come si sa, sono sempre bugiarde… Scarcerato il congolese per insussistenza d’indizi, quindi fallita, come nel caso di Erba, la costruzione del colpevole ideale, ecco apparire il Quarto Uomo: ancora un africano, per la gioia dei nostri gazzettieri.

Tutto questo fervore nell’enfatizzare e mediatizzare stupri e femminicidi allorché sulla scena del crimine s’affacci il volto dello straniero, fosse pure del tutto incolpevole, si affloscia miseramente quando si tratta di dar conto della quotidiana violenza subita dalle donne, anche nelle forme più estreme: violenza maturata spesso in seno alla famiglia, consumata nel chiuso delle mura domestiche, perpetrata nell’ambito delle relazioni di prossimità.
Violenza estesa e trasversale agli ambienti sociali, alle origini nazionali, alle appartenenze religiose, come confermano i dati statistici: oltre 14 milioni di donne italiane nella loro vita hanno subito violenza fisica, sessuale o psicologica; nel 2007, ancora in corso, ben 57 donne sono state vittime di omicidio; nel 2006, 74mila donne sono state vittime di stupro, nella gran parte dei casi compiuto dal partner o nell’ambito familiare; nello stesso anno, 1 milione e centocinquantamila hanno patito qualche forma di violenza fisica, sessuale o psicologica.
Sette volte su dieci la vittima di omicidio è una donna; sette volte su dieci la violenza sulle donne è stata esercitata da mariti, fidanzati, amici, compagni… Ancora più distratti divengono gazzettieri e politici allorché a subire violenze, stupri ed omicidi sono le donne straniere.

Per certi media, certe istituzioni, certi politici, perfino talune associazioni, le straniere divengono interessanti solo in due casi: se possono essere rappresentate come vittime di culture e religioni arretrate (come portatrici di hijab, chador, burqa od oggetto di mutilazioni genitali); se sono ammazzate da padri, fratelli, zii appartenenti a culture “retrograde e barbariche”.
Come se la violenza sessista provenisse da oscure viscere primordiali invece che da un ben definito sistema di dominio che perdura, si adatta e si conforma alla modernità più “avanzata”. Come se i germi della violenza non s’annidassero in un sistema “liberale” che non concepisce altra forma di “libertà” femminile se non quella che passa per corpi offerti, mercificati, griffati, sottomessi ai canoni del mercato, della moda, della pubblicità.

Come se non fosse tragicamente vero (ce lo dice il Rapporto 2007 del World Economic Forum sul Gender Gap) che, per parità femminile nel campo del lavoro, della politica, delle istituzioni, della salute, delle aspettative di vita, l’Italia occupa uno scandaloso 84° posto su 128 paesi: clamorosamente in basso rispetto alle Filippine (6°), allo Sri Lanka (15°), al Sudafrica (20°), alla vituperata Romania (47°)… E come se le discriminazioni, le offese, le molestie, la violenza sessiste niente avessero a che fare con tale vergognoso gap.

Impermeabile ai dati empirici più inoppugnabili, la retorica che fa leva sulla razzializzazione del sessimo ha, fra gli altri effetti, se non scopi, proprio quello di persuadere che, quanto a diritti delle donne, viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Attribuendo alla componente maschile dell’immigrazione (preferibilmente musulmana) il monopolio dell’oppressione e della violenza sessista e alla sua componente femminile quello della sottomissione e dell’umiliazione di genere, questa retorica prende due piccioni con una fava: occulta e assolve il sessismo nostrano, facendone un fenomeno esotico, estraneo, importato; strumentalizza il tema dell’uguaglianza di genere per stigmatizzare intere categorie di “alieni”, collettivamente colpevoli di oppressione e crimini sessisti.

Se la tendenza a razzializzare il sessismo fosse confinata nel mondo dei media, la cosa sarebbe preoccupante ma arginabile, forse. Essa invece dilaga verso il basso e verso l’alto, fino ai vertici sommi delle istituzioni.
Si pensi solo alla Carta dei Valori voluta dal ministro dell’interno: in modo implicito ma assai poco sottile, il testo propone l’immagine di un’alterità indistinta e arcaica ove dominano oppressione di genere, poligamia, matrimoni forzati, nozze fra bambini, burqa e chador, opposta all’immagine idealizzata di un’Italia impegnata allo spasimo per garantire alle donne piena uguaglianza, parità e libertà. Quanto al “basso” (ma senza scendere così in basso da occuparci di una certa signora marocchina, che goffamente cerca d’imitare la Fadela Amara di “Ni pûtes, ni soumises”), basta considerare solo l’entusiasmo col quale alcune marginali tendenze femministe hanno salutato la legge proibizionista francese (contro il velo).

L’idea implicita che ispira queste tendenze è che la liberazione delle donne s’identifichi con l’estensione e l’applicazione conseguente del modello liberale, insidiato dall’irruzione nelle nostre società della barbarie del mondo non-occidentale. Per fortuna, questa tendenza non è affatto prevalente: il sintetico appello che convoca la manifestazione di sabato prossimo afferma limpidamente che la violenza sessista, “il peggiore crimine contro l’umanità”, è “inflitta senza differenza di età, colore della pelle o status".

 

questo articolo è uscito su Liberazione del 24  novembre 2007

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