da
D la Repubblica delle Donne del 26-02-05
Liberi di somigliare
di Lea Melandri
Helene Schjerfbeck
Che cosa
succede quando la principale preoccupazione di un genitore è il
"successo" del figlio, quando è la madre a portare un
adolescente dal dermatologo per ritoccare labbra troppo sottili, quando
un autorevole Istituto Internazionale di Statistica modella l'identikit
del futuro manager -simpatia, grinta, fascino-, sulle infantili
gratificazioni di un "capoclasse"? In quella "officina
dei buoni figli" che sta diventando la famiglia, ha dichiarato Charmet,
"il senso di inadeguatezza si trasferisce dalla colpa e dal peccato
alla bellezza, alla forma fisica, alla popolarità, al ruolo del
gruppo" (La Repubblica, 5 dicembre 2004). Strani "figli della
libertà", della "cultura del rischio", delle "biografie
fai-da-te", del "tutto decidibile", sono questi tredicenni
che un'indagine della Società Italiana di Pediatria ha descritto
come "i nuovi conformisti", avviati su percorsi di "azioni
preordinate" e quindi incapaci di fantasia, immaginazione, senso
critico. Liberi, sì, ma di somigliare a tutti i costi ai modelli
vincenti che li vogliono magri, belli, efficienti, avventurosi.
Il darwinismo sociale, l'eugenetica, la selezione che premia un prototipo
di umanità "superiore", non sono più soltanto
i "mostri" delle ideologie totalitarie che si vorrebbero sepolte
per sempre, o i fantasmi che aleggiano sui traguardi più inquietanti
delle attuali sperimentazioni scientifiche applicate alla vita. Impercettibilmente,
dietro la spinta di immagini, linguaggi, slogan che si propongono nella
pubblicità e nei media con la cadenza di un battito cardiaco, il
"trionfo" di pochi diventa "norma", l'individualizzazione
che dovrebbe portare ogni singolo a diventare "padrone di se stesso",
diventa paradossalmente l'espropriazione più plateale di qualità
proprie a beneficio di volti noti, idoli temporanei ed evanescenti come
gli scenari mediatici da cui emergono.
"Non c'è motivo di restare uguali, se è possibile
cambiare in meglio", è il messaggio che sta facendo della
chirurgia estetica uno degli agenti più quotati delle trasformazioni
in atto, nella vita dei singoli e nei rapporti sociali, ma, per una inspiegabile
contraddizione, sembra che a sostenerla sia "la paura di non avere
un aspetto normale". Forse non è inutile allora interrogarsi
sul paradosso di una "libertà senza precedenti", che
si accompagna a un altrettanto forte "senso di impotenza", di
una frenesia del nuovo a tutti i costi, intrisa di ansie conservatrici,
di esaltazioni individualistiche accompagnate da rinascenti voglie comunitarie.
Nel prospettare l'evoluzione delle "democrazie" verso forme
inedite di "dispotismo", Alexis de Tocqueville, già
nel 1840 notava come i suoi contemporanei fossero "incessantemente
affaticati" da due contrarie passioni: il bisogno di essere guidati
e il desiderio di restare liberi, una condizione che li faceva essere
al medesimo tempo "indipendenti e deboli":
"Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà
avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti
solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i
loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo
al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per
lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini,
egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente
affatto; vive in se stesso e per se stesso
Al di sopra di essi si
eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare
i loro beni e di vegliare sulla loro sorte
Rassomiglierebbe all'autorità
paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità,
mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia, ama che
i cittadini si divertano, purchè non pensino che a divertirsi."
(Alexis de Tocqueville, La democrazia in America)
Ma quale è oggi questo "potere immenso", che "non
distrugge ma impedisce di creare", che lascia sussistere "forme
esteriori di libertà" accanto a una "servitù regolata
e tranquilla"? E' fin troppo facile, in un'epoca di "personalizzazione"
della politica, di scontri frontali tra leader carismatici identificati
con le figure del Bene e del Male, della Civiltà e della Barbarie,
dare volti e nomi ai nuovi "despoti", e considerarli responsabili
del sentimento sempre più esteso di inadeguatezza. Ma perché
l'eccezione diventi la norma, in una società che si riconosce,
sia pure formalmente, di "eguali", è necessario che il
modello vincente, a cui si è chiamati a somigliare, abbia in sé
qualcosa di "comune", tratti di una generalità riconoscibile
e famigliare a molti.
Se l'aspetto che caratterizza più a fondo la nostra epoca è
l'affermazione dell'individuo, del suo talento, della sua forza di volontà,
della sua autonomia dai legami tradizionali, il luogo su cui leggerne
gli effetti e misurarne la riuscita, non poteva che essere quello che
imparenta l'uomo alla natura e all'animalità, cioè il corpo.
