Lettera aperta a Alberto Burgio
di  Anita Sonego

Caro Alberto, questa mattina mentre mi affaccendavo tra il traffico milanese ho ricevuto un sms che diceva così: “Anita, ti tocca rispondere a Burgio e spiegargli due cosette sull’ultimo decennio e sul nostro statuto. Ciao, Mario”.

Non ho avuto il tempo di appurare di che Mario si tratti che, ahimè, mi ritiene in grado di poter spiegare qualcosa ad un pensatore ed un compagno del tuo calibro. E’ evidente che lo deluderò ma tale infondata fiducia merita almeno un piccolo tentativo.
Anche a me l’intervista di Tronti ha colpito molto soprattutto per un’ impressione di contraddittorietà con altri suoi recenti scritti in cui mi sembrava sostenere le tesi di “Sinistra e Libertà” (ma forse mi sbaglio).
Dell’importanza/centralità del conflitto capitale/lavoro credo non ci siano discordanze tra di noi ma quando scrivi della “ deplorevole propensione di mettere tutto sullo stesso piano: il lavoro come il genere, il genere come l’ambiente, l’ambiente come la laicità..” non so proprio a che cosa tu ti riferisca.
Forse a quella innovazione votata (anche da te credo) dalla maggioranza del Congresso di Chianciano , e che è stata posta nella premessa del nostro Statuto dove si dice che Rifondazione Comunista  ha alla sua base la lotta al capitalismo e al patriarcato?

Caro Alberto, se è così non è bello confondere le acque. Il tema, portato anche dentro al nostro partito dalla forza e dalla storia del pensiero e del movimento femminista non è quello di “ mettere sullo stesso piano” ma di trovare i nessi.
Quelli a cui alludeva, nel suo intervento all’ultimo comitato politico nazionale, Erminia Emprin quando dichiarava  “resto convinta della fecondità dell’intreccio teorico e pratico tra femminismo/i e marxismo/i”

Nel tuo articolo su Liberazione dell’8 aprile c’è un’analisi del fallimento della sinistra italiana tutto incentrato sul “tradimento” del gruppo dirigente del PCI. Non sono mai stata iscritta al Partito Comunista (essendo una ex sessantottina coerente ed una femminista) con il quale sono sempre stata in conflitto nella mia pratica politica nella scuola di base, nelle 150 ore e poi nel movimento delle donne. Ma, suvvia, da un intellettuale come te non si può ridurre la dèbacle che tutti stiamo subendo, alla Bolognina o all’arretramento della sinistra anticapitalistica che avrebbe avuto la “credenza secondo cui non va più cercato nel lavoro il baricentro della propria rappresentanza”.
E le conseguenze del “crollo” dei “comunismi reali”? e della tardiva critica del PCI (Berlinguer osò dire che.. “aveva perduto la spinta propulsiva”!) a quello che il gruppo del Manifesto chiamò “Capitalismo di Stato”?

Pensi davvero che in queste sconfitte non pesi una debolezza culturale della sinistra che tra operaisti ed antioperaisti non è stata in grado di comprendere la ricchezza di un pensiero (tra gli altri) come quello femminista che andava a cogliere le radici profonde delle strutture sociali (affettive) ed individuali nella famiglia  quale luogo cruciale in cui, come diceva il dimenticato Engels, “l’uomo rappresenta il capitalista e la donna è il proletario”?

Ho letto da poco il prezioso libretto di Pasquale Voza : Gramsci e la “continua crisi” (Carocci, 2008) che illumina la sua apertura mentale e che ci fa rimpiangere di non avere tra noi un pensatore di simili vedute. Il Gramsci che, ad es. nel paragrafo 10 del Quaderno 22 intitolato “Animalità ed industrialismo” osserva che la storia dell’industrialismo “è sempre stata…un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso di soggiogamento degli istinti... a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine...” e dimostra di saper connettere il lavoro industriale con le vite, la sessualità, i corpi.

E di che cosa parla il femminismo, di che cosa parlano i movimenti lesbici, gay, trans se non di corpi, di sessualità e dei rapporti di potere e di dominio che su di essi si gioca?

Caro Alberto, i nessi dobbiamo cercare! Non è solo ripetendo la centralità della questione capitale/lavoro che saremo all’altezza delle domande complesse che ci pone la realtà del presente.
Analizzando il funzionamento del cervello, delle cellule, della comunicazione, la teoria delle reti complesse ci ha spiegato come i sistemi non caratterizzati da gerarchie sono più efficienti ed anche più resistenti. Se una loro parte, infatti, viene meno, il sistema intero non crolla e si recupera più facilmente.

Forse è anche per questo privilegiare un punto da cui tutto discenderebbe e che tutto spiega che non siamo stati in grado di avere risposte all’altezza della società capitalistica globalizzata? E non è proprio dei monoteismi che critichiamo la violenza e disumanità?
La sfida è alta, i problemi del presente richiedono pensieri articolati e connessi. Forse è il caso di guardarci attorno. La realtà delle vite e dei sistemi richiede tutte le nostre intelligenze, tutte le nostre lotte, tutti i nostri desideri perché la liberazione sarà, se sarà, complessiva e aperta.

 

20-04-2009

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