“Altri femminismi”, pensieri e pratiche alla prova del presente

di Anna Simone

Al centro di questo volume vi sono i sistemi di pensiero e le pratiche politiche che il femminismo ha assunto con l’irruzione di nuovi soggetti, nell’incontro con altri movimenti e categorie di analisi e di fronte alle emergenze del mondo contemporaneo, dalle trasformazioni del lavoro, all’immigrazione, al fondamentalismo islamico. Il rapporto tra il femminismo e il lesbismo e l’emergere del soggetto trans, il confronto con l’industria del sesso, l’impatto con l’Islam e la riflessione critica sul multiculturalismo nel mondo post-coloniale, l’incidenza delle donne nei grandi flussi migratori.

Francia, 1838: Herculine Barbin si suicida. Nasce ermafrodito ma viene dichiarata femmina all’anagrafe. Conduce un’infanzia da bambina “sgraziata” rinchiusa in un istituto religioso femminile. Dopo vari accertamenti medici e giudiziari la società del suo tempo la riconosce come maschio e la obbliga a cambiare sesso legale e stato civile. Ma lei/lui non regge gli obblighi della norma eterosessuale, si sente soffocare da questa ingerenza continua sul suo corpo e si uccide. Michel Foucault ne curerà i bellissimi diari nel 1978 in Francia. Spostiamoci dall’altra parte del mondo.

India, 1926: Bhubanesvari Bhadouri si impicca nella casa del padre. Ma lo fa durante le sue mestruazioni per evitare che le codificazioni “tradizionali” della sua società potessero imputarle una gravidanza avuta da una relazione extra-coniugale e quindi illegittima. In realtà lei si uccide perché era un’attivista clandestina del movimento indipendentista indiano a cui era stato chiesto di compiere un assassinio politico che lei, emotivamente, non era in grado di sostenere. Entrambi i suicidi, ripresi poi da Judith Butler e da Gayatri Spivak, non possono essere letti secondo la matrice “sacrificale” delle religioni monoteiste. Herculine, infatti, compie un “atto corporeo sovversivo” (Butler) perché lei era anche un lui che decide di non farsi banalmente tradurre in una lei assoluta o in un lui assoluto dalla norma eterosessuale. Bhubanesvari sa di essere subalterna al suo leader politico, subalterna ai dispositivi “tradizionali” della società indiana, subalterna al potere del padre. Lei non può parlare se non attraverso un gesto corporeo ultimo e finale che decide di compiere, appunto, durante le mestruazioni per lasciare almeno un segno sovversivo nel mare magnum della cecità interpretativa del suo mondo che l’avrebbe voluta solo “vittima” di un amore illegittimo.

Questo intreccio tra fatti e parole, tra realtà e produzione teorica ci fornisce il quadro chiaro di una nuova posta in gioco politica dei femminismi contemporanei. Herculine, Bhubanesvari, Spivak e Butler sono qui a ribadirci che l’eccedenza, la trama intensa e appassionata che travolge i corpi, non può mai tradursi in un unicum interpretativo. Anzi, ci dicono con chiarezza inequivocabile che i conti non possono tornare quando a decidere cosa sono e cosa devono dire e fare i singoli corpi è sempre e solo l’ordine del discorso dei poteri codificati e consolidati. Compresi quelli ideologici più all’avanguardia.

Ed è dentro questo intreccio di fatti e parole sovversive, dentro questo contesto filosofico-pratico contemporaneo che ha tradotto l’impossibilità della presa di parola diretta in una differenza possibile (sia pur ancora problematica) che “prende corpo” il volume collettaneo, appena edito dalla manifestolibri, Altri femminismi. Un prendere corpo che rovescia qualsiasi “passione triste” della reductio ad unum dell’analisi politica, delle esperienze militanti dei movimenti lesbo-queer, transessuali, femministi, migranti, sex-worker, delle pratiche di contro-condotta, ma anche del rapporto sempre più visibile che intercorre tra femminilizzazione del lavoro, precarietà strutturale e sfruttamento del corpo femminile attraverso la reificazione del “lavoro di cura” inteso come nuovo mezzo di regolazione sociale ed economica. Il libro ha più matrici di lettura proprio perché raccoglie autrici e temi che si intersecano e, al contempo, si differenziano pur mantenendo salda l’esperienza felice di un confronto intergenerazionale franco e all’altezza dei grandi temi del presente: dalla biopolitica al lavoro, dalle soggettività che cambiano segno oltrepassando le codificazioni del sesso e dei generi alla de-vittimizzazione non acritica del lavoro sessuale, dal postfordismo alle reti di donne migranti, dal femminismo islamico alla lettura critica e problematica dell’infibulazione.

