Francia, Germania, Cina e Russia hanno dunque ottenuto
un rinvio di qualche settimana al Consiglio di sicurezza: gli ispettori
torneranno il primo marzo a riferire sul disarmo di Saddam. Che cosa si
intenda per disarmo è peraltro sempre più confuso. Armi di sterminio in
Iraq non ce ne sono (mentre molti altri paesi le detengono virtuosamente)
ed è da dubitare che ci siano, ben nascoste, armi chimiche. Del resto è
ipocrita nascondersi che in questi pochi giorni non si verificherà se
l'Iraq abbia disarmato o no, (disarmato è stato in grandissima parte fin
dal 1993), ma se gli Stati Uniti ritireranno la decisione di invaderlo, o
se la terranno ferma, ma soltanto con la Gran Bretagna, e senza o contro
il voto dell'Onu. Che recedano è poco probabile. George W. Bush ha da
tempo deciso di completare l'opera di Bush padre, proponendosi molti
obbiettivi: mostrare i muscoli dopo la crudele ferita subita l'11
settembre da un'Al Qaeda inafferrabile, ma che viene dal mondo arabo;
installarsi nel cuore del Medio Oriente, zona sfuggente e testa di ponte
sull'inquietante Asia; impadronirsi del secondo grande giacimento mondiale
di petrolio. E' una volontà di dominio, che ben si coniuga con gli
interessi economici a breve ma non è riducibile ad essi. Possesso di armi
di sterminio e collegamenti con Al Qaeda - indimostrati e improbabili,
Saddam essendo un tiranno laico - non sono che il pretesto con il quale
gli Usa giustificano, fin dal rapporto sulla New Strategy, la
determinazione di imporsi al mondo. L'attuale amministrazione americana è
convinta di essere la sola ad aver capito qual è il nemico, il terrorismo
ora internazionale ora islamico e si è istituita come gendarme mondiale -
quel che di loro dicevano gli estremisti degli anni `70 scrivono di se
stessi, nero su bianco - e si considerano in grado, dunque in diritto, di
intervenire dovunque ritengano lesi i loro presenti e futuri interessi,
nei quali identificano senz'altro quelli della Libertà.
Come Colin Powell e Bush hanno detto ieri, si riservano, Blix o non Blix,
di intervenire con le armi, cominciando con il rovesciare tonnellate di
esplosivo sul territorio iracheno e poi scaraventando su Baghdad tutta la
loro forza d'urto militare. Il solo problema che si pongono è usare queste
poche settimane non per accertare che cosa l'Iraq abbia o sia, cosa che
gli è affatto indifferente, ma per tentare di uscire dall'isolamento nel
quale si sono trovati al Consiglio di sicurezza.
Questo non lo avevano previsto e nascondono a stento davanti alle
telecamere la collera nello sperimentare, per la prima volta dopo la
caduta dell'Urss, che qualcuno gli opponga un veto. Hanno dilapidato in
poco tempo l'unanimità nel mondo che gli era venuta dopo l'attentato alle
due Torri. E non riescono a darsene ragione. Non celano di essere stufi
delle Nazioni Unite, ma non ignorano che senza il loro accordo ogni
operazione in Iraq sarà illegittima e potrebbe costituire un
incontrollabile precedente. Bush e qualche suo sciocco emulo italiano
dicono che il Palazzo di Vetro non conta più niente - mentre conta proprio
adesso, quando è tornato ad essere la scena visibile di un conflitto
mondiale, sulla quale la superpotenza americana incontra un ostacolo. E'
avvenuto qualcosa di irreversibile: cade l'Onu? cade ogni regola o
garanzia nella guerra di tutti contro tutti; non cade? evidenzia
clamorosamente che le scelte di Bush sono state rovinose per l'Alleanza
atlantica.
E' un problema anche per le "vecchie potenze europee", soprattutto per la
Germania che nel dopoguerra è stata il baluardo degli Stati Uniti in
Europa, almeno fino alla seconda fase di Brandt. Erano stati gli Usa a
garantirne la rinascita e il ruolo dopo la sconfitta. Meno sorprendente la
ribellione della Francia, che da de Gaulle in poi ha avuto delle velleità
di indipendenza. E infatti è a Parigi che la stampa americana invia gli
strali più velenosi (e ricambiati).
Ma non è una scaramuccia. L'Onu non solo può sopravvivere allo scontro di
oggi ma perfino riprendere respiro; quella che non ne uscirà intatta è la
Nato. La quale si trova di fronte alla domanda "ma a che servi?", che
aveva evitato di porsi nel cinquantesimo anniversario della sua
fondazione, quando invece di sciogliersi, essendo scomparso il nemico
contro il quale era nata, si rilanciava allargando indefinitamente il
proprio campo di azione. La Nato presuppone una unità di politica estera
fra Stati Uniti e Europa, se questa cessa la Nato non ha senso. Già oggi
il rifiuto francese, tedesco e belga di prendere subito misure di aiuto
militare alla Turchia, da sempre superbase americana puntata a est, mette
in serio imbarazzo il governo islamico di quel paese, che poco gradisce
l'intervento in Iraq e vorrebbe esserne protetto anche ai fini interni.
