Le
Grandi Sorelle
di Lea Melandri
Che
cos'hanno in comune le figure femminili che negli ultimi tempi si sono
imposte sulla scena pubblica, tanto da indurre qualcuno a scrivere che
questo è il "secolo delle donne"? Pensando a Madre
Teresa di Calcutta, a Sihrin Ebadi, a Alma e Lila, le due sorelle
espulse dal Liceo di Aubervillers, alle otto aspiranti spose del Grande
Fratello arabo, verrebbe da dire a prima vista un foulard, lo scampolo
di stoffa che può nascondere o lasciar apparire la parte del corpo
in cui si concentrano soggettività e seduzione: gli occhi, la bocca,
i capelli.
Ciò che fa notizia è che quell'esile barriera, messa a salvaguardia
di un "pudore" imposto dalle paure dell'uomo, oggi sono le donne
a innalzarla e ad abbatterla, senza chiedere consenso. Se è vero
che l'emancipazione svela i corpi femminili per consegnarli al mercato
e alle tecnologie riproduttive, resta tuttavia un margine, sia pure ambiguo,
di resistenza in quel gesto sospeso tra obbligo e scelta che non sembra
conoscere confini, patrie e appartenenze. "Straniere" presso
tutte le civiltà, portatrici di una "differenza" originaria
temuta ed esecrata, nel momento in cui chiedono cittadinanza le donne
si vanno a collocare in un orizzonte diverso, trasversale, quasi astorico.
Metamorfosi, travestitismo, eccentricità: sono le chiavi di lettura
con cui si interpreta un femminile che non sta più nei panni in
cui è stato messo, senza tuttavia abbandonarli. Semplicemente,
li usa e li scambia in modo imprevedibile.
Madre Teresa di Calcutta è la "matita di Dio"
e, proprio per questa sua docile funzione, scavalca i confini a cui è
destinata, lascia l'abito occidentale per il shari indiano, trapianta
il suo credo religioso nel cuore di un paese che lo considera straniero
ed ostile. Lo spirito di sacrificio richiesto a un sesso che proprio per
questo è sparito dalla storia, diventa il passaporto per una cittadina
del mondo. Lo stesso travestimento, anche se più sontuoso, permette
a Sonia Gandhi, nata in provincia di Torino, un'affiliazione eccezionale
che la porterà alla testa del Partito del Congresso, fondato dall'illustre
suocero. Ma il velo si fa protagonista anche nelle cronache dell'Occidente.
Alma e Lila, figlie della cultura laica e progressista scuotono
l'opinione pubblica francese vestendo un simbolo, il velo islamico, che
l'Europa preferirebbe dimenticare: perché segno di discriminazione
sessuale, ma anche bandiera di "differenze" etniche, religiose,
economiche che non si lasciano assimilare.
L'ombra dello "scontro di civiltà" è risvegliata
da un'adolescenza inquieta su cui pesa la crisi delle identità
e dei valori. Ma la trasversalità più eclatante resta tuttavia
quella delle otto giovani donne chiuse per due mesi nella casa-prigione
del relity show arabo "In onda insieme". Astuta
versione mediatica del dramma che travaglia oggi il Medio Oriente, con
un lieto fine -il facoltoso matrimonio di una di loro-, le Grandi
Sorelle arabe dai visi truccati e i capelli fluenti incarnano
idealmente il crocevia tra Occidente e Islam, industria dello spettacolo
e tradizioni religiose. Se l'iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel
per la pace nel 2003, ha dimostrato di saper usare il velo, in patria
e fuori, con un senso tutto occidentale dello Stato e delle sue leggi,
consapevole dei suoi obblighi ma anche del diritto a contestarli, le aspiranti
spose televisive sembrano invece prese in un ingranaggio che le fa protagoniste
di un pantomima redditizia, furbescamente ammiccante alla presenza militare
americana in Iraq, al linguaggio con cui Bush ha propagandato la sua guerra
"preventiva" contro il terrorismo, la "battaglia per conquistare
i cuori e le menti", e a un simulacro di democrazia partecipativa,
quale è il televoto.
L'articolo
è stato pubblicato su Carnet - febbraio 2004
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