Più che all’aborto pensate ai bambini
di Chiara Saraceno
 


bambini afgani

 

Ci sono dei grandi assenti nella campagna mediatica e politica scatenata in queste settimane contro l'aborto: i bambini. Nonostante le accuse di assassinio, sterminio, strage di bambini, che vengono sollevate contro la pratica dell'aborto, i bambini effettivamente nati e in crescita sono fuori dall’attenzione. Tutti gli occhi sono puntati sulla pancia gravida delle donne (molto meno sulle donne come tali e non solo come «uteri che camminano»), sugli embrioni, sui feti. Basta che nascano, sembra, e tutto è fatto. Una volta nati, i bambini spariscono dalla preoccupazione collettiva. Come nelle favole, sembra di capire, dopo «vissero tutti felici e contenti».

Così, non crea scandalo che avere un figlio rappresenti ancora per molte donne un handicap grave agli occhi di molti datori di lavoro e che per molte donne immigrate proprio le condizioni di lavoro rendano impossibile avere un figlio, esattamente come avveniva alle domestiche di un tempo. Non preoccupa che con l'espansione dei contratti di lavoro cosiddetti atipici molte donne siano escluse di fatto o di principio dai congedi di maternità.

Ma soprattutto non crea altrettanto - se non più - attenzione e scandalo dell'aborto che un quarto dei bambini nel Mezzogiorno viva in povertà e che nel nostro paese se si è poveri da bambini si ha una altissima probabilità di rimanerlo a lungo. Più in generale, non crea scandalo il fatto che il nostro sia uno dei Paesi occidentali e democratici in cui le disuguaglianze di partenza, cioè nelle origini famigliari, hanno maggior peso sul destino degli individui, a prescindere dalle capacità individuali. Perché non vi sono politiche sociali adeguate, sotto forma di trasferimenti di reddito e di servizi, che attenuino queste differenze.

Solo questa disattenzione per i bambini può spiegare la risibilità delle proposte che vengono avanzate sia dalla maggioranza sia, spiace dirlo, anche dall'opposizione, per favorire la scelta di avere un figlio: dai bonus una tantum alla nascita (con esclusione per altro delle immigrate) ad assegni di gravidanza per le donne più povere, che cessano, appunto, alla nascita. C

ome se il problema, per una donna, fosse solo quello di avere abbastanza soldi per portare avanti una gravidanza e non soprattutto quello di poter mantenere adeguatamente, e per diversi anni, il figlio che nascerà. E come se, appunto, ad un bambino bastasse nascere per diventare un uomo, o una donna. Purtroppo, invece, l'amore basta, anche se è necessario come il pane. Al punto che, se non c'è, forse è meglio non nascere.

Più che di una indagine sull’applicazione della legge 194 ci sarebbe bisogno di una bella indagine parlamentare sulle difficoltà che in Italia si frappongono alla libertà di scelta di procreare, sui costi sostenuti da chi (soprattutto le donne) fa questa scelta e sugli effetti delle disuguaglianze sociali alla nascita.

Ma una indagine di questo genere metterebbe in luce troppe contraddizioni negli stessi programmi politici e toccherebbe troppi interessi (nel sistema di welfare, nella organizzazione del lavoro, nella individuazione delle priorità). Meglio quindi trovare qualche capro espiatorio (i consultori, le donne che abortiscono) e fare qualche elemosina una tantum.


questo articolo è apparso su La Stampa il 6 dicembre 2005