"Sfortuna"
Appunti per un corso
di
Donatella Bassanesi
Anneli Tiilikainen
A voler risalire, da Flennery O'Connor a Alice Murno, si trovano
due percorsi.
Diversamente conducono al cuore di quel luogo indifferenziato (né
città né campagna) del vivere collettivo, nello spazio-tempo
dell'oggi.
Sono luoghi in cui non sembra difficile vivere eppure si direbbero dominati
da una morte pervasiva o strisciante. Si collocano in una sorta di spazio
divorato. In definitiva in uno non-spazio e in un non-tempo. Dove la
trasformazione si configura come distruzione. La continuità come
non-trasformazione, 'malattia stazionaria'.
Un luogo divorante.
Si potrebbe dire che il racconto di F. O'Connor (La veduta del bosco),
con una sorta di rifacimento del mito fondativo più arcaico (il
sacrificio della vergine e poi la sua trasformazione in liberazione
della vergine), mostri come i luoghi del vivere collettivo siano privi
di fortuna (buona e cattiva), cioè di possibilità.
C'è
un drago.
Di metallo giallo, divoratore della natura - il bulldozer, rumoroso,
descritto come un mostro quasi animalesco "un enorme mostro giallo,
accucciato" (p. 98), che cancella le parole, "passò
di nuovo, sotto di loro, soffocando il resto di quello che il vecchio
voleva dire" (p.82) - ma non ha un cavaliere che lo affronta.
La vergine
Mary Fortune potrebbe essere la sfidante, il 'cavaliere' che affronta
il 'drago'.
Perché guarda "oltre il campo dove c'era solo una profusione
di erbacce rosa, gialle e viola oltre la pista rossa, la linea imbronciata
e nera dei pini, frangiato di verde alla sommità. Dietro c'era
un'altra linea, più lontana e sottile, di boschi grigio-azzurro,
e dietro ancora soltanto il cielo vuoto, dove sostavano un paio di nubi
consunte" (p. 88).
Perché "la sua figuretta (è) robusta", cammina
con "lunghi passi nel campo screziato di giallo" (p. 84).
Come il bulldozer veste di giallo, e ha il nome della 'città'
stessa (che si dice si chiamerà Fortune).
Ma lei viene uccisa, e non dal drago, ma per errore. Scompare con lei
(realmente né perdente né sacrificata) la Fortuna dal
futuro.
Il lago
compare da subito, e in fine.
È accompagnato dalla scavatrice.
All'inizio il lago è "rosso, che pareva di lamiera ondulata,
moriva a una quindicina di metri dal cantiere (
) chiuso da una
fascia nera di pini che, visti di fianco, avevano l'aria di camminare
sull'acqua". Di fianco: " la macchina che scavava la terra
e la gettava in un mucchio", "il pozzo rosso, quella gola
senza corpo che s'ingozzava d'argilla, e poi, con un rumore di nausea
copiosa e profonda e un lento conato meccanico, la risputava" (p.
75).
Alla fine "d'improvviso tutto il lago gli si aprì davanti,
e procedette maestoso verso i suoi piedi in piccole pieghe ondulate.
(
) Vide che gli alberi stenti si erano addensati in misteriose
file buie e marciavano sull'acqua, scomparendo in lontananza" (pp.
97-98). "il luogo (
) deserto (
) soltanto un enorme
mostro giallo (
) che s'ingozzava di cemento" (p. 98).
Così inizio e fine sono i due momenti tra cui il tempo scorre
come attimo, ed è il tempo divoratore della macchina-mostro.
Il nonno
di Mary Fortune (la bambina-fortuna, nella quale si rispecchia il
viso del vecchio che ha il suo stesso viso) è progenitore (per
essere posseduto dal mostro che divora la città, e da arcaicissimo
desiderio di morte dei suoi figli).
Si riconosce unicamente nella nipote Mary Fortune (che lo asseconda,
che gli si oppone), che è la sua possibilità. Uccidendola
involontariamente segna la fine di questa possibilità. E non
perché nessuno che gli assomiglia vivrà dopo di lui, ma
perché solo lei era in grado di contrastarlo. Quella che finisce
(viene uccisa) non è quindi tanto la somiglianza, quanto la differenza.
Allora davvero, la Fortuna greca (bendata e perciò dal cieco
vedere, buona e cattiva sorte, scompare in un livellamento che riempie
ogni spazio, toglie il 'respiro' dello sguardo) si pietrifica in una
immobilità senza sguardo, i suoi occhi diventano di Gorgona (trascinano
nei gorghi - in un certo senso sono il lago artificiale, nel quale sono
affondate ampie zone della campagna circostante" (p. 78), nelle
cui acque gli alberi sembrano camminare). Lo sguardo fisso e cieco di
Mary Fortune rispecchia l'immobilità del lago artificiale nel
quale camminano e affondano gli alberi stenti, mostra il delirio del
vecchio e la città che nasce morta.
