Tratti filosofici

Dei saperi che escono dal silenzio

Donatella Bassanesi



Appennino ligure-piemontese

La filosofia (filo-sofia), ossia amore per il sapere e la saggezza, ha nel suo doppio significato (sapere-saggezza) una sorta di ambiguità di cui si deve tenere conto: perché si possono sapere molte cose senza per questo essere persone sagge, e si può essere persona saggia per una specie di forza profonda, quasi inconsapevole che può spingere verso questo strano amore per il sapere che è la filosofia.

Alla verità, difficilmente ricostruibile per le deformazioni a cui è stata sottoposta, ci si accosta a partire dal de-cifrare e dall’analizzare freddamente le ragioni che le giustificazioni (che nella parola stessa, giustificare, indicano uno stare lungo una traiettoria che si pensa, si vuole o si vorrebbe fosse quella giusta) hanno prodotto.

Cercare di capire per non indifferenza, per scoprire ciò che qualcuno ha voluto nascondere. Perciò bisogna accettare la distanza come possibilità di conoscenza, distanza che non è estraneità (e neppure indifferenza o dimenticanza).

Anche quando è passato molto tempo e potrebbe aver vinto l’oblio – perché la distanza prodotta dal tempo crea una lontananza simile a quella che risvegliandoci proviamo ricordando il sogno che nella notte ci è venuto incontro, eppure al risveglio ci sembra un pensiero che si colloca altrove, sembra qualcosa, forse un movimento che trascorre lungo i confini, in un mondo lontano, perduto.


Perciò in fondo sappiamo che conoscere non può mai essere dell’intera verità, ma della sua traccia, che ne è l’ombra, allude a un piano della realtà, di cui noi cogliamo solo incertamente il profilo. D’altra parte la parola verità traduce la parola greca aletheia che significa non-nascondimento (ossia il movimento di uscita dal nascosto, che presuppone un motore).

La ricerca della verità come motore di movimento, la verità che chiede di essere ricercata per entrare in un movimento, che è il concreto vivere.

Realtà che è l’ “essenza concreta del vero” scrive Walter Benjamin (W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Suhrkamp Verlag, 1963, tr. it. Il dramma barocco tedesco, Einaudi, 1980, p. 4).

E anche la verità che solamente intuiamo, da cui siamo lontani, come lontani siamo dalla realtà che percepiamo, anche se spesso in modo distorto dalle ideologie che la forzano a interessi particolari (di altri) ma anche a un nostro particolare interesse di cui possiamo essere consapevoli o anche di cui potremmo non essere pienamente coscienti.


Si possono intuire tracce: interventi che aprono un vuoto, del possibile, della realtà come “essenza concreta del vero” (ibid. p. 4). Noi tuttavia ci troviamo in procinto di una danza che forse possiamo vedere solo a (o come) distanza.

È necessario ascoltare i silenzi, quelli superficiali e specialmente quelli profondi, che scavano nella superficie. Pensieri come cose che cadono come pietre, che rivestono la terra sepolta sotto lacrime asciutte, in un terreno dove l’ombra accoglie i racconti.

Stare in mezzo è il senso mediatore del concetto che sta tra il fenomeno e l’idea, permette al fenomeno di partecipare all’essere dell’idea; che rende il fatto che le idee non si rappresentino attraverso se stesse ma come concatenazioni.

Conoscere, che non può mai essere della intera verità, ma della sua traccia, che ne è l’ombra. Traccia che allude a un piano che è quello della realtà: realtà che è l’ “essenza concreta del vero” scrive Walter Benjamin (W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Suhrkamp Verlag, 1963, tr. it. Il dramma barocco tedesco, Einaudi, 1980, p. 4) , di cui noi cogliamo solo incertamente il profilo. D’altra parte la parola verità traduce la parola greca aletheia che significa non-nascondimento. Ossia il movimento di uscita dal nascosto, che suppone un motore.

