La Stampa, 6 maggio 2004

Se questa è una donna……

 

 

 

E' donna Janis Karpinski, il generale americano a capo del carcere di Abu Ghraib a Bagdad dove detenuti iracheni sono stati torturati anche a morte. L'hanno rimossa. Come adesso usa, ha seguitato a ripetere che lei non sapeva e non c'entrava nulla, ma la responsabilità rimane sua. Sono donne almeno tre dei torturatori americani ritratti nelle fotografie che hanno indignato l'Occidente e colmato d'ira vendicativa gli arabi, procurando l'umiliazione e la ferita più forti di tutto lo sciagurato conflitto in Iraq. Queste donne-soldato tormentano, fanno gesti sguaiati di "tutto bene" o di "missione compiuta", si mettono in posa con civetteria guerresca accanto a corpi martoriati e denudati, ridono: le hanno messe sotto processo, soltanto una di loro non comparirà in giudizio perché è incinta.

Fotografie e notizie sono scivolate su teleschermi e giornali senza commenti o quasi. Eppure è la prima volta da più dimezzo secolo, dalla seconda guerra mondiale delle kapò dei nazisti o di certe ausiliarie fasciste più crudeli, che si vedono immagini di donne intente alla violenza, alla sopraffazione, alla tortura degli inermi.

L'indifferenza che le ha accolte può nascere dalla convinzione che le donne non siano diverse dagli uomini, nella malvagità come in altri campi: la cronaca nera conferma da sempre di quali azioni efferate e sanguinose la criminalità femminile possa essere capace. Oppure l'indifferenza può nascere dalla certezza che chi fa un certo tipo di guerra rischi di incanaglirsi oltre ogni misura: del resto non s'è ritrovata presa nella propria stessa trappola quella amministrazione Bush così svelta e loquace nel dare agli altri lezioni di democrazia, di libertà, d'onore? Ancora, l'indifferenza può nascere da una ambigua forma di cavalleria ("sì, anche le donne hanno compiuto infamie e atti di sadismo disgustosi, ma facciamo finta di nulla"), unita alla persuasione che la tortura rappresenti un sottoprodotto inammissibile, condannabile ma abituale nelle situazioni di conflitto e di repressione. Infine, l'indifferenza può nascere dall'incredulità: ma non è possibile, ma non può essere vero, ma come credere che per delle ragazze americane stare nell'esercito, sparare, essere al fronte, possa voler dire anche commettere ignominie del genere? Saranno dei falsi, dei fotomontaggi, delle pose assunte a cose fatte...

Le ipotesi sono tante, come succede per ogni cosa riguardi l'Iraq (anche il fatto che interrogatori o trattamento dei detenuti vengano appaltati dall'esercito americano ad aziende civili "specializzate nell'ottenere informazioni", anche le testimonianze di altri atti degradanti e brutali sino all'uccisione). Ma le immagini di donne coinvolte in violenze bellico-militari commesse ai danni di detenuti si vedono per la prima volta: e bisognerà rifletterci.

di Lietta Tornabuoni