"Noi donne in nero serbe a fianco delle vittime bosniache e kosovare"

di Eleonora Cirant




Stasa Zajovic e le altre Donne in nero di Belgrado non hanno mai smesso di contrastare il militarismo. Sono in prima linea dal '91 quando, all'inizio della guerra, decidono di reagire alla politica di aggressione e di pulizia etnica praticata dal regime serbo di Milosevic, che considerano responsabile della disintegrazione della ex Jugoslavia insieme a quello croato guidato da Tudjman.
«Non in nome mio» gridano e soprattutto praticano, creando negli anni di guerra una rete di solidarietà con le donne in Bosnia e in Kosovo. Si alleano con gli uomini del proprio paese, quelli che disertano. Nel mese di ottobre '91 in 10mila, secondo un dato approssimativo, si sottraggono alla mobilitazione forzata; a novembre in 100mila, molti dei quali rischiano il processo. Si calcola che mezzo milione di giovani abbiano abbandonato il paese, non volendo partecipare alla guerra fratricida.
L'impegno continua con la fine della guerra, fino alla caduta di Milosevic e poi con il nuovo governo di Djindjic. Tira aria di rinnovamento, ci si aspetta una rottura radicale con il regime e ci si appresta ad affrontare i delitti e le lacerazioni del recente passato. Nel 2003 è varata la legge sull'obiezione di coscienza. Nello stesso anno il premier è assassinato. Ha calcato troppo sull'acceleratore delle riforme. Con il governo di Kostunica il nazionalismo vive una nuova primavera. Quello uscito dalle ultime elezioni presidenziali è un'incognita.
Oggi il 70 per cento degli uomini è obiettore di coscienza, ma questo non vuol dire che il paese sia smilitarizzato. Stasa, ospitata recentemente alla Libera Università delle Donne di Milano, spiega a Liberazione della domenica quel che sta accadendo in Serbia e in cosa consiste la pratica antimilitarista delle Donne in nero di Belgrado.

Cosa significa militarizzazione del paese, oggi?
Non c'è possibilità che scoppi la guerra, adesso. La militarizzazione avviene ad altri livelli: educazione, istituzioni culturali, università, partiti politici. Il suo nucleo è il rapporto con i crimini di guerra commessi. Quelli che noi consideriamo assassini sono dichiarati eroi della patria, secondo un sistema perverso dei valori che esalta le conquiste e mantiene un clima emozionale molto pericoloso. I partiti hanno un ruolo importante in questo, così come la chiesa ortodossa serba che ha indirettamente appoggiato la guerra con il pretesto del popolo vittima.
L'esercito non ha la forza per aggredire all'esterno, ma i servizi di sicurezza svolgono una costante aggressione verso i nemici interni, cioè noi e tutti coloro che non aderiscono al consenso nazionale sulle cause della guerra. Siamo oggetto di una guerra a bassa intensità che ha l'obiettivo di rinnegare la responsabilità dei crimini di guerra. Purtroppo, benché una parte degli intellettuali sia d'accordo con noi, la maggioranza di loro appoggia questa relativizzazione dei crimini.

Qual è il ruolo dei mezzi di comunicazione?
La maggior parte sono "armi" di questo tipo di guerra. Quelli vicino a noi non hanno potere economico. La mafia collegata a Milosevic attraversa i servizi di sicurezza e controlla giornali di questo tipo - solo a Belgrado ce ne sono dieci - che hanno l'unico scopo di screditarci. Noi lottiamo contro l'impunità, loro per l'impunità. Questo è il nostro dramma e il nostro conflitto. Per esempio, la vittoria di Tadic alle ultime elezioni per noi è importante, non perché siamo dalla sua parte, ma solo perché se avesse vinto il fascista Nicolic tutti i criminali di guerra sarebbero fuori nel giro di pochi giorni.

L'atteggiamento della gente?
La gente è disperata, impoverita, frustrata, apatica. In Serbia c'è un'epidemia di depressione. Nel popolo di Serbia c'era una grande aspettativa. Sono testimone che nei primi due anni di governo dopo la guerra c'era una voglia immensa di aprire una nuova strada e affrontare il passato. Quando il premier Zoran Djindjic ha fatto passi davvero decisivi per mettere in crisi il sistema di Milosevic, è stato ammazzato. Da allora la Serbia è andata giù, è tornata la gente di Milosevic, con un governo che ha dato un ruolo molto importante alla chiesa e alle frange nazionalistiche.

