Da Repubblica del 2 Febbraio 2005

Noi donne e i silenzi sull' aborto


Simonetta Fiori intervista Anna Bravo


Artemisia Gentileschi


Fin dal titolo, la materia s' annuncia bruciante: Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci. Il saggio, scritto dalla storica torinese Anna Bravo, colpisce per il tentativo impervio di ripensare un' esperienza largamente condivisa tra gli anni Sessanta e Settanta: il movimento femminista con le battaglie per la legalizzazione dell' aborto, ed anche una pratica politica totalizzante, non immune dal virus della violenza.

Terreno minato, attraversato dalla studiosa senza pentimenti o abiure postume. Perché Anna Bravo - storica molto apprezzata per i suoi studi sulla Resistenza, a lungo professoressa di Storia sociale alla facoltà di Magistero a Torino - non rinnega niente del suo passato, allora militante in Lotta Continua. Né oggi appartiene alla nutrita schiera di ex sessantottini traslocati con zelo nella nuova destra.

Solo che da tempo avvertiva il bisogno di rompere il velo di reticenze gettato su quella stagione, «una resistenza quasi fisica a rovistare negli angoli oscuri del passato». «Per ragioni di studio», racconta, «mi sono imbattuta più volte nelle narrazioni scritte ed orali di donne della Resistenza, avvertendo come un limite le omissioni sulla pratica della violenza partigiana. Me ne lamentavo, insoddisfatta. Fin quando ho capito che facevo lo stesso con la mia storia». Incoraggiata dalla redazione di Genesis, la rivista della Società delle Storiche, ha deciso di fare i conti con i suoi «peccati d' omissione» in un saggio che incrocia il rigore del metodo storiografico con l' emotività d' una studiosa che parla di sé e del suo vissuto (l' intervento figura nel nuovo numero di Genesis dedicato agli anni Settanta, in libreria da venerdì nelle edizioni Viella). Un tentativo di storicizzazione reso più complicato dall' inevitabile autobiografismo. Ed esposto al rischio di strumentalizzazione, in una fase in cui da più parti si rimette in discussione la legge sull' aborto. «Giù le mani dalla legge», chiarisce opportunamente lei. «Non è certo questo l' obiettivo del mio intervento. In Italia gli attacchi contro l' aborto hanno toni non meno odiosi di trent' anni fa. Ma la paura di essere fraintesa non mi deve trattenere dal dire a voce alta molte cose che in questi anni ho elaborato in silenzio. E con me molte altre donne». Di quali reticenze si sono rese colpevoli le femministe?

Secondo Anna Bravo, tra le ragioni che hanno prodotto un vuoto storiografico sui femminismi negli anni Settanta è il rapporto irrisolto con la violenza, «quella di cui portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata». Non solo negli scontri di piazza o nei picchettaggi, ma anche «nell' immaturità» - così la definisce - con cui allora le donne si misuravano con la questione dell' aborto. «Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna ed anche il feto. E che non sempre la donna era una vittima: poteva sceglierlo per rifiuto della maternità, perché non si sentiva pronta, per ostilità alla propria madre, perché c'erano altre priorità. Eravamo giovani, nel pieno della lotta per la depenalizzazione esplosa in tutto il mondo occidentale. Vivevamo di corsa, totalmente assorbite
dalla politica. "Per i figli c' è tempo", si pensava. Lo trovavamo naturale».

Non bisogna però dimenticare la terribile piaga dell' aborto clandestino che con quelle lotte si voleva sanare. «Sicuramente. Le donne allora morivano nella solitudine, nella sofferenza, nell' infelicità. E potevano essere anche denunciate». Dunque sacrosanta la battaglia, ma «ci sono molte cose di cui allora si parlava poco o quasi niente. Che il feto fosse materia vivente, non implicava considerarlo una vita. Tuttavia non abbiamo mai discusso sul passaggio dall' una all' altra condizione. Né nei nostri documenti c'è mai traccia della sofferenza del feto prodotta dall' interruzione della gravidanza. Gli farà male? E quando? Dopo la ventiquattresima settimana? C' è modo di porvi rimedio? Ecco: non eravamo sfiorate da timori o inquietudini». è vero, aggiunge, l' ottusità era anche necessaria per difendersi dalle immagini da Grand Guignol degli antiabortisti.

