Le molte ragioni di una sconfitta
di Lea Melandri



Angelica Kauffmann

Per quanto il dibattito sulla Legge 40 si sia venuto via via allargando negli ultimi mesi a problematiche complesse, riguardanti la scienza, la morale, la filosofia, il rapporto tra i sessi, la crisi della famiglia, le nuove genitorialità, a prevalere, in vicinanza del referendum appena concluso, è stata ancora una volta la contrapposizione tra laicità e religione, tra clericalismo e anticlericalismo. Di conseguenza, quella che poteva essere materia di ripensamento di un’idea ormai del tutto irrealistica di politica -separata dalle vite, dai corpi, dai legami sociali su cui tuttavia è chiamata sempre più spesso a legiferare-, è tornata a configurarsi come il luogo dell’ “opinabilità”, della “coscienza personale”, e quindi, in qualche modo, di quel “relativismo” che le gerarchie ecclesiastiche vanno stigmatizzando come segno di decadimento morale e civile.

Sul peso che ha avuto la Chiesa nel far sì che la legge sulla procreazione assistita trasformasse in reato quelle forme di unioni sessuali e di genitorialità da sempre considerate “innaturali” e peccaminose, nel tradurre in termini di diritto la subordinazione della madre al figlio, ora identificato con l’embrione-persona, è stato scritto molto. Lo stesso vale per un’ingerenza politica mai così aggressiva e diretta come l’invito all’astensione dal voto. Nulla invece viene detto su quell’invasività ben più estesa, profonda e duratura, che passa attraverso la formazione di bambini e adolescenti negli oratori, che restano tutt’ora, soprattutto nei paesi, i primi e unici luoghi di socialità e ritrovo. L’automatismo con cui generalmente si identificano morale e valori con morale e valori cattolici, viene sicuramente da questa lunga inconsapevole abitudine a collocare sotto l’egida della religione vicende della vita umana come l’amore, la sofferenza, la morte, che la politica ha creduto di poter confinare nella sfera del privato e della storia dei singoli. L’indifferenza con cui la cultura laica, fiduciosa nella forza della razionalità, del progresso, delle passioni civili, ha guardato all’infanzia e alla memoria che essa consegna all’adulto, è una delle ragioni che sempre la spingono a considerare emozioni, sentimenti, paure, pregiudizi, come un fattore molesto, un ostacolo, un arcaismo, una riserva preziosa solo per torbidi manipolatori delle coscienze.

Il referendum sulla Legge 40 ha avuto quanto meno il merito di portare a conoscenza di un vasto pubblico problematiche che stanno nel cuore dei cambiamenti più significativi della nostra civiltà, mutazioni biologiche e culturali che fanno apparire, come già aveva scritto Gunter Anders, l’uomo “antiquato”. La fecondazione in vitro, cioè la separazione della sessualità dal concepimento, l’isolamento di quel primo anello del processo generativo che è l’embrione, la riduzione delle figure di madri e padri alle loro cellule germinali, ovuli e spermatozoi, il passaggio del controllo sul corpo femminile dal possesso intimo, tenero e violento, che è stato storicamente dell’amore, delle relazioni famigliari, nelle mani della scienza e della legge, come poteva non sollevare interrogativi, dubbi, fantasie, immagini persecutive e attese salvifiche? Chi poteva pensare che non avrebbe riattivato e acceso di nuovo vigore l’immaginario della nascita, la preistoria inquietante dell’originaria indistinzione dal corpo materno, la contesa che intorno a quel segreto della vita ha contrapposto uomini e donne, l’ossessione con cui la scienza, la religione e la politica, accomunate dallo stesso impianto patriarcale, hanno perseguito una presa in consegna totale della generazione dell’umano, svincolandolo dall’imprevedibile potere che ha la donna di decidere sulla vita e sulla morte del figlio?

Il riduzionismo biologico è diventato, non a caso, l’asse portante delle posizioni della Chiesa e della sperimentazione genetica, con la differenza che, se la scomposizione del corpo, la messa a nudo della materia biologica di cui è fatto, può essere sempre nobilitata dalla chiesa in quanto volontà e “natura” divina, alla scienza resta invece il difficile compito di smentire ogni volta la sua complicità col mercato e con l’uso che potrebbe farne il potere politico. La riesumazione di mostri, che purtroppo non abitano solo l’inconscio e la letteratura, ma la nostra storia passata e presente, per quanto accompagnata in alcuni casi clamorosi da visionarietà, odio, pregiudizi razziali, meritava un’analisi spassionata, la capacità di riconoscere che a volte l’immaginario è più forte di ogni riscontro reale, che per tenere a bada le paure irrazionali occorre, come ha scritto Virginia Woolf a proposito della malattia, un “intelletto radicato nelle viscere della terra”, una “robusta filosofia”.

