I soldati

di Lea Melandri

 

Per un singolare paradosso, più la guerra si fa "totale", forza devastatrice di tutte le risorse umane e naturali di un Paese, più gli "attori", a cui resta pur sempre demandato il compito di "farla", diventano "speciali". Mai come in questi mesi, parlando dell'invasione anglo-americana dell'Iraq, si sono sentiti nominare così poco gli eserciti e così insistentemente invece i corpi d'armata "scelti", descritti con minuzia di particolari quanto a simboli, competenze ed equipaggiamento.

 




Eva Marisaldi


 



I soldati restano i protagonisti del conflitto armato, ma nella divaricazione crescente tra strategie belliche di alta tecnologia e azioni terroristiche la loro fisionomia cambia, sia che si allenti, come nel mondo occidentale, il legame con la popolazione civile, sia che finiscano per incarnare, per i musulmani presenti dovunque nel pianeta, una "nazione" inesistente. Nell'Occidente "democratico", attento alle modificazioni della coscienza individuale, sparisce la coscrizione obbligatoria e con essa anche l'idea che il servizio militare "rende uomini". Con il passaggio alla scelta volontaria, si decantano progressivamente anche la ragioni dell'arruolamento: meno "patriottiche", più occupazionali. Decisivo, in questo senso, è l'uso di tecnologie belliche sempre più raffinate, che fanno del soldato un "tecnico" e del campo di battaglia un laboratorio telematico. Quanto più aumenta la sua carica distruttiva, tanto più la guerra si astrae dai corpi e da quell'impulso aggressivo primordiale a cui si può pensare che debba la sua durata nel tempo. La "maschia energia" del combattente si eclissa dentro le pesanti protesi meccaniche di cui è fatto il suo equipaggiamento. Ma, per quanto "ingenieristica" sia diventata, la "virilità" guerriera dell'Occidente non ha perso l'abitudine millenaria a porre se stessa come norma, contrassegnando in negativo, come barbarie, gioco sporco, inganno, tutto ciò che se discosta. Diversità di scelte politiche, di opinioni, di strategie militari, sono state forzatamente ricondotte al binomio "Marte e Venere", coraggio virile ed effeminatezza: la "schietta energia" degli Usa contro la "decadente" Europa e il suo irresponsabile, infantile pacifismo; l'armata anglo-americana in tutta la sua distesa potenza di cielo, mare e terra, contro la guerriglia dei fedelissimi di Saddam, sotterranea, imprevedibile, mimetizzata col tessuto sociale. Alla dissimetria fra le forze avverse sono stati dati volti storici già noti: umano-disumano, civiltà-barbarie, imperialismo, colonialismo, razzismo. Evidente, ma difficile da nominare, il conflitto più antico della specie umana, quello che ha visto un sesso innalzare la sua centralità sul corpo sacrificato dell'altro. Ma la "ripresa" di polarità sempre più scoperte nella loro violenta astrattezza, sembra aver aperto faglie, sconfinamenti, nessi sorprendenti e rivelatori. La "morte tecnologica", somministrata a dosi massicce da una specie di apocalisse celeste, ha fatto risaltare per contrasto l'eroismo patriottico di soldati scalzi e affamati, lasciando intravedere un "orgoglio resistenziale" in una popolazione che si immaginava irretita da una lunga dittatura. Effetti di capovolgimento, ma anche di assimilazione, come nel caso dei soldati fatti prigionieri. Vinta e disarmata, esposta nella debolezza delle sue carni e della sua paura, nel riaffiorare impudico di volti famigliari lontani, la virilità guerriera, di qualunque appartenenza, ha mostrato il suo "tallone di Achille": l'umiliazione, la "perturbante" vertigine di quel lato "femminile", inerme, bambino, da cui nessuna armatura ha mai protetto abbastanza. Se è vero, come attestano i frequenti sondaggi, che si stanno diffondendo nel sesso maschile paure, depressioni, spinte autodistruttive, sarebbe il caso di chiedersi quanto questa esplosione violenta della volontà di dominio, sempre più isolata da coperture ideali, abbia a che fare, non solo con la crisi della centralità dell'Occidente, ma anche con il cambiamento degli ideali virili tradizionali.


Articolo pubblicato su Carnet di maggio 2003