Le carte sono tutte sul tavolo e non ci sono molte varianti. La meno
probabile è che gli Stati Uniti riescano ad ottenere la testa di Saddam
Hussein senza invadere il paese per qualche manovra dell'ultimo minuto. La
più seria sarebbe che Bush recedesse, riservandosi di tener sospesa sul
capo dell'Iraq la spada di Damocle che non ha mai deposto, ma pagando un
prezzo assai elevato all'interno e nei rapporti mondiali. Pagherebbe
subito cioè, quel che prima o poi dovrà pagare se si infila in quella
tragica avventura, e molto sangue sarebbe risparmiato. E sarebbe il
realizzarsi d'una volontà popolare che ieri e in queste ore dilaga nel
mondo.
Terza e più probabile ipotesi è che Bush vada avanti e Francia, Russia e
Cina siano costrette a scegliere se mettergli o no il veto al Consiglio di
sicurezza. Consumare o no la rottura, finora evitate con l'espediente di
dare più tempo agli ispettori. Ma anche per i quattro paesi è difficile,
arrivati questo punto, recedere o sgattaiolare attraverso una seconda
risoluzione architettata da Powell. Ma se non si piegano anche l'Europa
risulterà divisa in due, e i governi di Blair, assediato dal suo partito
oltre che dalla folla, di Aznar e Berlusconi, assediati da folle immense,
si troveranno in difficoltà. La spinta popolare, anche se non è stata la
sola a determinare l'atteggiamento di Francia e Germania, avrà segnato una
mossa importantissima.
Non ancora decisiva perché è tremenda, salvo per i nostri governi e i
nostri grandi media, la prospettiva di un paese, già ridotto allo stremo
come l'Iraq, investito da una potenza militare schiacciante. Soltanto Bush,
Rumsfeld e Condoleezza Rice, nonché i loro vassalli italiani, tengono in
non cale le decine o centinaia di migliaia di vite che verranno, come nel
1991, devastate dai bombardamenti, dei quali ci descrivono con
soddisfazione l'entità e l'efficacia. C'è nell'atteggiarsi di questi
leader repubblicani quel che di più simile ho sentito alla certezza di sé
del Terzo Reich, la stessa determinazione a portare dovunque con le armi
il loro ordine. Assieme al ripetere, che fa venire i brividi e un europeo,
del "Dio è con noi", Gott mit uns.
La loro arroganza è accompagnata dalla approssimazione con la quale
guardano a quel che seguirebbe un'invasione anche relativamente
"riuscita": non hanno ad oggi alcun piano. In Afganistan c'erano i
"signori della guerra", eroi della resistenza all'Unione Sovietica, cui
consegnare il paese al posto dei precedentemente amati talebani; ma che
interlocutore hanno in Iraq? I tentativi di trovare nei due incontri di
Londra un successore a Saddam Hussein sono falliti per i pessimi rapporti
esistenti fra la maggioranza sciita, la grande minoranza curda e la
minoranza sunnita che governa. La certezza che con la forza e i soldi si
risolve tutto rivela soltanto la miopia dell'attuale Dipartimento di
stato, e non è l'ultima ragione dell'esitazione europea a seguirlo. E'
simile alla cecità con la quale hanno creduto di catturare
un'organizzazione terroristica prendendo a bombe un paese che forse la
ospitava e dal quale essa si è dileguata, quella con la quale si inoltrano
nell'orgoglioso e turbolento continente arabo, sollecitandone i
fondamentalismi più furibondi. Salvo il rispetto, l'Iraq non è l'Afganistan,
è il cuore del mondo arabo, accanto a infide polveriere come il Pakistan e
l'Arabia saudita - sospette di coltivare Al Qaeda molto più che il rais
laico. E' insensato pensare che con l'eliminazione di Saddam Hussein la
faccenda sarà conclusa: e non solo perché sembra ovvio attendersi una
reazione terrorista, ma perché tutto il Medio oriente, dall'Iran
all'Egitto, entrerà in fibrillazione. Non si tiene militarmente una
regione di antica civiltà e poteri, attraversata da contraddizioni
terribili e con la quale non si hanno rapporti se non già detestate
oligarchie.
E' questo che induce alcuni stati europei, oltre a Russia e Cina, a non
seguire Bush in un'operazione nella quale non sarà facilissimo entrare, ma
ancora più difficile durare. E che produrrà odio e rivolte nelle grandi
minoranze musulmane che dilagano in Europa e in Asia. Francia e Germania
non auspicano un nuovo fronte interno sotto la sempre e più potente spinta
migratoria. Se è rischioso rompere con gli Stati Uniti non lo è meno
esacerbare il rapporto con l'Islam.