Nuova figura dell'autorità, destinata a declassare tutte le altre
-padri, padroni, uomini politici- è quella che unisce bellezza
e gioventù, icona di un controllo assoluto sul passaggio del tempo
e sulla finitezza dell'essere umano. Sul mistero del destino biologico
dell'uomo, "breve tragitto tra due assenze", e sulla pretesa
onnipotente della scienza di padroneggiare il principio e il prolungamento
indefinito della vita, si giocano, sia pure inconsapevolmente, i due sentimenti
che in modo contraddittorio caratterizzano il nostro tempo: debolezza
e forza, impotenza e decisionismo, vergogna e rassicurazione. Ma è
la manipolabilità e il trasformismo apparentemente senza limiti
della materia corporea a sostenere quell'illusione di dominio che gli
accadimenti tragici del mondo e le ansie della società nel suo
complesso fanno apparire sempre meno credibile.
"Pelle: interfaccia, sottile strato di soglia dentro/fuori, specchio,
involucro, superficie mutante su cui scrivere il proprio testo. Tatuaggi,
piercing e tutte le altre modificazioni corporali (innesti, lifting, liposuzioni,
protesi)
marchiarsi e procurarsi cicatrici diviene un modo per sottolineare
una soggettività attiva, sono io a scrivere i segni sulla geografia
del mio corpo
le modificazioni corporali, che vanno dall'inserimento
chirurgico sottocutaneo di sfere d'acciaio a veri e propri innesti chirurgici,
personalizzano il corpo, lo rendono più seducente, lo diversificano,
realizzano e in-carnano i propri destini." (da "Tuttestorie",
settembre/novembre 1999). Attraverso
i mutamenti e le ibridazioni del corpo, si materializzano fantasticamente
una storia e una geografia inedite, frutto di una sospensione del tempo
e dello spazio, visti come ostacoli alla nascita di una "soggettività
attiva", capace di riscrivere, nel vuoto di memoria, il "testo"
della propria vita.
"Normale" diventa così chi vince la sfida di una "personalizzazione"
che è continua e ossessiva "messa in forma" del proprio
essere fisico e psichico, traduzione delle figure uniformanti delle mode
e dei consumi nel sogno della propria unicità. Più drammatici
sono i segni che la guerra, la miseria, le migrazioni, il fanatismo religioso
e l'arroganza dei poteri forti, vanno tracciando sui corpi di quella parte
di umanità che è costretta a misurare la propria inadeguatezza
sulle occasioni quotidiane di sopravvivenza.
Nella società dell' "individualismo obbligato", dove
assumersi dei rischi, come dice Zygmunt Bauman, non è più
solo una prova di carattere per i capitalisti, ma una "necessità
quotidiana di massa", l'orizzonte del mondo inevitabilmente si restringe,
fino a coincidere con quei confini del "Sé" -la pelle,
i sensi, la fisionomia di un volto- attraverso i quali da sempre gli esseri
umani guardano e sono guardati, attenti a cogliere nell'altro i segni
di una conferma o di un fallimento. Linguaggio, abiti, gesti, gradevolezza
di modi, diventano gli ingredienti essenziali di una "selezione"
che interessa, al medesimo tempo, chi vuole uscire dall'anonimato e chi
semplicemente non vuole perdere un posto di lavoro. Uniformità
ed eccezione appartengono ormai alla stessa famiglia di rapporti sociali,
modellati secondo le leggi delle merci e del consumo, e come tali mutevoli
e imprevedibili.
"Gli impiegati devono collaborare, che lo vogliano o meno. La
corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una
preoccupazione per la propria esistenza, l'uso dei cosmetici non è
sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce
invecchiata, le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni
praticano lo sport per mantenersi snelli."( Tiqqun, Elementi
per una teoria della Jeune Fille, Bollati Boringhieri 2203).
A fare del
corpo la palestra di un quotidiano controllo circa le proprie capacità
e inadeguatezze, non può essere tuttavia soltanto la mercificazione
dei desideri , delle funzioni e di tutto il tessuto relazionale di una
società. Per quanto parte indisgiungibile del nostro essere, il
corpo non ha mai smesso di essere vissuto come qualcosa di esterno/interno,
una "localizzazione forzata", un involucro che ha leggi e limiti
propri. Prima ancora che sul mondo circostante, l'uomo-bambino è
chiamato a controllare quella materia vivente che gli è famigliare
e insieme straniera, propria e altra da sé. Per quanto non sia
stato mai del tutto cancellato dal bisogno del pensiero di differenziarsi
dalla sua eredità biologica, il corpo, e con esso le sue potenti
attrattive sessuali, non ha mai goduto di tanto credito come oggi, vezzeggiato
dal commercio come dalle religioni, dallo spettacolo come dalle agenzie
del benessere. Quell' "altrove" con cui è stato identificata
la nascita, ma anche il destino mortale dell'uomo, si prende, dopo lungo
esilio, la sua rivincita, e lo fa forse nell'unico modo che ancora gli
è consentito: emancipandosi come tale. Nell'idolo prezioso dalle
mille movenze, dalle curve levigate e sensuali, dagli sguardi ammiccanti,
che ci segue nei percorsi giornalieri, e che testimonia della nostra perenne
irrimediabile inadeguatezza, nessuno potrebbe riconoscere l'individuo
"intero", materia vivente e pensante.
Ma si può
sperare che quella gelida perfezione, quel richiamo evidente all'inanimato,
ne risvegli quanto meno la nostalgia o la prefigurazione.
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