Come contrastate il militarismo?
In primo luogo affermando e praticando la giustizia di transizione. Lavoriamo su un nuovo concetto di sicurezza dal punto di vista femminista e contro la clericalizzazione e il fondamentalismo religioso. Siamo una rete in tutta la Serbia. I nostri mezzi di comunicazione sono internet e i libri.

Come praticate la giustizia di transizione?
La giustizia non si può ridurre al diritto, né al sistema istituzionale, che pure consideriamo molto importante. Per noi è anche un concetto emozionale, morale, politico. Abbiamo sviluppato una pratica con le donne vittime del regime serbo. Visitiamo insieme alle vittime di Srebrenica i luoghi dove sono si sono svolti i crimini commessi nel nome nostro. Noi andiamo là, insieme alle vittime in Bosnia e Kosovo, per riconoscere che il crimine è stato fatto nel nome nostro. Dicendolo alle vittime si crea un rapporto di giustizia tutto diverso. Ci assumiamo la responsabilità morale di fronte alle vittime.
Questa politica ci ha aperto molte porte. Insieme alle vittime dei crimini di guerra andiamo di fronte alle porte del Tribunale speciale a Belgrado. Per un anno e mezzo abbiamo atteso il processo insieme alle donne di Srebrenica sopravvissute al genocidio. Tornare insieme sul luogo del crimine afferma anche un nuovo concetto di sicurezza, ed è l'ottica femminista della cura. Decidiamo che ci prendiamo cura delle vittime di crimini che i nostri hanno fatto. E' un percorso in cui si imparano molte cose non soltanto sulla giustizia, ma sulla sicurezza, sull'amicizia, la politica di pace, la non violenza.
Facciamo una politica del perdono, un perdono laico: ti chiedo scusa per l'ingiustizia che ti è stata fatta dai nostri. Non è dire: sento che hai sofferto - cosa che offende. Ma è dire: io so chi è stato, i nostri, e devono essere puniti. Abbiamo sviluppato queste pratiche perché è molto difficile vivere in un paese dove sono avvenuti tanti crimini. Le vittime sono persone con cui abbiamo vissuto insieme, i nostri vicini, in molti casi familiari. E' una pratica che fa bene anche a noi, perché non si può avere un peso di responsabilità talmente grande, dovevamo inventare qualcosa che ci permettesse di sfogare la sofferenza. La conoscenza con le donne vittime dei crimini ci ha portato a scoprire che abbiamo molte cose in comune - mai scordando che viviamo condizioni diverse. Ad esempio, sia noi che loro proviamo un senso di colpa per quello che è accaduto.

Avete consenso tra le persone giovani?
Non moltissimi, ma ci sono. Giovani che allora avevano 7 o 9 anni, capiscono. Ascoltano, vanno sui luoghi del crimine con le vittime, e scrivono molto. Purtroppo la maggior parte dei giovani di Serbia sono perduti. L'80 per cento di loro ha vissuto in un isolamento totale, la frustrazione è massima, per cui sono oggetto di manipolazione politica da parte dei nazionalisti, preda dell'odio verso gli altri e verso di noi. E' un paese sconfitto. C'è molta aggressività. Questa è la reazione alla paura e all'impotenza.

Riuscite a fare attività nelle scuole?
C'era questo intento dopo la caduta del governo di Milosevic e noi abbiamo collaborato con il ministero dell'Educazione. Ci è stato permesso di entrare nelle scuole, è stata un'esperienza molto bella. Il governo di Kostunica ha cancellato tutto. E il governo Tadic che è tornato a vincere è ambivalente, poco serio. Fa alleanze pragmatiche, è revisionista, dice: fascismo, antifascismo, sono la stessa cosa, c'è libertà di opinione, voi avete ragione, ma anche loro. Afferma che il fascismo è un modo di pensare come un altro.


Info
Donne in Nero di Belgrado



articolo pubblicato in Liberazione della domenica del 17 febbraio 2008

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