Sulla violenza

di Lea Melandri


Christiane Pflug

Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme della violenza contro le donne e sarebbe un errore considerarle isolatamente -tanto più che esiste oggi una legge che le punisce-, come se non fossero situate all’interno di una linea di continuità, all’interno di una cultura, maschilista, sessista, patriarcale, che, nonostante le garanzie costituzionali, legislative, nonostante lo sbandieramento dei “valori” democratici, stenta, o fa resistenza, a riconoscere la donna come persona.

La donna resta-purtroppo anche nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di adattamento e sopravvivenza- una funzione: sessuale, procreativa. E’ il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggiore allarme, per una civiltà che avverte segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente, dall’odio degli altri popoli, è la denatalità.

Dobbiamo cominciare a dire che la violabilità del corpo femminile - la sua penetrabilità e uccidibilità - non appartiene all’ordine di pulsioni “naturali”, aggressive, alla “bestialità”, agli usi “barbarici” dello “straniero”, ma sta dentro la storia, la nostra storia, quella greca, romana, cristiana, a cui oggi si torna a fare costante riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa della cultura islamica. Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, e quindi della politica, con la demarcazione di un confine tra la casa e la città, tra la famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona, soggetto politico, lo svilimento del suo corpo fanno tutt’uno col potere sovrano - potere di vita e di morte -, che l’uomo ha esercitato su di lei, e su altri corpi vili, come lo schiavo, il prigioniero.

Le abitudini, i modi di pensare della classe politica e degli intellettuali che la corteggiano non sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tutt’ora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile-corpo vile, non a caso collocato nell’elenco dei “soggetti bisognosi”, da proteggere, controllare, tutelare. L’emancipazione risulta spesso così insoddisfacente perché si presenta come lo sforzo per sfuggire a un femminile svalutato, insignificante, impotente.

Quindi combattere la violenza manifesta, la violenza fisica, comporta che, oltre alle pene previste dalla legge, si tenti di prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nella morale, nella religione, nelle norme non scritte della tradizione, nelle usanze famigliari e comunitarie, ma anche e soprattutto negli habitus mentali sedimentati dal millenario dominio maschile, interiorizzati dalle donne stesse. Vuol dire, per esempio, fare in modo che la donna non sia più identificata col corpo (sessualità, maternità): colei che sarebbe, “per natura”, addetta alla cura dei corpi, di bambini, malati, anziani; il che significa condanna alla fatica, alla sofferenza, ma anche al potere dell’indispensabilità. Bisogna che gli uomini, che danno la morte con tanta facilità, imparino quanto costa mettere al mondo e crescere la vita, curare la malattia e i disagi della vecchiaia. Agli uomini andrebbe data l’ “opportunità” di essere assunti negli asili nido e nei primi ordini di scuola, dove è ancora esclusiva o predominante la presenza femminile.

Ma dovremmo anche cominciare a considerare violenza la cancellazione che del rapporto tra i sessi fa la classe politica e la cultura alta, prima ancora che il senso comune. Gli stessi politici, intellettuali, che sbandierano come un trofeo della nostra civiltà la “libertà” delle donne, contro l’arretratezza di altri popoli e culture, non sono poi disposti ad aprire alcuno spazio affinché questa libertà possa essere effettivamente esercitata.

Il rapporto tra uomo e donna non è ancora entrato nell’agenda politica col posto che merita, e quando si apre uno spiraglio, lo si colloca sotto la voce “politiche famigliari”, o “pari opportunità”: tutela di un soggetto debole, svantaggiato, a rischio. Se si vuole proprio manifestare, dobbiamo farlo anche contro questo silenzio, colpevole e irresponsabile, contro questa ipocrisia, per cui si innalzano, in spregio a altre culture, “valori” che nessuno rispetta.

C’è poi il problema della comunità straniere che vivono nel nostro paese, della difficile situazione in cui si vengono a trovare le donne immigrate, strette tra la repressione-protezione del proprio ambito di appartenenza, e un modello di libertà femminile che noi stesse critichiamo, e che comunque urta contro le loro convinzioni, i loro modi di vita.

Ma è importante che questo non diventi ancora una volta un paravento, un alibi, per la nostra cultura, l’occasione per spostare all’esterno un problema che le appartiene, come se il patriarcato fosse solo il segno della “barbarie” di altri. I fatti dicono il contrario: la cadenza quotidiana degli omicidi in ambito famigliare fa meno notizia che la violenza all’esterno, ad opera di immigrati, ma è il dato più rilevante, e non solo quantitativamente. Per avviare un rapporto di reciprocità con donne di altre culture, se non si vuole che sia solo di tipo solidaristico, è necessario da parte nostra essere disposte a mettere in discussione la nostra ‘civilissima civiltà’, per tutto ciò che ancora esita a portare allo scoperto del dominio maschile e dei suoi effetti, oggi sempre più scoperti.


03/10/2006