Della
terribile fine il nonno aveva avuto visione.
Prima, sentendo l'ansito della 'città' futura. "Guardò
fuori la finestra la luna che splendeva al di là della strada,
e per un po' rimase ad ascoltare il frinire dei grilli e delle raganelle
e, sotto lo stridore, sentì l'ansito della futura città
di Fortune" (p. 90).
Aveva cominciato a guardare il bosco. "A quell'ora, il sole vi
intesseva i suoi raggi, e ogni esile tronco di pino spiccava in tutta
la sua nudità" (p. 89). "La terza volta che si alzò
a guardare i boschi erano le sei di sera, e i tronchi sparuti parevano
sospesi sopra uno stagno di luce rossa che sgorgava dal sole al tramonto,
quasi nascosti dietro i essi. Il vecchio rimase a fissarli, come se,
per un lungo istante, l'avessero strappato al fragore di tutto ciò
che conduceva al futuro, trattenendolo nel piano di uno scomodo mistero
(
) gli pareva che qualcuno si fosse ferito nel bosco, inzuppando
le piante di sangue (
). Il vecchio tornò a letto, chiuse
gli occhi e sullo sfondo delle palpebre abbassate sorsero gli infernali
tronchi rossi in uno sfondo nero" (p. p.89).
Infine dall'espressione di Mary Fortune (la vendita del prato è
avvenuta). "L'espressione di quel po' di faccia che riuscì
a scorgere era chiusa e greve di minaccia. Anche il cielo si era oscurato,
e c'era una brezza calda e torpida nell'aria, come quando minaccia un
uragano" (p. 93).
Dal
momento in cui muore Mary Fortune, ma non uccisa dal drago, invece
proprio dal nonno che così tanto le assomiglia, finisce anche
per la città che verrà la sua fortuna, la sua possibilità
di essere città viva, nascerà morta.
Il luogo
dove si compie il doppio sacrificio - di Mary Fortune e della città
che verrà (perché si farà distruggendo il bosco),
di Mary Fortune e del nonno - è uno spiazzo nel bosco. "era
un brutto spiazzo rosso e calvo, circondato da lunghi pini magri che
sembravano riuniti per far da testimoni alle cose che potevano accadere
in un posto simile. Dall'argilla spuntava qualche pietra" (p.95).
La voce del nonno era "troppo alta e risonante, aveva una vibrazione
che le cime dei pini parvero raccogliere e passarsi" (ibid.). A
questa nota troppo alta corrisponde un silenzio assoluto e definitivamente
ostile. "Due occhi incolori affondarono in due identici occhi incolori"
(p.97). Poi "gli occhi, stravolgendosi lentamente, avevano l'aria
di non prestargli più la minima attenzione" (ibid.), infine
"gli occhi erano tornati a posto, ed erano inchiodati in uno sguardo
ostile, che non vedeva" (ibid.).
"Il vecchio aveva l'impressione di venir trascinato nel bosco,
aveva l'impressione di correre a perdifiato verso il lago insieme ai
pini, stenti e disadorni. Intuiva che laggiù ci sarebbe stata
una piccola breccia, uno spiraglio minimo da cui fuggire, lasciandosi
i pini alle spalle. Intravedeva già, in lontananza, un'apertura
minuscola, dove il cielo bianco si rifletteva nell'acqua" (ibid.).
Anche
la vita descritta da A. Munro si colloca in un paese.
Non paese devastato, piuttosto assopito, percorso da un leggero fremito,
come una leggera febbre, in un certo senso maligna.
La campagna potrebbe essere scomparsa perché nessuno più
la guarda. I colori sono quasi assenti. Ancora sopravvive "il profumo
della nicotiana in fiore (che) lottava con l'odore di salsa rubra messa
a bollire in qualche cucina della via" (p.219).
Qui vivere si direbbe come in un'attesa di morte, in un tempo in cui
nulla può realmente avvenire. Si può avere ripetizione.
L'impossibilità di essere differente è corrispondere alle
necessità di un malato cronico, stazionario, è assistere,
legarsi a un capezzale, prendere i tempi della malattia, di un male
assorbente, assoluto.
