I separati

di Lea Melandri

Dai fatti di cronaca e dalle inchieste sulla famiglia emergono ormai con evidenza le linee essenziali di un paesaggio umano sottoposto, come la crosta terrestre, a eventi sismici che ne modificano di tanto in tanto la fisionomia.



Viene da pensare che, sotto l'effetto di un sotterraneo terremotamento, si stiano aprendo nel tessuto sociale alcune faglie e che, lungo quelle linee di demarcazione, sia oggi possibile accostarsi a pulsioni, desideri, conflitti ancora in parte sconosciuti e difficili da contenere. Non a caso è la provincia "benestante" a offrire, dietro le apparenze di ordine e vivibilità, la mappa più completa del dissesto. Al composto allinearsi delle siepi che separano solitarie villette, insieme ai loro nuclei famigliari, fanno riscontro fratture e circoscrizioni di ben altra gravità: "interni" vissuti come un rifugio rispetto a un mondo carico di minacce; adulti smarriti di fronte alle lingue divenute troppo rapidamente straniere dei loro figli; ricchezze "rispettabili" contro povertà temute e guardate con sospetto. Ma come tutti i confini, anche questi divisori sociali sembrano fatti per riportare alla luce legami nascosti. Le siepi sono un invito irresistibile a guardare oltre, nel recinto del vicino, le famiglie invocate come "cerchio caldo" e protetto mostrano ormai scopertamente il tarlo che le rosicchia dal di dentro, la cattiva opinione che i genitori hanno dei figli è costretta a convivere con dipendenze protratte sempre più a lungo, i televisori e i computer sempre accesi impediscono di ascoltare il rumore dell'onda montante pronta a travolgere affetti consolidati.
Nella lucida analisi di Ulrich Beck (U.Beck, I rischi della libertà, Il Mulino 2000), la sensibilità acuita per l'esistenza singola e, contemporaneamente, la consapevolezza di appartenere all'intera popolazione del pianeta, vengono messe in relazione con l'indebolimento della "vecchia socialità", fatta di legami duraturi e identità stabili, di classe, di ceto, di sesso, quei ruoli precostituiti che sono stati finora per l'individuo garanzia di "evidenza sociale". I "figli della libertà", chiamati a rispondere singolarmente delle loro vite, si vedono, nel medesimo tempo, spinti verso un anonimato e un'assenza di regole mai conosciuti prima. "È possibile -si chiede Beck- tessere liberamente legami?" Il dubbio è che questa fase di passaggio sia più incline alla riesumazione di posizioni narcisistiche originarie, o di legami arcaici divenuti oggi un impedimento, ma forti della sicurezza che dà il già noto. Qualcosa forse si è rotto definitivamente nelle forme tradizionali dell'appartenenza, ma parentele, ruoli sessuali e sociali, restano pur sempre i modi fin qui conosciuti della convivenza umana. La socialità ha sempre rappresentato la difficile arte di contenere desideri e pulsioni ritenute minacciose per l'incontro con l'altro. Di quel "residuo" di materia viva e recalcitrante, che ogni contratto sociale si è lasciato alle spalle, si sono conosciute trasgressioni, spesso violente, e trasposizioni immaginarie nella letteratura, nell'arte, che tuttavia non avevano mai perso il loro carattere di eccezionalità. Oggi si ha invece l'impressione di assistere a un capovolgimento: la socializzazione, cadute in discredito l'autorità della famiglia, della scuola, del lavoro, passa prevalentemente per vie mediali, cinema, televisione, pubblicità, e si avvale della comune posizione di spettatori a cui sono ricondotti gli individui dal racconto delle vite per immagini, dalla suggestione del suo alfabeto fantastico ed emotivo. L'"evidenza sociale", la possibilità di essere riconosciuti in qualche modo dai propri simili, non passa più attraverso aggregazioni comunitarie, ruoli, rapporti di potere, ma "democraticamente" e "anarchicamente" attraverso quel grumo di passioni che sta alle radici dell'umano, e che solo oggi