La separazione femminile

Lia Cigarini

 



Quando alla fine del convegno di Milano sulla pratica della differenza sessuale, nel dicembre scorso, ho sentito dire da alcune che era ora di affrontare la questione della rappresentanza politica della differenza, ho avuto un attimo di vero sconforto.
Mi domandai da dove uscisse quella vecchia parola e dietro alla parola una potente istituzione che cancella o ingabbia in un sol colpo la ricerca di parole di donne svincolate dalle regole e dalle aspettative della società maschile (del padre), la nostra ricerca di linguaggi originali (delle origini).
D'altra parte, nessuna nei due giorni di convegno aveva messo in dubbio il fatto (e come avrebbe potuto?) che le donne sono un sesso e non un gruppo sociale omogeneo - mentre la rappresentanza politica presuppone bisogni e interessi comuni. L'incontro di Milano, tra l'altro, era stato un tentativo di confronto tra donne che parlano da collocazioni differenti, dichiaratamente differenti, con progetti individuali e collettivi diversi e talvolta in contrasto. Un contesto, quindi, che non permetteva d'ipotizzare una rappresentanza neppure delle donne che erano lì presenti. Non lo permetteva in alcun modo; per buona parte della discussione, infatti, alcune hanno chiesto insistentemente ad altre: da dove parli, dove ti collochi, quali sono le mediazioni logiche e politiche che ti permettono di stare in un partito, in un parlamento, e qui tra noi? E le altre: siamo qui, però una parte di me è sulla scena illuminata della grande politica dove si giocano anche i nostri destini. Oppure: sono qui, però una parte di me è con le dimenticate da tutti e da tutte, con le braccianti pugliesi... E che senso ha oggi la vostra politica di separatezza? A mettere fuori luogo ogni discorso di rappresentanza c'era anche il pensiero, sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza sessuale esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con quella di una legittimazione ottenuta da istituzioni neutre o maschili. Chi aveva proposto il tema della rappresentanza ha poi spiegato che era da intendersi come "autorizzazione delle donne alle donne" e come capacità di "rendere presente" la potenza della differenza sessuale. Pensava inoltre che, siccome la democrazia classica non tollera la differenza sessuale come soggetto da rappresentare, il rappresentarla provocherebbe grande trambusto e sconcerto. A parte l'autorizzazione delle donne alle donne - che non ha veramente nulla a che fare con la rappresentanza politica - ho forti dubbi che l'essere donna, che è qualcosa di assolutamente qualitativo, sia rappresentabile nei modi (numerici, quantitativi) della democrazia classica. E, soprattutto, dubito che la presenza di molte donne in parlamento sia un ingombro o provochi un qualche trambusto in quell'istituzione. Primo, perché, se affermi che è fondamentale essere in quell'istituzione per dare visibilità alla differenza, stai dicendo che dai molto valore a quel luogo, istituito da uomini di una classe sociale dopo che questa ebbe guadagnato un surplus di forza economica e di sapere. E mostri che non stai pensando che fra noi comincia ad affermarsi una fonte femminile di autorità sociale. Chi mi dice poi che le donne vogliano stare in tutte le istituzioni esistenti, parlamento, esercito, chiesa? Alcune sì, ma mentre quella che entra nell'esercito o nella chiesa, vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituzione della rappresentanza, e per giunta vi entra con l'idea di una possibile rappresentanza femminile, copre la volontà di quelle che se ne tengono fuori. Quanto all'"ingombro", non dimentichiamo che dove c'è "funzione", uomini e donne sono uguali e la differenza sessuale passa per un arcaismo inutile. L'occhio si abitua presto a vedere una donna al posto di un uomo quando lei assolve le funzioni previste da un ordine sociale pensato da uomini. La significazione della differenza sessuale non può andare senza trasgressione, senza sovversione dell'esistente. Non può essere ricalcata pari pari sull'ordine simbolico ricevuto... s'intende, se c'è lotta per la libertà fem-minile e non semplicemente per l'uguaglianza con gli uomini.
Penso, infine, che di per sé una maggiore presenza femminile in parlamento non crea disturbo perché le rappresentanti debbono accettare molte potenti mediazioni: quella con il partito che le fa eleggere, quella di una inevitabile adesione e legittimazione di quel potere maschile che lì si esprime, e tutte le mediazioni che domanda il fare leggi. Mediazioni e censure dei desideri femminili molto più drastiche dei famosi veli di cui 1'immaginario maschile aveva coperto il corpo femminile. In concreto, dunque quello che le elette potranno far valere sarà, al massimo, un diritto di veto sulle leggi per le donne. Oppure agiranno come una piccola lobby, sul modello della democrazia americana. Sia chiaro, non penso e non parlo contro quelle donne che in parlamento vanno, apertamente, per un proprio desiderio, con una competenza e un ambizione da far valere. La mia critica si rivolge all'idea di una possibile rappresentanza femminile e a quelle donne che la adottano nascondendo i propri desideri.