Tutti hanno capito il vicolo cieco in cui Bush si è messo salvo Blair,
Aznar e Berlusconi. I quali dovrebbero riflettere sugli sviluppi concreti
della New Strategy e sulla straordinaria mobilitazione contro di essi
dell'opinione mondiale. I governi che fanno della maggioranza numerica
alle Camere e del controllo dei media l'alfa e l'omega del potere,
dovranno pur chiedersi perché non stanno più comandando l'opinione
pubblica. Perché d'improvviso cede un consenso di cui erano sicuri. Tutte
le capitali del mondo sono attraversate da manifestazioni che non possono
essere attribuite ai soli gruppi militanti - è come se tutta l'opinione
riflessiva, anche quella già indifferente o astensionista, si risvegli
insofferente, non ne possa più, non sopporti più, domandi con animosità ai
propri governi: ma dove ci state portando?
Colpisce che lo spirito di questo movimento sia quello della Carta delle
Nazioni Unite, dichiari il ripudio alla guerra come soluzione dei
conflitti. L'esperienza della guerra del Golfo, di quella del Kossovo e di
quella dell'Afghanistan hanno distrutto qualsiasi illusione, se mai c'era,
che le armi fossero una scelta dura ma necessaria per esportare più
giustizia e quindi più pace. I tessuti devastati non guariscono, la
democrazia è una conquista che va seminata e coltivata, anche nei campi
altrui, con altri argomenti. Che certo l'ordine neoliberista non possiede.
Di colpo grandi masse che si credevano addomesticate dai consumi facili,
compresa la facilità delle idee, si sono levate a dire di no. Sono masse
acculturate, niente affatto inclini a passar sopra ai guasti delle
dittature. Sono però convinte che non si aggiustano con la prepotenza
delle armi. E sono lungi dal credere alla favola della generosità
occidentale. E se lo comunicano. Quella tecnologia che era stata pensata
per accelerare i tempi reali soprattutto della speculazione finanziaria,
si è rivelata un'arma a doppio taglio. Serve anche a chi si oppone al
sistema. Davanti al messaggio della stampa e delle tv, tutte belliciste,
il net si rivela il mezzo ingovernabile e incontrollabile
dell'opposizione sociale e civile, che in esso costituisce la sua propria
rete di informazione e di scambio, più agile e mobilitante di qualsiasi
apparato di comunicazione abituale. Con esso il movimento no global, per
natura contrario alla leadership dei paesi più ricchi, si è incontrato con
le più antiche non violenze, ha incrociato sia il sindacato sia la
preoccupazione delle chiese, ha costituito un circuito sul quale nulla
possono i poteri. Da noi ha accerchiato perfino il conflitto di interessi,
dato che non è certo da Mediaset e dalla Rai che sono venute le centinaia
di slogan, dai più seri ai più divertenti, che punteggiavano il serpentone
di gente che ha percorso ieri Roma dilagando in mille affluenti. Questo
movimento ha perfino una bandiera, riscoperta contro tutte le tradizioni
patriottarde, la bandiera bellissima, mondiale, multicolore, da sventolare
o nella quale avvolgersi sotto il sole d'inverno. C'è un nuovo humus per
la produzione di simboli.
Come si spiega che la gente compia quell'atto insolito, e un po' scomodo,
che consiste nel prendere il treno o il pullman per due notti di fila, per
raggiungere decine di migliaia di altre persone in una piazza, mescolarsi
con altri corpi, riconoscersi e sorridersi? Perché se qualcosa è stato
straordinario a Roma, oltre alla quantità della folla, era il senso di
festa con il quale si ritrovava una collettività mossa da una
preoccupazione drammatica come la guerra. Veniva credo dalla percezione di
non essere solo succubi, ascoltatori, massa destinata a subire.
Era anche la prova che la crisi della politica non esiste. Ne sono in
crisi le forme depauperate, è in crisi la politica come professione, è in
crisi una sinistra superprudente, compromissoria, intellettualmente pigra,
settaria. E infatti non la si è quasi vista in quell'immensa fiumana,
anche se c'era. S'è vista soltanto la Cgil. Ma si vede quel che si cerca,
e come si sarebbero potuti cercare in una grande manifestazione contro
Bush e la guerra, i partiti sedicenti di sinistra e incapaci di pensarsi
fuori dalla calda coltre atlantica, siano le nuove frontiere o Rumsfeld a
tirarne i capi? Ben incauta è suonata la battuta di d'Alema: Berlusconi,
se ci sei batti un colpo. Questa folla la domanda l'avrebbe rivolta a lui:
se ci sei batti un colpo. Sinistra per bene, non farti bypassare
dall'astuto Chirac, dall'ex sessantottino Fischer. Su, un sussulto di
coraggio. Non è il popolo che manca.
Da il manifesto del 16 febbraio 2003 |