sembra aver trovato il palcoscenico necessario per scoprirsi in tutta la sua virulenza e la sua ampiezza. Ma che conseguenze può avere una "comunità mediatica", un cerchio fatto non più di corpi e presenze reali, ma immagini, icone, che si muovono dentro una cornice costruita, finalizzata, che li fa apparire e scomparire, che attraverso di essi accende e spegne emozioni, che promette allo spettatore di farsi a sua volta protagonista, ma a patto di adattamenti e finzioni? Il repertorio immaginario che veicola, attraverso sofisticati mezzi tecnologici, passioni e simboli antichi ottiene innanzitutto un effetto di svelamento. Le "viscere" della storia sembrano prendersi la loro rivincita e riportare allo scoperto esperienze primarie di amore e odio, comunanza e rottura. Sfoltita drasticamente la folla dei volti che la civiltà ha sovrapposto alle sue origini, tornano in primo piano le figure dei due prototipi dell'umanità, l'uomo e la donna, la loro drammatica alterna vicenda di ricongiungimenti e saparazioni. Che il rapporto tra i sessi potesse costituire la cellula prima di tante altre successive divisioni -animalità e coscienza, forza e debolezza, grande e piccolo, amico e nemico, ecc.- è stata un'intuizione oscura, sempre presente nella memoria dei popoli. Ma a restituirgli il rilievo che sotterraneamente ha conservato nel tempo sono state paradossalmente due forze opposte, oggi dominanti: la fuoriuscita di materiale onirico e il salto che il femminismo ha fatto fare alla conoscenza di sé. Non c'è contraddizione perciò nel riconoscere che a minare la virilità, la sicurezza del dominio maschile sull'altro sesso, siano, contemporaneamente, la sovraesposizione mediatica di corpi femminili disinibiti e, al contrario, la distanza che le donne hanno cominciato a prendere da quel modello, dalla sua esaltazione immaginaria come dal suo asservimento. La separazione che il sesso maschile ha eretto a difesa di una identità propria, inconfondibile, è costretta oggi a mostrare il volto che ha tenuto a lungo coperto: il bisogno del bambino di tenere a bada la potenza materna per il timore di esserne schiacciato o di perderla, a rischio della propria sopravvivenza . Paura della vicinanza come della lontananza, della dipendenza dalle forti attrattive del femminile e del rischio di non riuscire a piegarle al proprio esclusivo interesse. Di questa "preistoria" delle relazioni umane parlano le stragi famigliari di Chieri (Torino) e di Reggio Emilia, e altri meno clamorosi uxoricidi: uomini incapaci di sopportare una separazione, un tradimento, la limitazione del proprio potere su moglie e figli, oppure, come nel caso del delitto di Leno, la ritorsione violenta contro la ragazza che ha rifiutato di placare voglie sessuali maschili incerte e insoddisfatte. Sul rovesciamento delle posizioni, la fragilità e la dipendenza dell'uomo contro la ritrovata potenza femminile, si è scritto e fantasticato molto in questi ultimi anni. Sembra invece essere passata senza rilievo la particolare modalità con cui, nei recenti fatti di cronaca, si è fatta strada questa scoperta. Gli "oggetti" minacciosi, fonte di intollerabile sofferenza -ex-mogli, parenti di lei, vicinato, ecc.- sono prima di tutto collocati sulla traiettoria di uno sguardo freddo, raziocinante, che li scruta, li interroga, senza perdere di vista se stesso e che, per un maggiore controllo del teatro d'azione, usa dei medium collaudati, lettere, diari, videocassette, messaggi su cellulari, come se il "racconto" delle passioni fosse divenuto l'ingrediente indispensabile di una perversa, stravolta "autocoscienza". È a partire da questo inquietante miscuglio di barbarie e di modernità che si possono ripensare separazioni necessarie a legami sociali più liberi: tra uomini e donne, adulti e bambini, singoli e collettività.


L'articolo è stato pubblicato dalla rivista Carnet nel dicembre 2002