Ricordo che quando facevo politica mista e incontravo nelle riunioni gli operai, ero colpita dai loro corpi che significavano il lavoro e dalla precisione e concretezza con cui nei loro interventi descrivevano ed analizzavano la realtà della fabbrica. Ero convinta che, come toglievano la parola a me e mi facevano sentire vacua con il loro sapere e la materialità dei loro apporti, così avrebbero costituito una formidabile obiezione (un ingombro!) ai mediatori del consenso nei luoghi istituzionali. Non è stato e non è cosi: il sistema della rappresentanza li ha privati dei loro corpi sapienti rendendoli, in quei luoghi, muti o mediatori essi stessi rispetto alla cosa che rappresentavano. Sono convinta che non possiamo fare a meno di mediazioni, penso anzi che le mediazioni diano forza alla presenza femminile, ma solo se sono fedeli, corrispondenti. Così, se vi sono donne che vogliono entrare in Parlamento, come tante sono entrate nelle professioni e nel mercato del lavoro, che mettano in chiaro il desiderio che le muove, i loro progetti politici, che dicano anche su quale universalità intendono scommettere e quanto, come pensano di difendere la loro parzialità femminile. Questo io intendo per una possibile mediazione fedele di sé rispetto all'istituzione e alle donne. In questa maniera esse si legano alle altre donne, a me, non attraverso l'istituto della rappresentanza ma attraverso l'affermazione di un desiderio femminile. In questa maniera, anche, si salta la politica impotente dei due tempi (di riformistica memoria), prima il tempo per acquisire la dignità di persona, poi il tempo (che non arriverà mai...) per iscrivere la propria indecente differenza. Ci siamo lasciate al convegno di Milano con l'intenzione di continuare a discutere. Eravamo consapevoli che la questione della rappresentanza della differenza sessuale, posta al convegno per un'esigenza di compiutezza teorica, poteva diventare in pratica una tentazione per alcune di porsi quali mediatrici tra il movimento delle donne e la politica istituzionale.

Noi stesse, d'altra parte, abbiamo bisogno di ragionare più a fondo su come nella vita sociale voglia di vincere ed estraneità s'intreccino fra loro e su come porci rispetto al gioco che in noi si crea fra queste due parti di noi.

Rimane ancora tutta da fare l'analisi delle sovrapposizioni che si creano fra la lingua che la madre comunica (degli affetti) e l'altra lingua, quella sociale trasmessa dal padre. E riuscire a comunicare con semplicità che cosa intendiamo dire con silenzio del corpo, dal momento che di fatto le donne parlano e apparentemente senza differenza dal linguaggio maschile. E riuscire ad agire nel mondo quel tanto di sapere, cambiamento e voglia di vincere che i gruppi di donne hanno prodotto, senza che il nostro agire appaia come un riflesso femminile dell'agire maschile.
I fatti però sono andati più in fretta di quello che avevamo previsto. La crisi di governo e le elezioni anticipate hanno posto la questione della rappresentanza politica come concetto utile per ottenere, soprattutto da parte delle donne comuniste, più donne candidate nelle liste dei partiti e molte effettivamente elette. Ho letto con attenzione gli interventi delle donne al Comitato centrale comunista sulle elezioni, perché avevo preso sul serio l'indicazione contenuta nella Carta itinerante, dove si dice che le comuniste, a partire dalla loro differenza sessuale come dal loro desiderio di fare politica con gli uomini, si ripromettono di creare ingombro nella politica. Ma gli interventi non facevano che insistere sulla necessità di riequilibrare la presenza di donne e uomini in parlamento, con l'argomento che le donne devono essere degnamente rappresentate e che la presenza femminile è essenziale al buon funzionamento del parlamento e della democrazia. Quale ingombro sarebbe questo mai? Sembra di capire che le comuniste e altre intervenute al dibattito tenutosi recentemente al Centro per la riforma dello stato, oppure sui giornali sempre su questo tema, ritengano che una maggiore presenza femminile in parlamento modificherà di per sé le regole del gioco. Le donne, esse dicono, vi entrerebbero come portatrici di una cultura meno distruttiva (per via della maternità), non vi porterebbero l'idea della politica come strumento di potere e sarebbero dotate di un più vivo senso etico. Così, magicamente, vediamo dei pregiudizi favorevoli rimpiazzare i vecchi pregiudizi sfavorevoli. Si tace sul fatto che le donne che vanno ad occupare posti di potere finora non hanno potuto impedire che le regole del gioco siano quelle volute da uomini. Si tace sul fatto che la forza di significare la differenza femminile nasce da un progetto pensato e costruito tra donne mettendo in gioco le pretese e le ambizioni ma anche l'estraneità femminile, e tenendosi fuori dalle misure morali. Si sorvola sulla contraddizione estrema, per adesso ancora un'impossibilità, di rendere parlante la differenza femminile e fare insieme ricorso agli strumenti simbolici della politica maschile, come elezioni, partiti, parlamenti. Si censura il fatto che i gruppi che hanno iniziato a elaborare il senso della differenza femminile, sono, come noto, gruppi formati da sole donne. Gruppi separati, come si dice. La separazione - non il separatismo, che è ideologico - è anche una categoria del pensiero che ha incarnazione sociale e che crea processi autonomi e asimmetrici, per cui, ad esempio, tu sai che le donne non devono andare ovunque qualcuno le chiami, ne rispondere ogni volta che sono interpellate. Quelle che lo vogliono, lo dicano e lo facciano. In prima persona, per se stesse, senza il rivestimento di dire e fare per quelle altre che tacciono. Per concludere, io sarò una che voterà la donna ambiziosa o la donna che ha un suo progetto da portare avanti o la donna che ha una sua competenza e intelligenza da far valere. Non voterò la rappresentante.


da Sottosopra Blu, 1987

 

22 ottobre 2012

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