Rosenstrasse

di Valeria Consoli


 

E' un vero peccato che Margarethe Von Trotta non abbia vinto anche questa volta - a più di vent'anni di distanza da quegli Anni di Piombo, che restano il suo capolavoro assoluto - il Leone d'oro al Festival di Venezia! Dopo gli interni padani e le inquadrature nebbiose di Paura e amore, l'atmosfera raffinata e un po' inquietante de L'africana, interrotta dal fiacco Il lungo silenzio - da lei scritto di getto all'indomani di Tangentopoli e dell'attentato al Giudice Falcone, quasi a voler rendere un omaggio all'Italia, divenuta ormai quasi la sua seconda patria, la Von Trotta torna nella sua Germania per fare un viaggio a ritroso nel tempo con un film, nel quale racconta di un gruppo di donne ariane nella Berlino del '43.


Narrato in una rappresentazione a più piani, in cui si intrecciano i destini di tre donne - una madre ed una figlia di origine ebraica trapiantate a New York, quindi a Berlino un'ormai anziana signora tedesca sposata ad un ebreo - sarà proprio quest'ultima a narrare alla giovane, arrivata nella vecchia Europa alla ricerca delle proprie origini, una storia d'amore struggente quanto corale: quella, che nella Rosenstrasse, una strada di Berlino sede di un presidio nazista, tra il 27 febbraio ed il 6 marzo del 1943, vede un gruppo di donne tedesche chiedere la liberazione dei loro mariti ebrei ivi fatti prigionieri.


Caratterizzato da un andamento intessuto sul recupero memoriale, che per certi aspetti può riportare alla mente Hjios, il film del regista italo -argentino Marco Bechis sui nati dai desaparecidos, che si mettono sulle tracce dei genitori reali, rifacendo in questo caso il cammino inverso, a chi le chiede se anche la protesta delle donne di Rosenstrasse possa paragonarsi a quella delle argentine madri di Plaza de Mayo, la regista risponde 'Le donne argentine erano organizzate e la loro protesta era anche politica, contro il governo militare. Nella Germania nazista un'opposizione politica era impossibile. Quelle tedesche manifestavano individualmente, per riavere i loro mariti, e si ritrovarono ad essere una moltitudine, forse più di un migliaio, senza alcun accordo o progetto collettivo.'

Intensa l'interpretazione della brava Katja Rieman nei panni della giovane pianista (inevitabile, a questo proposito, il richiamo al film di Roman Polanskji, anche per l'argomento trattato, la shoah), che insieme a Jutta Lampe - indimenticabile protagonista di Anni di piombo - ed a Maria Schrader, nei panni della figlia americana, forma ancora una volta un trio di figure di donna, come soltanto la regista tedesca è in grado di portare sullo schermo.