I sonni inquieti dell'Occidente
di Lea
Melandri
Yvonne Venegas
questo articolo è
apparso su
Liberazione del 9 gennaio 2005
Le immagini e i racconti che ci arrivano
attraverso i giornali e la televisione dai luoghi devastati dal maremoto
del 26 dicembre 2004 potrebbero essere definiti da chiunque
"sconvolgenti". Ma è questo il nostro stato d'animo di fronte "al dolore
degli altri", o non piuttosto quello, già descritto da Voltaire a
proposito del terremoto di Lisbona, nel 1755, di "spettatori tranquilli",
"spiriti intrepidi" che "dalla bonaccia" vanno investigando le cause delle
tempeste in cui hanno fatto naufragio i loro fratelli? Chiedersi, come ha
fatto Piero Sansonetti su Liberazione (28 dicembre 2004) "come reagiamo a
questa tragedia", se è vero che ci lascia "tristi e del tutto
indifferenti", dovrebbe essere il presupposto, silenzioso o esplicito, di
tutti i ragionamenti che ne indagano le cause, naturali e umane.
Per quanto sia imbarazzante ammetterlo, la più banale sequenza
cinematografica, quando va a toccare ricordi remoti, fantasie infantili
dimenticate, può indurci alle lacrime più facilmente di quanto non riesca
a fare una realtà straziante, ripresa da una fotografia o da un
documentario. L'emotività risponde a spinte sotterranee che non sempre
collimano, come vorremmo, con il paesaggio che abbiamo davanti agli occhi
e alla mente.
Si potrebbe discutere a lungo sull'affermazione di Salgado (Repubblica
2.1.2005) che le fotografie di una tragedia come quella del Sud Est
asiatico hanno il potere di portare alla luce, in quanto "linguaggio
comune" che "passa per i sensi", una verità che già sappiamo:
l'appartenenza di tutti gli uomini alla stessa "tribù". Tra il riconoscere
in un gesto, in un volto, in un paese distrutto il codice comprensibile a
tutti del dolore umano, e il dire "potremmo essere noi", passano lo stesso
divario e la stessa lontananza che separano privilegio e miseria, turisti
occidentali in cerca di svago e "nativi" messi a servizio. Le foto
riportate dai giornali, le riprese televisive, gli stralci da video
amatoriali provenienti dai luoghi della catastrofe, scelti con cura, non
senza qualche concessione al senso estetico, dicono di una devastazione
inafferrabile, di una sofferenza muta, e dello sforzo impotente con cui la
nostra ragione tenta, da luoghi sicuri, di fissarne almeno l'ombra.
La presenza di occidentali tra le vittime, il fatto che si trattasse di
luoghi noti come crocevia di vacanze, interessi economici, disponibilità
di "merce" umana a basso costo, sono sicuramente il motivo primo di
un'attenzione così duratura e di una gara mondiale di solidarietà che non
si era mai vista. Le fosse comuni, dove è stata data anonima sepoltura a
corpi spogliati della loro storia, dei loro diversi destini e
appartenenze, hanno assunto di per se stesse, per i significati profondi e
simbolici che possiamo attribuirvi, il peso che vorrebbero avere le
immagini e le cronache giornalistiche.
Gli abitanti delle zone devastate, privati di tutto tranne che della vita,
ripresi in lunghe processioni per il cibo o per l'acqua, o vaganti come
spettri tra le macerie e i cadaveri, messi a confronto con i sopravvissuti
dell'Occidente che raccontano compostamente nei salotti televisivi lo
scampato pericolo, ci riportano dentro un quadro che già conosciamo e su
cui la calamità naturale ha operato soltanto come aggravamento di ferite
già aperte da uomini su altri uomini. Come ha scritto con una sintesi
molto efficace Sabina Morandi (Liberazione 28.12.2004): "la morte per
acqua si infila nei dislivelli sociali e nei conflitti irrisolti
moltiplicando la forza del suo potere distruttivo, lambisce le ville e
spazza via le baraccopoli, precipita nel caos equilibri naturali resi
instabili da anni di sfruttamento".
Più che l'identificazione con le figure di una povertà che va ben oltre il
passaggio violento di uno tsunami, più che l'effetto emotivo di paradisi
marini trasformati in scenari da incubo, si può pensare che sia allora un
groviglio oscuro di sentimenti a tenere alto l'interesse e la solidarietà
per il disastro del Sud Est asiatico. Pur riconosciuto come evento
catastrofico di estrema gravità, non si è potuto isolarlo né come effetto
esclusivo della potenza della natura né come destino di una zona
ininfluente del pianeta. Da subito si è parlato di un' "emergenza"
imparentata con altre non meno gravi calamità -i milioni di morti per
fame, malattie, guerre-, dove la responsabilità umana è predominante,
anche se molti continuano ancora a considerarle "naturali". Sono state
messe a confronto le risorse economiche, tecnologiche, umane con cui
l'Occidente, senza danno per i suoi abitanti, potrebbe risarcire sia pure
tardivamente gli effetti di una secolare colonizzazione del resto del
mondo. Il divario tra ricchi e poveri, proiettato sull'orizzonte dei
grandi poteri mondiali e su quello più domestico dello scambio ineguale
tra chi lascia le sue spiagge ai turisti per venire a lavorare da emigrato
nelle loro case, è diventato il punto focale di una riflessione che ormai
attraversa posizioni politiche, differenze culturali, coscienze
ideologicamente restie a lasciarsi convincere ma non così barricate da
sfuggire a un diffuso, inconfessabile "senso di colpa".
La massa anonima dei senza casa in cerca di cibo, dei bambini abbandonati,
delle donne ricurve sui cadaveri di famigliari morti, sono immagini
ricorrenti nei servizi giornalistici e, proprio per questo, come ha
scritto Susan Sontag, capaci di produrre alla lunga l'effetto contrario:
inaridire la compassione.
Più imprevedibile e più difficile da dimenticare è invece lo scenario che
ha tenuto inconsapevolmente agitati i sonni della parte privilegiata del
mondo, e che ora emerge dal fango, che ha ricoperto le spiagge tailandesi
e indonesiane, come l'altra faccia delle nostre "libertà": gli alberghi a
cinque stelle dei turisti e, a fianco, le capanne dei pescatori locali,
travolti allo stesso modo da una forza naturale che non fa distinzioni, ma
che lascia allo scoperto, una volta acquietata, la nudità imbarazzante dei
rapporti di dominio, sfruttamento, cattiva coscienza, che li ha tenuti
insieme. Le "isole dei famosi", reali o fittizie, non potranno più essere
la meta o lo spettacolo di consumatori "innocenti", né sarà più lo stesso,
ignaro e sognante lo sguardo che poseremo sul volto della ragazza indiana
che ci sorride dalle pareti di un'agenzia di viaggio.
L'uscita da un'indifferenza complice dei mali che si vorrebbero attribuire
alle leggi immodificabili della natura o della volontà di un dio può
cominciare anche così, con la scoperta di un lato inquietante in tutto ciò
che ci è famigliare, nelle abitudini, nelle relazioni, nelle scelte della
vita quotidiana. Qualcuno ha fatto notare che "catastrofe" vuol dire,
etimologicamente, anche "trasformazione". Si può sperare che un
rivolgimento delle coscienze riesca a dare se non un "senso" al disastro,
quanto meno un buon motivo per continuare ad agire in vista di un mondo
migliore.
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