da Liberazione del 4 Gennaio 2005


Femminismo, dove siamo e chi siamo

di Linda Santilli


Natalia Goncharova, Lavandaie


Che cosa resta del femminismo è una domanda su cui ci si sta interrogando da anni, almeno dieci, e a cui non è facile rispondere. Non tenterò l'ennesima risposta ma solo di puntualizzare un aspetto che mi sta a cuore, mettendo in guardia da un rischio che vedo ripresentarsi ogni volta che si affronta questo tema.

Più che la non omogeneità delle innumerevoli riflessioni che vengono da più parti, quello che mi colpisce, quello che balza agli occhi è il fatto che cimentandosi su questo complesso quesito le "femministe storiche", per la natura stessa del quesito, non possono non chiamare in causa le nuove generazioni di donne, cartina di tornasole senza la quale risulta evidentemente impossibile confermare o smentire qualsiasi tesi a riguardo. Ciò che resta del femminismo, così come di ogni altra rivoluzione, e non solo in termini di diritti acquisiti ma anche di consapevolezza e coscienza politica collettiva (di genere), va indagato in ultima analisi su chi la rivoluzione non l'ha fatta perché non c'era, ma l'ha raccolta recepita assunta oppure no.

Cosicché l'oggetto della discussione si sposta su "le giovani", da indagare interpretare decodificare accompagnare "lasciar fare" ascoltare, ed altro ancora, ad esempio sottilmente commiserare come minus habentes, piuttosto che continuare, da femministe, al di là dell'esperienza e dell'età anagrafica accumulata, a seguire ciascuna i propri desideri nel fare politica nei luoghi che si scelgono, partendo da sé che in questo caso sarebbe utilissimo davvero.

Lo dico un po' ad alta voce non contro qualcuna in particolare, né contro tutte in generale, ma per esprimere il disagio forte vissuto anche in prima persona e insieme ad altre giovani donne, quel disagio di sentir parlare altre per te seppur mosse dalle migliori intenzioni. Mi domando, se tante energie impiegammo per impedire, fin ricorrendo all'insulto pubblico (vi ricordate il caso Libertini?), che uomini pure autorevolissimi sparlassero paternalisticamente in nome delle donne, è possibile che il monito sia giunto agli uomini, oggi assai più cauti, e non alle orecchie e alla sensibilità di tante compagne femministe?

Ancora tocca alle più giovani di trovarsi a sperimentare, a seconda delle scuole di pensiero o se si preferisce dei femminismi incontrati sulla strada, o l'atteggiamento maternalista, tipico del femminismo autoreferenziale, o quello paternalista più tipico di un femminismo che si referenzia parlando non "di sé" ma delle altre: "le donne" "le giovani" le latinoamericane" "le immigrate" "le precarie". Due atteggiamenti questi non contrapposti, piuttosto due facce della stessa medaglia, che mettono distanza, segnano aprioristicamente una scissione che in entrambi i casi è tanto autoreferenziale quanto colonizzatrice e strumentale.

Appartengo alla generazione degli anni 80, quella che fu definita la generazione del riflusso, dunque per antonomasia la generazione di quelle/i venute/i dopo, quelle che la rivoluzione non solo non l'avevano vissuta, me della cui sconfitta si trovavano a subire tutte le conseguenza nefaste.

Fummo, noi, oggetto di studio e di analisi, sotto i riflettori come caso limite, prova schiacciante della fine non solo del femminismo ma della storia, immerse come eravamo nella nebulosa della smemoratezza e della condanna a vivere in un eterno presente.

Come se il filo della storia si fosse rotto, riuscimmo a balbettare per un periodo solo frasi mozze un po' sbilenche, ma il dato più evidente che caratterizzava un po' tutte noi che sentivano il bisogno di uscire da quella cappa di silenzio, era la nostalgia infantile verso qualcosa di grande vissuto da altri, miti non nostri, e la sensazione di non avere nulla di significativo da raccontare, nulla che fosse sgorgato direttamente da noi. Dunque lo stesso cammino di libertà femminile di cui avvertivamo il bisogno conquistandoci la memoria attraverso l'incontro con le generazioni del femminismo, restava spesso intrappolato anche dal vizio di fondo di una nostalgia paralizzante che rimarcava ogni volta una distanza incolmabile tra noi e le altre.

In questo senso la memoria è stato e continua ad essere un terreno problematico di incontro/scontro tra le donne del prima e quelle del dopo. Un incontro conflittuale, difficile, a volte percepito da entrambe le parti come deludente, frustrante, se non addirittura doloroso. La distanza allora era enorme, chiarissima, lampante sin nel linguaggio o forse nel linguaggio più che altrove: ancora una volta noi e loro.

Avevamo tutte intorno a venti anni e scrivemmo una lettera non ricordo per quale uso, restata poi dentro un cassetto: "Le femministe, esigenti, troppo materne, didascaliche e protettive o severe e bacchettanti, incomprensibili nel loro lessico complicato, troppo indifferenti o troppo chiocce accoglienti, insopportabili quando dicono "le giovani" con quel sorriso benevolo. Chiuse nel loro mondo. Incapaci di comunicare secondo un rapporto alla pari. E noi? Noi con la perenne sensazione di un incolmabile vuoto a cui porre rimedio, di essere sempre troppo indietro rispetto a loro, rispetto a ciò che non abbiamo potuto vivere, così a disagio nei loro luoghi che non troviamo poi così diversi da quelli maschili, in cui non abbiamo il coraggio di prendere la parola; noi che possiamo fare senza di loro, o che al più rivendichiamo un rapporto alla pari, o che mentre affermiamo di non volere madri cerchiamo invece troppo spesso una donna madre maestra che ci indichi la strada, ci spieghi come districarci nel groviglio delle nostre vite frammentate così segnate dal maschile, per trovare il filo che ci porti finalmente a dire con orgoglio "io sono mia".

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti come si suol dire, il freddo e il gelo di quegli anni vanno sfumando anche se essi non sono passati invano, hanno lasciato segni profondi.

Ma oggi più che mai si avverte l'urgenza di fare il punto della situazione, capire dove siamo e chi siamo.

Ma per favore non commettiamo gli stessi errori che hanno contribuito a rafforzare muri e mettere distanze. Quando parliamo di femminismo non perdiamo di vista il soggetto politico collettivo multiforme e in divenire che siamo, che vogliamo essere, che vogliamo continuare ad essere. Dunque parliamo in prima persona, se vogliamo metterci in gioco.

Le giovani se scelgono di essere soggetto politico dentro un percorso femminista (è questo il punto su cui stiamo tentando di riflettere), qualsiasi esso sia, credo che sappiano trovare le parole per dirsi e comunicare e farsi ascoltare se lo desiderano, senza bisogno di interpreti.