Il volume genera tre piste di lettura ricomposte e tramate nella bella introduzione scritta dalle curatrici. La prima si misura esplicitamente con le nuances del cosiddetto terzo femminismo occidentale, del lesbismo prima e del lesbo-queer poi che ha creato non poche resistenze da parte del cosiddetto “femminismo storico” - come se il genere potesse essere letto sempre e solo all’interno della matrice eterosessuale e riproduttiva - (Liana Borghi); nonché la tematizzazione dei femminismi islamici e post-coloniali tesi a tradurre la parola negata delle “subalterne” in presa di parola possibile e contestualizzata, posizionata e situata all’interno di un contesto differente ma non per questo facilmente “colonizzabile” dai valori universalistici e illuministi a cui facciamo spesso riferimento (Ruba Salih).

Una seconda pista di lettura si misura direttamente con il rapporto che intercorre tra l’indefinibilità di genere dei/delle transessuali e i dispositivi di sicurezza che operano secondo i criteri della norma eterosessuale. Belle e tragiche allo stesso tempo le pagine di Porpora Marcasciano su l’applicazione dell’art. 1 che rendeva e rende ancora “delinquenti abituali” i trans, soprattutto i maschi che si travestono da donne. La terza, invece, tiene assieme il postfordismo, il capitalismo cognitivo, la femminilizzazione del lavoro e la precarietà (Adriana Nannicini) con il lavoro dei/delle cosiddette sex-worker.

Il saggio di Beatrice Busi evidenzia il nesso che intercorre tra lavoro sessuale, lavoro domestico (così come tematizzato dal gruppo delle femministe padovane negli anni ’70), lavoro di riproduzione e femminilizzazione globalizzata del lavoro. Questi mutamenti epocali portano Busi a sostenere la tesi del “patriarcato diffuso” (altro che fabbrica diffusa) che spostandosi dal privato al pubblico obbliga i nostri corpi a non essere poi tanto diversi dai corpi delle prostitute. Sempre disponibili, sempre efficienti, sempre sensuali, sempre accoglienti, sempre comprensive. Non è “sempre” questo che viene chiesto a chi deve fare la cameriera per pagarsi le tasse universitarie? Non è “sempre” questo che viene chiesto a chi muore dietro un telefono dei call center? E non è, infine, sempre questo che viene richiesto tra le pareti domestiche? Un contesto che ci chiede di diventare ciniche, di agire per rimozione e sostituzione come se i corpi fossero spersonalizzati, interscambiabili e seriali. Un contesto in cui non c’è più tempo per amare, giocare, ridere, parlare.

Il problema del chi parla è ancora un nodo per nulla sciolto in tutti gli ambiti della sfera pubblica. Sciogliamolo accogliendo due proposte che ci vengono da questo libro: le soggettività si danno solo a partire dall’irriducibilità delle loro singole esperienze; è impensabile e riduttivo scindere le pratiche di libertà e le pratiche di contro-condotta dalle analisi sul lavoro vivo e sul capitalismo cognitivo. Un esercizio che né i libertari, né i marxisti hanno mai voluto praticare congiuntamente ma che risulta, ora più che mai, urgente.


 

Società Italiana delle Storiche 
a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio,
Altri femminismi
autrici:
Teresa Bertilotti, Liana Borghi, Beatrice Busi, Francesca Decimo,
Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio, Elena Laurenzi,
Porpora Marcasciano, Adriana Nannicini, Ruba Salih

manifestolibri, 2006
pp. 159, euro 15

 

questo articolo è apparso su il manifesto del 27 ottobre 2006