Convegno “La rivoluzione possibile. Cura/Lavoro: piacere e responsabilità del vivere”

Milano18 febbraio 2012

La flessibilità dei tempi a vantaggio di chi lavora
intervento di Maria Benvenuti

Buon giorno a tutte.

La mia conoscenza del tema della cura e del lavoro mi deriva innanzitutto dall’esperienza diretta (sono mamma di due gemelle di 10 anni) e lavoro come legale in una grande azienda editoriale, ma anche dal lavoro politico fatto insieme al Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne.

A questo proposito, ho contribuito, nel mio piccolo, a far uscire il discorso sulla cura dalla naftalina, secondo l’efficace espressione usata da Letizia Paolozzi, 6 anni fa quando ho convinto le altre del gruppo a far partire il lavoro di ascolto su lavoro e maternità, che ha portato alla scrittura del Doppio Sì.

Sono quindi molto felice per questo convegno e per tutte le pubblicazioni che ne costituiscono la bibliografia di riferimento, che indicano una ampia attenzione al tema della cura.

Se dovessi condensare in una frase la mia posizione sul tema cura e femminismo ricorrerei a quella espressa da Carol Gilligan nel 2010, così come citata da Brunella Casalini nel suo saggio “Etica della cura, dipendenza, disabilità”.

E cioè la seguente: “mentre in una cultura patriarcale la cura è espressione di un’etica femminile, che “riflette la dicotomia di genere e la gerarchia patriarcale”, in una società post-patriarcale, “basata sull’eguaglianza delle voci e il dibattito aperto, la cura è un’etica femminista: un’etica che conduce verso una democrazia liberata dal patriarcato e dai mail che sono ad esso associati, il razzismo, il sessismo, l’omofobia e tutte le altre forme di assenza di cura”.

Fatta questa dichiarazione preliminare vengo ai nodi problematici.

Il nodo fondamentale, per me, è sempre il Doppio Sì, pur nella versione evoluta che ho posto, con l’appoggio di tutte le altre promotrici dell’agorà, come titolo dell’invito dell’agorà del 30 gennaio e cioè:

il desiderio di lavorare e avere figli: perché resta una questione privata?”

L’urgenza di portare nella dimensione pubblica il confronto e lo scambio, a partire da sé, tra chi sperimenta sulla sua pelle cura e lavoro retribuito, la vedo soprattutto per due motivi:

  • ripensare l’organizzazione del lavoro;

  • ripensare tutta l’economia (vari filoni di un discorso che tutte abbiamo in mente: abuso delle risorse naturali, inutilità di un sacco di prodotti e quindi senso del proprio lavoro, peso spropositato della finanza, rottamazione del PIL, eccetera eccetera).

Io, invece, mi soffermerò sul primo punto, quello dell’organizzazione del lavoro.

All’agorà del 30 gennaio, è emersa chiaramente l’insensatezza di questa organizzazione del lavoro, perlomeno rispetto ai c.d. lavori della conoscenza.

Per come la vedo io, il cammino politico dovrebbe proseguire contemporaneamente su due versanti.

Il primo è quello di continuare nel lavoro di allargamento della consapevolezza. L’obiettivo è che ciascuna possa davvero avere accesso ai propri bisogni e desideri più profondi, sia rispetto alla propria identità professionale, sia rispetto a quella materna, in modo tale da capire quale è il mix di cura e di lavoro per il mercato che le restituisca la migliore integrità, la maggiore fedeltà a sè stessa. Mix che probabilmente varierà nel corso della sua vita. All’agorà del 30, Annalisa, una psicoterapeuta quasi quarantenne, ha detto: “Mi sembra che nella nostra società non ci siano i supporti che consentano il riconoscimento della maternità come istinto e come bisogno”.

Una volta compreso quale è questo mix, il lavoro su di sé, di presa di coscienza, ha bisogno di un ulteriore passaggio per arrivare a potersi dire: “un’altra organizzazione del lavoro è davvero possibile”.

Il secondo versante di cammino politico riguarda invece chi ha già chiaro quale è il mix che vorrebbe e già si autorizza a immaginare un’altra organizzazione del lavoro, ma non riesce a produrre i cambiamenti che la realizzino. In questo caso, si tratta di trasformare le forze delle singole in forza collettiva, come diceva Luisa Muraro all’ultima agorà.

Proviamo a fare qualche passo avanti su questo secondo versante.

Organizzazione del lavoro vuol dire tante cose, la principale, lo scoglio su cui si infrangono le politiche di conciliazione è quello che concerne l’orario di lavoro.

Sappiamo infatti che la flessibilizzazione dell’orario e/o la sua riduzione, anche minima, sono i fattori considerati essenziali per la riuscita del Doppio sì da chi ha dei bambini da tirare grandi.

Ma è altrettanto essenziale per le aziende mantenere il governo del tempo di lavoro.

