I senza storia

di Lea Melandri


Meret Oppenheim

 

Il giornale, scriveva Baudelaire nel suo diario, è "un'ubriacatura" di fatti atroci che accompagna la colazione dell'uomo civilizzato e che come tutte le sbornie, si potrebbe aggiungere, passa quasi senza lasciare traccia. Sono passati da allora circa centocinquanta anni, il rituale dell'informazione non è cambiato, mentre è cresciuta a dismisura, insieme al numero degli orrori di cui si viene a conoscenza, la loro similarità.

Miseria, malattie, guerre, migrazioni forzate, fanno del Terzo Mondo il cataclisma naturale o la "piaga biblica" che incombe sull'Occidente, e non servono i richiami alle responsabilità storiche degli abitanti più fortunati del pianeta, perché niente è più paralizzante dell'ombra della colpa e del necessario risarcimento. Da anni il Mediterraneo è attraversato da flussi migratori provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa, spesso con esiti tragici. Gli scarni racconti dei sopravvissuti e dei soccorritori sono sempre gli stessi e spingono il pensiero verso un'unica raggelante immagine: i cadaveri che si depositano sul fondo marino e quelli che, mutilati, decomposti, affiorano alla vista o nelle reti dei pescatori. Dove intervengono variazioni capaci di risvegliare sentimenti meno distratti di umana compassione e civile turbamento, è perché i fatti si presentano particolarmente macabri, come nel caso della barca di somali recuperata a cinquanta miglia da Lampedusa il 19 ottobre 2003, con un ammasso di corpi, alcuni dei quali già morti e trasformati in coperte per i vivi, ridotti all'estremo delle forze.

La generalizzazione di un fenomeno agisce in modo analogo, che si tratti di princìpi o di esseri umani: sottrae il contesto che lo renderebbe riconoscibile a molti, per farne una spoglia, in tutto simile ad altre, di cui ci si può liberare facilmente. I poveri, quando sono per di più stranieri e migranti non autorizzati, perdono ogni legame di appartenenza a luoghi, culture, famiglie; diventano numeri, tratti somatici o un vuoto a perdere, quando, come capita spesso nella traversata del mare e del deserto, i corpi non si trovano ed entrano nel conto approssimativo delle vittime. Tra il popolo inabissato nel Mediterraneo e quello più ridotto che ha trovato posto nel cimitero di Lampedusa, passa come unica differenza una croce numerata, simbolo di integrazione in un paese che non si è nemmeno conosciuto. Per il resto, vale l'identità astratta che sulla "nuda vita" tracciano le carte burocratiche. Il visto, proposto per i migranti "regolari" dai governi europei, contenente i "dati biometrici" (iride, impronte digitali, dna) parla lo stesso linguaggio di quei "passaporti" per l'inumazione che sono contenuti nei verbali dell'ufficio civile: sesso, età presunta, carnagione, altezza, stato di conservazione del cadavere, una carta di riconoscimento riportata a quel limite estremo che è il sostrato biologico di ogni vivente.

A ridare volti e famigliarità di tratti a persone ridotte alla pura corporeità, non bastano evidentemente i racconti dei superstiti, e nemmeno le informazioni politiche e geografiche con cui i cronisti tentano di dare una cornice plausibile all'orrore. È stata sufficiente invece una foto, che riprendeva gli "effetti personali" trovati nella barca dei somali salvati il 19 ottobre, per lo più fotografie di famigliari, per dimostrare che la storia può aprirsi strade insospettabili proprio là dove si immaginava di custodire intimità e ricordi strettamente personali. Sono stati i volti, i gesti, gli abiti, gli sguardi di figli, mariti, madri, a ricostruire, alle spalle di tanti morti anonimi, una "normalità" in cui molti hanno potuto riconoscersi, e non tanto per il paesaggio occidentale che faceva da sfondo alla messa in posa, quanto per i sogni, gli affetti, le speranze che parlavano silenziosamente attraverso quelle immagini. Dai messaggi inviati alla trasmissione Fahrenheit, si è capito che sentimenti più adeguati di una frettolosa compassione, o dello sgomento, passano per processi di identificazione, scoperta di somiglianze, accostamenti impensati.

L'"estraneità" si incrina quando compaiono "vite vere", con un prima e un dopo, legami famigliari e sociali che non spariscono con la morte. Al posto di un presente immobile e fatale, ha cominciato a muoversi, intorno alle tragedie dei migranti, una vicenda "comune" alla famiglia umana, che ha interessato e che potrebbe interessare tutti i popoli.


Articolo pubblicato su Carnet - dicembre 2003