La
scienza delle donne
Parole,
pratiche e scritture
di
Flavia Zucco

Desidero
iniziare il mio intervento raccontandovi alcune storie tratte dal bellissimo
libro di Londra Schiebinger "La mente non ha sesso?"
pubblicato nel 1989. Il titolo riprende una citazione da un testo
di un gesutia del '700 in cui egli sosteneva che "la mente non ha
sesso", senza il punto interrogativo, e dunque in maniera affermativa.
Trasformandolo in una domanda, la Schiebinger ha voluto sottolineare che,
anche se siamo nel duemila, oggi come allora ci chiediamo ancora se la
mente abbia un sesso, alludendo evidentemente a quello maschile. Per dare
un'dea di quali siano gli aspetti impliciti in questa domanda, ricorderò
alcune storie, che nel libro vengo raccontati in maniera molto documentata.
La prima storia riguarda tutte le pratiche ed i saperi connessi con la
maternità, di cui fin dall'antichità, erano depositarie
le ostetriche e costituivano il prodotto della loro esperienza e della
relativa elaborazione teorica. Poiché non si trattava di donne
di elevato livello sociale, la trasmissione di quei saperi avvenne per
via strettamente orale fino a quando, nel '700 in Francia, alcuni medici
cominciarono a raccoglierle, scrivendo testi in cui quel sapere veniva
corroborato da osservazioni anatomiche. Costruirono così una disciplina
e fondarono una scuola, dalla quale vennero, però, escluse proprio
quelle donne cui quella pratica e quel sapere appartenevano. Si trattò
quindi di un vero e proprio furto, di una sottrazione che non esito a
definire come un vero e proprio scippo. La Schiebinger racconta molto
bene come appena questo territorio della conoscenza abbia offerto aspetti
di guadagno e di potere sul corpo delle donne, esso sia stato incluso
nelle modalità istituzionali proprie del mondo accademico: scuole,
libri, titoli, che per definizione l'accesso alle donne.
La seconda storia riguarda l'astronomia, una disciplina che fino al '600
era molto legata all'astrologia, perché oltre a studiare gli astri,
ci si chiedeva se "dicevano" qualcosa agli uomini. In particolare
in Germania molte donne hanno fornito allo studio delle stelle un enorme
contributo, raccogliendo dati essenziali anche per l'astronomia moderna,
che furono pubblicati - come spesso capitava - sotto il nome dei fratelli
o dei mariti. Solo una ricerca approfondita ha permesso di portare alla
luce, abbastanza recentemente, la vera identità delle fornitrici
di quel sapere.
Un'altra storia interessante riguarda la medicina. In campo biologico,
la donna è stata considerata da sempre un "essere imperfetto"
un qualcosa che è simile all'uomo ma "in meno", che gli
assomiglia, ma per sottrazione. Perciò, per vari secoli, lo scheletro
umano - il prototipo disegnato e riportato nei testi - è stato
quello maschile. La prima studiosa a voler marcare la differenza fu Marie
d'Arconville nel ' 700, ma era talmente influenzata dagli stereotipi
che, per disegnare lo scheletro femminile, sovrappose a quello maschile
un teschio più piccolo e un bacino più largo: due parti
che, secondo lei, riproducevano meglio la differenza. Non si rese conto
che, in questo modo confermava proprio il luogo comune allora vigente.
Solo alla fine del '700 il primo prototipo di scheletro femminile è
stato disegnato da uno studioso tedesco.
E' importante ora presentare un altro argomento che riguarda il lavoro
delle ricercatrici, perché io ritengo che le donne nella scienza,
per farsi valere, debbano spendere molte più parole e scritture
degli uomini. E' esemplare, a questo proposito, la storia di due ricercatrici
svedesi escluse da un concorso - le microbiologhe Christine Wenneras
e Agnes Wold. Costoro si sono prese la briga (poiché la loro
costituzione lo consente) di esaminare la documentazione di tutti i candidati
allo stesso concorso e di elaborare un algoritmo in cui hanno introdotto
tutti gli elementi che avevano contribuito alla valutazione. Sono emersi
così due dati importanti: il primo è che le donne, per
ottenere lo stesso posto di un uomo, devono produrre almeno 2,6 volte
di più; il secondo è che i fattori che condizionano di più
l'esito del concorso sono il sesso e l'affiliazione ad una determinata
cordata accademica. Quando l'articolo fu pubblicato su Nature nel
1997 fece molto scalpore, ma era una realtà che vale ancora oggi,
perché noi ricercatrici per farci valere dobbiamo lavorare e pubblicare
almeno il doppio di quello che lavorano i ricercatori.
A proposito delle pubblicazioni devo però aggiungere una cosa che
mi sta molto a cuore: io ritengo che le scienziate avvertano una grande
responsabilità rispetto al prodotto del loro lavoro e questo è
uno dei motivi per cui, a volte, pubblicano di meno. Generalmente si attribuisce
la minore produzione al fatto che le donne devono occuparsi anche della
casa, di figli, mariti e così via. Nel libro di Zuckerman e
Cole pubblicato negli anni '90, anche questo stereotipo viene contestato
e si dimostra che non c'è correlazione tra produzione scientifica
e doversi occupare della famiglia. Vale piuttosto il fatto che le donne
avvertono una maggiore responsabilità rispetto alla solidità
dei dati che pubblicano, al valore dei risultati che diffondono e quindi
magari spendono più tempo per confermarli e integrarli.
Un secondo aspetto molto interessante del lavoro delle donne nella scienza
è che molte delle loro ricerche si situano in aree interdisciplinari,
per cui le loro pubblicazioni trovano una difficile collocazione sulle
riviste scientifiche in genere molto specifiche, perché i loro
saperi tendono a valicare i confini tra le diverse discipline. Io credo
che proprio questo aspetto stia diventando oggi un valore: la scienza
contemporanea infatti si caratterizza per l'estrema specializzazione delle
discipline e soprattutto per uno scarso accompagnamento di quelle estremamente
tecnologiche da parte di conoscenze e saperi di carattere umanistico,
filosofico e soprattutto etico. Allora il fatto che le donne entrino nella
scienza nella loro interezza e che percorrano quei confini tra le discipline
cui accennavo prima, traversandoli continuamente, rappresentano senz'altro
un arricchimento per la ricerca. Credo infatti che, riuscendo a tenere
insieme razionalità ed emozione, riusciranno a disegnare una scienza
o degli orizzonti scientifici, un po' più accettabili o facilmente
assimilabili da tutti noi.
26- 04- 2006
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