Linguaggi letterari, saggistici, iconici,
ma anche legati alla musica e alle arti visive; al suono inteso come voce
che narra, che racconta, in un sovrapporsi e alternarsi di lingue, di
storie, di luoghi lontani e narrative personali, come nel saggio che
chiude il volume, Quadrifonia di voci migranti, di Sara Marinelli, al
quale si accompagnano quattro vere e proprie installazioni sonore, qui
trascritte e raccontate nel loro farsi, ma di fatto realizzate e fruibili
come parte del progetto di ricerca. Parola scritta che ripercorre sentieri
di altre scritture, di altre narrative, dunque, ma anche parola
trasformata in suono, ritratta e fissata nelle strade di Napoli, dove in
un contesto già storicamente ricco di incroci tra culture, vengono filmate
e ascoltate narrazioni di donne provenienti dalla Croazia, dall'Albania,
dalla Romania, da El Salvador, dalla Cina e dalla Somalia: racconti della
tradizione orale e storie personali di testimoni del multiculturalismo di
oggi; ma anche racconti in forma di disegno, di tessitura, di lessico
cinematografico e digitale; ossia in molti tra i tanti linguaggi dei quali
le donne, in ogni cultura ma soprattutto, ancora oggi, in quelle che
provengono dall'Africa, dall'India, dall'arcipelago caraibico, da tempo
immemore si servono per dare forma comunicativa al loro stare nel mondo. Come nella ricostruzione dei crimini
dell'apartheid nei due anni e mezzo in cui si è quotidianamente riunito il
Truth and Reconciliation Commitee - il Tribunale per la Verità e la
Riconciliazione voluto da Nelson Mandela all'indomani della sua uscita di
prigione e affidato al vescovo Desmond Tutu - del quale parla in questo
volume il saggio di Jane Wilkinson, prendendo spunto dalle raccolte
di testimonianze di autrici che in forma diversa, dalla poesia alla
saggistica, hanno fermato sulla carta la difficoltà del dire, del
trasformare in parola un dolore che - proprio perché costretto ad essere ri-raccontato - ogni volta viene rivissuto di nuovo, fino a non riuscire
più a esprimersi, autocondannandosi al silenzio; perché «ci sono storie
che non vogliono essere narrate./Se ne vanno, portandosi valige/tenute
insieme da uno spago grigio./Guarda le loro schiene ricurve che
scompaiono/.../storie che rifiutano di essere danzate o mimate», come
scrive la poetessa afrikaner
Ingrid De Kok. O i corpi femminili discinti e velati,
sormontati da volti congelati in un silenzio senza fine, delle Donne
d'Algeri nei loro appartamenti, di Delacroix, poi ripresi e
animati dai racconti dall'omonimo titolo della algerina
Assia Djebar
negli anni Ottanta, come ricorda in apertura di volume Lidia Curti in
Corpi prigionieri, anime in movimento. Figure di nomadi, viaggiatrici,
esuli, espatriate o emigranti, divise tra lingue diverse e culture
contrastanti, prigioniere e libere al tempo stesso: il volume le segue,
queste figure di tempi e luoghi lontani, nelle strade della Londra
multiculturale di oggi, raccontata dalla giovane anglo-caraibica Zadie
Smith nel romanzo Denti bianchi, caso letterario in Inghilterra
nel 2000 e molto letto anche in Italia, del quale scrive Rossella
Ciocca; o nel vibrare del ritmo dei versi di Derek Walcott,
caraibico, poeta e premio Nobel per la letteratura, che alla poesia viene
iniziato, bambino, da due donne, tra cui sua madre, che gli recita versi
della tradizione poetica inglese e americana: ritmi che lui stesso «creolizzerà»
più avanti intrecciandoli al ricordo del patois e alla terza rima
dantesca, come scrive Marie-Hélène Laforest, caraibica lei stessa. Ma nel mare del multiculturalismo si rintracciano storie a noi più vicine e non sempre poetiche, come il riferimento a Shahrazàd, nel titolo, farebbe pensare, come la Storia di Anta, senegalese di Caserta, di Anna De Meo e Rosanna Canzano. Storia emblematica di vicende assai più frequenti di quanto immaginiamo, in una realtà sociale che va sempre più popolandosi di soggetti plurilingui, e che anche quando riconosce e accetta le differenze culturali, non sempre riesce a valorizzarle o integrarle. Così il saggio - frutto di molte ore di
ricerca sul campo, racconta la storia di Anta, bambina di sette anni, nata
a Caserta da genitori immigrati senegalesi, portatrice di un
plurilinguismo in virtù del quale i suoi mondi - quello della famiglia e
degli affetti, da un lato, e quello della socializzazione e della scuola
dall'altro - parlano idiomi diversi, che la bambina non riesce a
conciliare, tra i quali non è in grado di operare i passaggi che
l'interazione con la comunità scolastica le richiede per essere
all'altezza degli altri bambini. Così ben presto Anta viene definita come
una «portatrice di handicap psico-cognitivo» dalla scuola, che le affianca
un insegnante di sostegno che si sforza appunto di «sostenere», nel senso
di «normalizzare», le competenze linguistiche e cognitive della bambina,
senza vedere la situazione culturale generale della piccola, il rapporto
con la famiglia e quello del nucleo familiare con il tessuto sociale in
cui vive. Un contributo importante, che traducendo in esempi di vita reale
l'esperienza multiculturale, ci indica in quale grande misura la parola
parlata, il racconto, possa oggi più che mai rappresentare un ponte tra
culture diverse ma fra loro vicine.
La nuova Shahrazad.
Donne e multiculturalismo questo articolo è apparso su il manifesto del 27 marzo 2005 |