Susan Sontag
 



è morta il 28 dicembre 2004 a 71 anni

Per ricordare la sua attività

proponiamo alcuni passi dal suo saggio "Davanti al dolore degli altri" (Mondadori)



"Catturare la morte nell'attimo stesso in cui sopraggiunge e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le macchine fotografiche possono fare, e le immagini scattate sul campo che registrano il momento della morte (o quello immediatamente precedente) sono tra le foto di guerra più celebri e riprodotte. Non può esserci alcun dubbio sull'autenticità di ciò che mostra una fotografia scattata da Eddie Adams nel febbraio del 1968: il capo della polizia sudvietnamita, il generale di brigata Nguyen Ngoc Loan, che uccide un sospetto vietcong in una strada di Saigon. Eppure, si trattò di una messinscena, orchestrata dallo stesso generale Loan, che condusse il prigioniero, le mani legate dietro la schiena, nella strada dove erano riuniti i giornalisti; non avrebbe portato a termine quell'esecuzione sommaria se non ci fossero stati loro a testimoniarla. Collocatosi accanto al prigioniero in modo che il suo profilo e il volto della vittima fossero visibili alle macchine fotografiche poste alle sue spalle, Loan sparò a bruciapelo. La fotografia di Adams mostra il momento in cui il proiettile è stato esploso; l'uomo morto, la bocca contratta in una smorfia, non ha ancora cominciato a cadere. Quanto a chi guarda, a questa osservatrice, anche molti anni dopo che la fotografia è stata scattata… be', è possibile scrutare a lungo quelle facce senza riuscire a comprendere il mistero, e l'indecenza, dello spettacolo a cui siamo chiamati ad assistere.

Ancor più sconvolgente è l'opportunità di guardare chi sa di essere condannato a morte: si pensi alla collezione di seimila fotografie scattate tra il 1975 e il 1979 in una prigione segreta ubicata in un ex liceo di Tuol Sleng, un sobborgo di Phnom Penh, dove vennero sterminati più di quattordicimila cambogiani accusati di essere «intellettuali» o «controrivoluzionari».

(…)

Nell'era della fotografia, dalla realtà si pretende sempre di più. L'evento reale può non essere abbastanza spaventoso, e perciò va potenziato; o reinterpretato in maniera più convincente. Così, il primo cinegiornale di una battaglia - la cosiddetta Battaglia della collina di San Juan, combattuta a Cuba durante la guerra ispano-americana del 1898, un evento che ebbe un'eco vastissima - mostra in realtà un attacco messo in scena poco dopo dal colonnello Theodore Roosevelt e dalla sua unità di cavalleggeri volontari, i Rough Riders, a beneficio dei cineoperatori della Vitagraph. Il filmato della presa della collina non era stato infatti giudicato sufficientemente drammatico. Oppure le immagini possono rivelarsi troppo forti e vanno proibite in nome della decenza o del patriottismo - come nel caso di quelle che mostrano, senza il parziale e consueto occultamento, i nostri morti. Esibire i morti, in fin dei conti, è ciò che fa il nemico.

(…)

Consideriamo due idee molto diffuse - che oggi stanno rapidamente assumendo le proporzioni di un luogo comune - sull'impatto della fotografia. Ritrovandole formulate nei saggi che io stessa ho dedicato alla fotografia - il primo dei quali risale a trent'anni fa - provo l'irresistibile tentazione di metterle in discussione.

La prima idea sostiene che l'attenzione del pubblico sia manovrata dai media - e dunque, in maniera preponderante, dalle immagini. Se ci sono fotografie, una guerra diventa «reale». La protesta contro la guerra del Vietnam fu, infatti, mobilitata dalle immagini. La convinzione che bisognasse far qualcosa per fermare la guerra in Bosnia si è fondata sull'attenzione dei giornalisti - «l'effetto Cnn», come lo si è a volte definito - che sera dopo sera, per oltre tre anni, hanno fatto entrare le immagini dell'assedio di Sarajevo in centinaia di milioni di case. Tali esempi illustrano il decisivo influsso esercitato dalle fotografie nell'individuare le catastrofi o le crisi a cui prestare attenzione, e nel dar forma alle nostre preoccupazioni e, in ultima analisi, alle valutazioni che diamo di un determinato conflitto.

La seconda idea - che potrebbe sembrare opposta a quella appena descritta - sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini, diminuisce l'impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine, tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza.

Nel primo dei sei saggi contenuti in Sulla fotografia (1977), sostenevo che un evento conosciuto attraverso le fotografie diventa certamente più reale di quanto lo sarebbe stato se non le avessimo mai viste, ma finisce per diventare meno reale quando si è ripetutamente esposti a quelle immagini. Nella stessa misura in cui creano la compassione, scrivevo, le fotografie contribuiscono a inaridirla. Ma è proprio così? Quando l'ho scritto ne ero convinta. Ma ora non ne sono più tanto sicura. Cosa prova, infatti, che le fotografie abbiano un impatto decrescente, che la nostra cultura dello spettacolo neutralizzi la forza morale delle immagini di atrocità?

La questione ruota intorno al modo in cui si considera il principale mezzo di informazione, ovvero la televisione. Un'immagine è privata della sua forza dal modo in cui viene utilizzata, dal luogo in cui viene vista e dalla frequenza con cui appare. Quelle televisive sono per definizione immagini di cui, prima o poi, ci si stanca. Ciò che sembra indifferenza ha in realtà origine nell'instabilità dell'attenzione che la televisione suscita programmaticamente e poi sazia con il suo eccesso di immagini. La saturazione visiva fa sì che l'attenzione sia incostante, mobile e relativamente indifferente ai contenuti. Il flusso di immagini impedisce di privilegiarne una. La caratteristica essenziale della televisione è che si può cambiare canale, che è normale farlo, spazientirsi, annoiarsi. I consumatori languiscono. Hanno bisogno di essere stuzzicati e stimolati in continuazione. E il contenuto è solo uno dei possibili stimoli. Impegnarsi in una più profonda riflessione sul contenuto richiederebbe una maggiore attenzione - proprio quella che viene indebolita dalla prevedibilità delle immagini diffuse dai media, i quali, svuotando i contenuti, contribuiscono in larga misura a smorzare le emozioni."
 

Si può visitare il sito a lei dedicato

e leggere tra i suoi articoli uno dei più appassionati, su Sarajevo l'Italia e la guerra.