Per questo motivo non sono d’accordo con quanto scrive Lea Meandri nel supplemento a Leggendaria, e questa di oggi è una buona occasione per confrontarsi, quando dice: “Quanto siamo disposte a lasciare che i bisogni, i disagi, le frustrazioni… che vuol dire part-time, flessibilità di luoghi, orari, ferie, asili aziendali, telelavoro, permessi per motivi famigliari, ecc., lasciando intendere, così a me sembra, che tutte queste modifiche siano solo piccoli aggiustamenti.

Secondo me, questi cambiamenti dell’orario di lavoro, soprattutto se riferiti ai c.d. lavori cognitivi, di responsabilità, hanno in sé un grande potenziale trasformativo dell’organizzazione del lavoro purchè siano accompagnati da una grande forza e/o da un contesto illuminato, tali per cui, nel passaggio a diverso orario, la professionalita della lavoratrice rimanga integra o, meglio ancora, nelle condizioni di svilupparsi.

E’ una questione di rapporti di forza e la singola (o il singolo) purtroppo è al momento totalmente sola nella contrattazione di un diverso orario; così come è isolata la lavoratrice, a cui hanno sì concesso il part time e/o un orario flessibile, ma a cui hanno poi svuotato di contenuto professionale le attività.

Arriviamo quindi al nodo dei nodi, e cioè: quali sono le alleanze possibili per modificare l’organizzazione del lavoro ?

Abbiamo oramai assodato che la flessibilità nell’interesse di chi lavora non si presta facilmente all’approccio di un governo collettivo, così come concepito tradizionalmente dal sindacato.

Va quindi percorsa una strada nuova, cercando di unire le forze di tutte e tutti coloro che vogliono modificare l’organizzazione del lavoro, in particolare mettere in atto azioni e contrattazioni innovative sul versante della flessibilità dei tempi a favore di chi lavora (quello che in Francia viene chiamato “temps choisi”).

In questo io credo che le madri (e i padri consapevoli) possano essere potenzialmente trainanti, la punta di diamante, come ha detto R. all’agorà del 30, per un cambiamento che dovrebbe coinvolgere tutte e tutti.

Per percorrere una strada nuova e trovare le alleanze possibili per modificare l’organizzazione del lavoro la domanda giusta è allora quella posta da M.: a chi interessa che venga modificata questa organizzazione del lavoro?

Per rispondere conviene forse rovesciarla: chi non vuole che venga modificata l’organizzazione del lavoro? Chi sono i resistenti al cambiamento?

Vedo due categorie di resistenti, accomunati dal fatto di non avere a cuore la cura (anche se non ho trovato conferme nei dizionari cartacei mi piace immaginare sia vera la poetica derivazione di cura dalla parola “cuore”, rintracciata in un dizionario etimologico on-line).

Una prima categoria di resistenti (alle modifiche dell’organizzazione del lavoro) è costituita da quelli che, prevalentemente maschi, non praticano attivamente la cura. Nel senso che, se pure hanno figli, o genitori bisognosi di un po’ di cure, cercano di delegarla -totalmente (o quasi)- e quindi sono capaci per sé e per gli altri di immaginare solo un modello di lavoro retribuito e familiare basato su una rigida e dicotomica suddivisione dei ruoli.

Ma c’è anche un altro significato di assenza di cura, che è proprio di una seconda categoria di resistenti ai cambiamenti dell’organizzazione del lavoro. Sono i fautori di un individualismo esasperato, che, come ha scritto Letizia Paolozzi, vuol dire assenza di cura. L’idea di organizzazione del lavoro che ne deriva è quella basata su una competizione feroce con i colleghi e le colleghe del proprio ufficio, tale per cui l’esserci in azienda, per difenderti da eventuali colpi bassi, conta moltissimo anche a prescindere dalle effettive necessità lavorative; un’organizzazione del lavoro dove le regole sono opache, i criteri di valutazione non controllabili; dove conta l’incondizionata fedeltà al capo e all’azienda.

Ovviamente, quelli che fanno parte della prima categoria possono anche far parte della seconda, con un evidente aumento della loro dannosità.

Spiego con un esempio il collegamento dei due significati di cura: dei part time dettati da esigenze di cura possono determinare una riorganizzazione del lavoro che porta l’instaurarsi di un modo di lavorare con spirito collaborativo e che fa star bene le persone, modo di lavorare che evidentemente contrasta con il modello “individualismo esasperato”.

Concludo cambiando l’esortazione di Mary Catherine Bateson, citata nel supplemento a Leggendaria sulla cura (settembre 2011). Bateson scrive che occorre modificare i rapporti famigliari perché la vita famigliare produce le metafore che utilizziamo per riflettere sulle relazioni etiche in senso ampio. Ecco, io credo che oggi, perlomeno al nord e in contesti di media-alta istruzione, il fronte di cambiamento più urgente sia quello delle relazioni e dell’organizzazione all’interno delle aziende, cercando di stabilire delle alleanze tra tutte e tutti coloro che desiderano più cura fuori e dentro i luoghi di lavoro.

 

1-03-2012 aggiornato 12-03-2012

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