Lo stupro di Palermo. Il momento del silenzio Società italiana delle Storiche
Il 16 novembre 2024, all’indomani della sentenza di condanna in primo grado dei ragazzi imputati dello stupro di gruppo contro Asia a Palermo (“lo stupro del Foro Italico”), vicenda che ha conosciuto una importante eco mediatica a livello nazionale, lo studioso di diritto penale Giovanni Fiandaca, professore emerito all’Università di Palermo, ha pubblicato un suo commento alla sentenza nelle pagine locali del quotidiano «la Repubblica». Fiandaca è considerato uno dei più autorevoli giuristi italiani (uno «studioso di diritto penale di lungo corso» non manca di presentarsi nello scritto) e per questo le sue parole hanno un peso non comune e sono dunque difficili da ignorare. Anche noi siamo studiose di lungo corso, storiche, che hanno esplorato la dimensione giuridica, culturale, sociale, politica della violenza con decine di pubblicazioni scientifiche. Abbiamo gli strumenti per commentare, a nostra volta, un testo che ci fa reagire ma non ci stupisce, che sappiamo ben collocare in una lunga storia che ha visto proprio negli uomini di diritto una delle fonti più pervicaci di legittimazione della violenza maschile contro le donne. Almeno due i piani sui quali vogliamo esprimerci. In primo luogo, la cornice retorica del commento: l’autore ci presenta il suo testo che fin dal titolo attribuitogli dalla redazione (Stupro del Foro Italico, io dico che la pena inflitta ai colpevoli non è rieducativa) si coglie come mosso da un intento garantista: «evitare che i giovani nel ruolo di colpevoli subiscano una pena troppo rigorosa», «sproporzionata per eccesso», tanto più in una vicenda per la quale la sua esperienza lo induce «a non avere certezze» e a parlare di «verosimile esistenza di dubbi». Instillare dubbi circa lo svolgimento dei fatti, le dichiarazioni e le intenzioni delle donne che denunciano violenze è una delle strade più battute storicamente nei processi per stupro (ma anche per violenza domestica) per minimizzare le responsabilità degli autori, assolverne le condotte, dissuadere le donne dalla denuncia. Dispositivo oggi ampiamente riconosciuto e al quale si è dato anche un nome – quello di “vittimizzazione secondaria”, apertamente affrontato nella Convenzione di Istanbul del 2011. Pratica ancora largamente in voga in Italia, come testimoniano le cinque condanne somministrate al Paese per queste condotte processuali dalla Corte europea dei diritti di Strasburgo nel solo quinquennio 2017-2022. Qualcosa, tuttavia, vorremmo dire anche sulla insinuazione – ripetuta più volte nel testo – che questo sia un caso nel quale la difesa della vittima sia avvenuta a discapito degli imputati, dei quali è stata inficiata la possibilità di «vedere riconosciuta la loro innocenza o di non subire pene sproporzionate rispetto al grado della loro colpevolezza». Non crediamo che l’inasprimento delle pene, il carcere, la moltiplicazione dei reati sia la strada maestra per il contrasto alla violenza, che semmai necessita di interventi strutturali sul piano culturale, educativo, economico e sociale che ridisegnino posizioni di uomini e donne in famiglia, nel lavoro, nella società. Diversamente, però, Fiandaca non ha scelto il silenzio di fronte a una condanna per stupro di gruppo, ma ha contato gli anni di pena inflitti e suggerito che sarebbe stato opportuno prendere in considerazione alcune attenuanti (a beneficio del secondo grado?), con un ragionamento ascoltato all’interno e in prossimità delle aule di tribunale già troppe volte.
Soprattutto, però, è a riguardo della lettura classista relativa all’equivoco in cui sarebbero caduti i giovani stupratori che saremo meno rassicuranti.
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