La ricerca della verità come motore di movimento, la verità che chiede di essere ricercata per entrare in un movimento, che è il concreto vivere.

E anche verità che solamente intuiamo, da cui siamo lontani, come lontani siamo dalla realtà che percepiamo, anche se spesso in modo distorto dalle ideologie che la forzano a interessi particolari, di altri, e anche a un nostro particolare interesse di cui possiamo essere consapevoli ma anche di cui non potremmo non essere pienamente coscienti).

Si possono intuire tracce: sono interventi, aprono un vuoto che è il possibile, si riferiscono alla verità, e alla realtà, ossia: all’ “essenza concreta del vero” (ibid. p. 4).

Da cui noi tuttavia ci troviamo a distanza, in procinto di una danza che forse possiamo vedere solo a (o come) distanza, dis-danza.

È necessario ascoltare i silenzi, quelli superficiali e specialmente quelli profondi che scavano, vanno oltre la superficie. Pensieri come cose, cadono come pietre che rivestono la terra sepolta sotto lacrime asciutte in un terreno dove l’ombra accoglie i racconti.


II

Mi è capitato di sentire la forza di parole che escono da un silenzio.

Così ho provato ad ascoltare il silenzio e le voci che risuonano lungo una montagna, lungo strade poco frequentate.

Voglio cercare di raccontare cosa ho incontrato.

C’è un paesino di poche case, in alto, sull’Appennino, nel passaggio dalla provincia di Alessandria a quella di Genova. Il suo nome è San Clemente.

Sul muro di una casa c’è una lapide con una scritta:

Il 27 novembre 1944

i nazifascisti saccheggiarono S. Clemente

il 14 dicembre 1944

lo incendiarono

il 17 dicembre 1944

lo cannoneggiarono

il 18 dicembre 1944

uccisero il patriota contadino Eugenio Franco

il 5 febbraio 1945

fecero saltare le case con la dinamite

perché la gente di questo paese

partecipava alla lotta per la libertà

L’associazione nazionale partigiani d’Italia – Nel 40° della Liberazione.


Questa casa è abitata da Angela e Agostino Franco, sono sorella e fratello, lavorano la terra e tengono degli animali.

Parlo con Angela Franco. Angela di cui, negli anni, sono diventata amica: la coraggiosa e indignata Angela - che già al primo e inaspettato incontro aveva voluto parlarmi, dire cosa in quel luogo aveva visto con i suoi occhi.

Quella che abbiamo davanti è la sua casa. Una casa piena di storia.

Negli anni ci sono stati altri momenti, in cui i ricordi si sono come accavallati, conservando tuttavia sempre la profondità di qualcosa che sembra insieme svelarsi e coprirsi, per una forza del sentire che è molto vicina a quella che definiamo forza dell’amore.

Ne riporto frammenti, spezzati, che ho trascritti

Angela: “Partivano tutte le mattine coi muli e andavano a Crocefieschi che era un centro. C’era il fratello di mia mamma e un cugino di mio padre nel 1918. C’era la Spagnola.
(…)
Mio padre, mio zio e questo ragazzo arrivavano bagnati e caricavano i muli.
Mio padre gli piaceva fare da mangiare. Metteva sul fuoco la pentola di rame sulla stufa e faceva bollire il latte”.
(…)
“Il fratello di mio nonno Franco Angelo”
“Ricordo il primo anno che sono andata a scuola, la cartella che poi si è rotta subito.

Donatella: “Tuo padre era alto?”