«Sono lontanissima dal pensare che avremmo dovuto sbattere la sofferenza del feto sulla nostra stessa faccia, torturatrici oltre che assassine. Riconosco che il discorso allora sarebbe stato sconvolgente, impensabile. Resta il fatto che la domanda non ce lasiamo mai fatta. E riflettendo sul non detto di allora, forse possiamo parlarne oggi». Già Anna Rossi-Doria, una decina d' anni fa, rilevava che la politicizzazione della campagna sull' aborto aveva avuto l' effetto di ridurlo a una sorta di «diritto civile, a un obiettivo di progresso contro la reazione che lo combatteva», annullando o rimuovendo le grandi questioni che stavano sullo sfondo. Un principio di riflessione (di cui dà conto il libro di Guido Crainz Il paese mancato) che ora Anna Bravo conduce ancora più avanti. Secondo la studiosa torinese, in questa liquidazione dei grandi temi agiva anche l' incapacità di misurarsi con la morte. «La scheggia di generazione che eravamo - parlo soprattutto di donne e uomini della sinistra extraparlamentare - la considerava un evento iscritto nella lotta politica. I morti si piangevano, ma piangerli significava vendicarli. Scandire Per i compagni morti non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto significava alleggerire la sofferenza grazie a una potente simbologia».

Poi sono arrivati "i terribili funerali" sul finire degli anni Settanta, «con canzoni, poesie, fiori, letture, in qualche caso con la riscoperta del banchetto al rientro dal cimitero». La morte in ogni caso negata, rimossa, rifiutata. Questa "immaturità", queste rimozioni si iscrivevano - secondo Anna Bravo - in un clima profondamente violento. La violenza intesa come cifra naturale della lotta politica. E non solo perché immessi in una tradizione rivoluzionaria, marxista e comunista, o perché suggestionati dall' anziano partigiano che dichiarava di aver consegnato dopo la Liberazione soltanto i ferrivecchi. «I maestri ce li siamo scelti noi. E ci piacevano violenti. Ci riconoscevamo profondamente nell' ideologia della violenza rifondatrice: un mito che passava attraverso le figure del combattente in Spagna, del comunardo, del ribelle risorgimentale, del cittadino in armi della rivoluzione francese, del resistente italiano, del guerrigliero in America Latina».

Basta con la tesi di uno stato di grazia originario, bruscamente interrotto dalla strage di Piazza Fontana. Per molti interpreti di quella stagione, la tragedia milanese rappresentò la perdita dell' innocenza, il disvelamento d' uno Stato feroce e connivente con l' estrema destra. Ma per la Bravo questa tesi è una verità parziale. Nel solco già tracciato da Adriano Sofri, ritiene che anche prima del 12 dicembre 1969 «ci riempivamo la bocca di discorsi bellicosi». E che al dolore prodotto da una cattiva politica fondata sul linciaggio morale le donne non si sono mai opposte.«Prendendo posizione apertamente, avremmo contribuito a spegnere l' enfasi guerriera di alcuni. Ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio e lucidità.Non bastava dire, come in molte abbiamo fatto: quella cosa lì io non la faccio. Permettevamo che altri le facessero. Purtroppo non è opera nostra il più bel detournement che io ricordi, quando in calce alla scritta murale Coi fascisti non si parla, si spara, qualcuno ha aggiunto: "Firmato: Buffalo Bill"».

Riflessione dolorosa e di straordinaria attualità, in un momento in cui si riparla di tragiche vicende di trent' anni fa, come l' omicidio dei due fratelli di Primavalle, figli di un segretario di sezione dell' Msi. Anche sul terrorismo di sinistra Anna Bravo ha parole molto dure. «Nelle testimonianze dei protagonisti è debolissima la consapevolezza del dolore irreparabile procurato all' epoca. Su questo prevale l' enfasi sulla dimensione soggettiva, sulla nuova persona che ormai si è, sul contesto di allora e sugli errori dell' analisi politica. Le vittime stanno fuori o sullo sfondo».Se le domandi perché oggi abbia sentito il bisogno di scrivere cose lungamente meditate, ti risponde: «Sono tanti i ragazzi di oggi che vogliono sapere del Sessantotto. Era bellissimo, mi viene da dire. Ma non era tutto oro.
Era anche dolore e violenza. Ed è bene oggi fare i conti anche con i lati più oscuri».