La rinascita di spiriti religiosi particolarmente aggressivi verso una società che sempre più si allontana dai dettami di una morale sessuofobia e misogina, si era già manifestata vistosamente nella liturgia di massa che ha accompagnato la morte Giovanni Paolo II e l’elezione del nuovo Papa. Ma in quell’occasione gran parte della cultura laica, sinistra compresa, forse intimorita o affascinata dall’ampiezza di quel consenso, non è sembrata altrettanto ansiosa di rimarcare i suoi confini, di interrogarsi sulla ripresa del fanatismo e dei fenomeni di massa.

La complessità, la problematizzazione, il racconto e la riflessione sull’esperienza -là dove si mescolano fantasie e ragionamenti- sono da sempre ospiti indesiderati, per non dire nemici, della politica. Ma la semplificazione, la logica contrappositiva, non sono evidentemente più in grado di rispondere in modo convincente ai dubbi di una modernità che assiste giorno dopo giorno al veloce smantellamento dei confini noti, tra spazio pubblico e privato, reale e virtuale, valori e interessi, corpi e macchine, natura e artificio, tempo ed eternità. E’ più rassicurante credere di essere stati vinti da una Chiesa invasiva, sostenuta da alte cariche dello Stato obbedienti e genuflesse, piuttosto che ripercorrere la propria storia, riconoscerne limiti, mancanze, sordità, e provare nuove strade attraverso un’ampia, coraggiosa riflessione collettiva, che ridia parola a quel “popolo della sinistra” tanto invocato ma tenuto a debita distanza quando tenta di esprimere ciò che effettivamente gli passa nel cuore e nella testa. Se c’è una speranza di rimontare la pesante sconfitta, non è certo nella rancorosa invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche, e neppure nella difesa di una laicità astratta che invoca libertà e diritti -della scienza, della maternità-, che meriterebbero quanto meno di essere discussi.

Per decantare l’influenza e l’invasività della Chiesa occorrerebbe innanzitutto toglierle la forza dei suoi argomenti, visionaria, paranoica o reale che sia, non regalarle, come è accaduto finora, un patrimonio di esperienze, passioni, pensieri, comportamenti che riguardano la quotidianità e le relazioni più significative di ogni essere umano. Ma per fare questo è necessario prioritariamente spostare lo sguardo su di sé, chiedersi per quale inclinazione, arrogante o masochista, la sinistra ha disperso, cancellato o dissipato, saperi, pratiche politiche innovative che l’hanno attraversata, una cultura e una politica della vita, quale è stata quella del femminismo, che è ora più attuale che mai, forse l’unico argine perché l’invadenza dello Stato e della Chiesa non diventino potere sugli individui, sui loro corpi e le loro menti. Ma quali voci di donne -biologhe, mediche, giuriste, filosofe, ecc.- sono state ascoltate per questo referendum? Quanti libri, documenti, prodotti nell’arco di trent’anni sui temi della sessualità, della maternità, della salute, sono stati letti e segnalati per evitare che si riparta ogni volta dal deserto?

La diffidenza, la superficialità, il pesante silenzio dei media e della classe politica sulla riflessione prodotta da più generazioni di femministe, non hanno solo contribuito a che restassero clandestini saperi oggi indispensabili alla comprensione del mondo, ma ha consolidato stereotipi informativi buoni per tutti gli eventi: elogio a parole della portata rivoluzionaria del movimento delle donne, attribuzione di responsabilità solo all’occorrenza, e per nascondere la propria ignoranza della cultura femminista, uso scandalistico della parola di singole donne per fomentare ostilità là dove ci sono, come in tutti i movimenti, differenze e conflitti di opinione. Se è vero, come si legge sul quotidiano La Repubblica (14.6.2005), che non c’è stata quell’aggregazione collettiva che ha contraddistinto i referendum sul divorzio e l’aborto, non è vero che non ci siano stati pensiero, scritture, lavoro di gruppi e associazioni da più di dieci anni a questa parte sulla fecondazione assistita e sulla scienza, così come non è di oggi la problematizzazione di una materia che non può non creare dubbi e inquietudini. Per saperlo basta ormai qualsiasi motore di ricerca su Internet. Per volerlo sapere ci vuole invece interesse, e, nel caso dei media, senso di responsabilità professionale. Ma l’immagine folcloristica delle “streghe” è più facile e più appagante, figura di quell’immaginario che deve restare fuori dalla storia e dalla politica.


questo articolo è apparso su Liberazione del 16  giugno 2005