Angela: “Un poco più basso di Agostino (che è il fratello di Angela), e ricordo che lo pettinavo. Quando è morto mio padre io sono rimasta scioccata.
Mio padre e mia madre da Dova sono venuti a vedere come era la casa.
E quando è arrivata la notizia ero in casa di mia zia.
Prima di arrivare a Vobbia hanno ammazzato mio padre. Chi ha visto ha poi parlato che l’hanno fucilato e poi tolto dalla strada.
L’hanno poi messo a casa.
Il cane che gli era sempre dietro, no…

(Ad Agneto, al cimitero c’è la tomba del padre di Angela)

Angela continua:

“I miei zii hanno poi fatto ‘la cavalletta’…”
“Io sono per la terra. Sono nella stessa fossa mio padre e mia madre (aveva 76 anni, era del 1910) perdeva la memoria. Forse perché pensiamo troppo. Io mi agito. Tanta gente non è così, io sono malfatta ma non ne posso fare a meno”.
“Io dico non voglio pensarci.
Dicono che i poli opposti vanno d’accordo ma io vado d’accordo con chi è simile. Con chi è troppo differente è troppo difficile rimanere insieme. Se si è troppo diversi poi col tempo finisce. Io sono rimasta sola, ma sono contenta, specie con la gente che c’è adesso.
Io ho sofferto tanto di essere rimasta senza padre… che … come si fa ad abbandonare i bambini!?… Anche la nostra gente di qua è cambiata, superficiale… sembrano i padroni del mondo.”

“Abitava qui uno che si chiamava Vignolo, è nel camposanto di Agneto, uno di Genova, uno ricco, si è fatto la casa, si faceva portare il giornale”.

(abitava in una casa di fianco a quella dei Franco)

“Giocava, era civilizzato.
Si passa nei paesi, non c’è niente: persiane chiuse e basta.
Molte case ci sono oggi a S. Clemente.
Oggi litigano di brutto per un cancello, eppure è così – prima forse perché erano tutti poveracci non facevano così – eppure hanno i figli laureati”.

“Qui non è rimasto più nessuno. Si sono sparpagliati.
Qui non c’è più nessuno, adesso qualcuno perché è agosto. Ti vien paura. E poi ci sono dei parenti che litigano sempre. Io non lo capisco neanche: o hanno fatto qualcosa di grosso o sono matti. Un po’ matti sono! Cosa vuole dire non parlarsi, non salutarsi! C’è chi dice delle cose che non possono essere vere… io quello che non mi spetta non lo voglio!…
In terra ci arriviamo. Io capisco talmente il dolore…
Le donne sono matte… Io sono arrabbiata più con le donne che con gli uomini…”

“Una camera matrimoniale caricata sui muli… hanno lasciato le reti a Crocefieschi, è andata anche la camera matrimoniale in legno di noce.
Era una pianta con cui è stato fatto anche il portone.”

“Le capre sono intelligenti. Vedessi come sono intelligenti le galline: ti riconoscono, a una decina di metri mi guardano ferme, se le chiamo sentono la voce e arrivano”.

Donatella: “Cosa puoi dirmi dei partigiani?”

Angela: “Dall’angolo della casa c’era un albero di pero e c’erano due legati (partigiani), io piangevo”.

“È come nella politica, altro che partigiani, anche loro hanno fatto…ti dico che quando nel 1969 siamo andati a Genova, questo partigiano abitava verso Bolzaneto. Ha detto: mi sono fatta una casa nuova, l’altra la posso affittare… Siamo andati a vedere: se sapessi che casa che aveva… con un salone…
Quello della villa ci ha portato a vedere una casetta. Ma quello era un partigiano peggio dei fascisti, che ammazzava per prenderci i soldi.”

Il discorso tende a farsi etico e filosofico, pur se spezzato

Angela: “Franco Angelo (fratello di mio nonno) aveva una faccia garibaldina, e mi ha detto: vi ricordate quando eravamo qua? La moglie mi ha detto: vi ricordate? E io ho detto: qui di male non ne ho fatto, ma neanche bene.”

Donatella: “Se sei buono d’anima (perché si forma via via l’anima)”.

Angela: “Io sono arrabbiata con la religione… e penso (anche) che qualcosa resta”…

Donatella: “Sì, il ricordo”

Angela: “penso che c’è gente più brava”, “delle volte penso che non si deve dire sempre la verità”

Donatella: “ma dire la verità è un rapporto di sincerità anche con se stessi!”


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