La battuta
iniziale "Mi ammazzo (
). Se quel vestito non è
pronto, io mi ammazzo" (p. 219) si ripete circa a metà del
racconto, all'inizio della seconda parte (quando Robin cade in un inganno
che sembra malignità di un destino-senza-destino).
Uguale è l'incipit. Per un verso sembra una sottolineatura, come
si trattasse di due atti di un'opera di teatro (e il teatro domina per
tutto il tempo dello smarrimento e della ricerca della borsetta). Ma
la ripetizione dell'uguale mostra che la diversione in fondo è
ininfluente.
E il Destino (la svolta, il salto) non si compie - il vestito verde
(come di verde è dipinta la veranda della casa di Robin) che
la prima volta è pronto, la seconda volta rimane in tintoria
(ne prenderà le veci un vestito nuovo simile, ingannevole, ingannatore,
segnale, di un inganno).
Un paese
chiuso e immobile, del quale di Robin (la protagonista dal nome
in cui risuona Robin Hood il 'mitico' eroe infantile del bosco) la sorella
Joanne potrebbe rappresentare la metafora: "acerba di corpo: stretta
di torace, viso lungo e giallastro, capelli castani, dritti e sottili.
Non provava mai a fingere di essere altro che una sventurata, a metà
strada fra l'infanzia e la maturità. Bloccata, mutilata, in un
certo senso, da una violenta forma di asma cronica, fin da bambina.
(
) una che d'inverno non metteva il naso fuori di casa e di notte
non poteva essere lasciata sola", "incline a devastare a parole
la stupidità di gente ben più fortunata" (p 220).
In questa
situazione Robin, che ha "occhi grigio-verdi e sopracciglia
nere e una carnagione facile all'abbronzatura" (p. 222), dell'eroe
mitico dell'infanzia conserva poco: si prende cura degli altri (è
infermiera), e una volta all'anno, da cinque anni, va a teatro, da sola
(le sue colleghe non avrebbero "il coraggio di fare una cosa del
genere"), in città, a Stratford dove allestiscono spettacoli
di Shakespeare.
In quel viaggio in treno si trova per lei lo spiraglio, l'annuncio di
una fuga forse possibile: "Eppure quelle poche ore le procuravano
la certezza che l'esistenza cui faceva ritorno, precaria e insoddisfacente
come appariva, fosse provvisoria e dunque tollerabile. E che ci fosse
un chiarore dietro quella vita, dietro ogni cosa, simboleggiato dalla
luce del sole che filtrava attraverso i finestrini del treno. Dalla
luce e dalle ombre lunghe sui prati estivi: più o meno ciò
che, nella sua testa, restava della rappresentazione appena conclusa"
(p.221).
Lei,
per un momento, sembra toccata dal destino. È "sull'onda
della vanità, dello sciocco autocompiacimento" uscendo "trionfalmente
dal bagno" che dimentica "sul ripiano del lavabo" la
borsa, la piccola tracolla dalla catena d'argento "a disegni cachemire
poco utilizzata" che contiene il biglietto di ritorno, il rossetto,
il pettine e i soldi (p. 222).
Il destino interviene venendole incontro, si potrebbe dire, in forma
di cane: "un bestione marrone scuro, alto di zampe e dal muso ostinato
e insolente" (p. 224), il suo nome è, significativamente,
Giunone. Dietro il suo padrone di nome Daniel, uno straniero che proviene
dal Montenegro, gente famosa "perché urlano, strepitano
e si azzuffano" (229), che abita in "una stanza da scapolo,
arredata in base a un principio di deliberata essenzialità e
con un certo austero compiacimento" (p. 227).
Ma il
Destino, in un vivere (in una città) scolorito, si è indebolito
come destino. Perciò "Robin (che) non aveva mai avuto
un amante, e nemmeno un ragazzo", si domanda cosa succede: "Come
era potuto succedere, o meglio, non succedere?" (p.229)
Ciò che avviene è una promessa.
Ma immaginare un futuro diverso è realmente impossibile. Non
c'è promessa possibile.
Così il Destino (c'è un fratello gemello che interviene
come un doppio, ed è un doppio involontariamente negatore della
possibilità di amare, contro il quale Robin non si batte, accetta
che esista come una necessita assoluta di non-vita, di non-felicità)
mal interpretato si ritira in un fondo da cui riemerge solo alla fine,
in presenza della morte, che sola sembra possedere ancora autorità,
una certa forza di verità, essenzialmente conserva un legame
con la vita.
Flannery
O'Connor, La veduta del bosco, Tutti i racconti, Bompiani,
Milano, 1990
Alice Murno, Scherzi del destino, In fuga, Einaudi, Torino,
2004
1-04-05
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