Svestiti
di Eleonora Cirant


Elisabetta Pagani, Né veline, né velate

Mostre. (Milano). “Svestiti” è il titolo provocatorio della mostra inaugurata lunedì 26 settembre nello spazio Quintocortile, una “ironica e ambigua pausa di riflessione dall’abbuffata di vestiti, modelle e party” che si svolge in occasione della settimana della moda. Il Comune di Milano ha invitato le gallerie d’arte cittadine di aderire all’iniziativa promuovendo eventi culturali e  Donatella Airoldi, curatrice della mostra, insieme a Mavi Ferrando hanno colto l’occasione per proporre, attraverso l’arte, un messaggio “differente”.

Scrive Donatella nell’invito che con la mostra ‘Svestiti’ si è cercato di trasmettere il senso di una magica povertà, “non una carrellata di lussi e di fasti, ma la nudità dei corpi o delle vesti nel suo senso più articolato e profondo, vera protagonista di incondizionata ricchezza, ben al di là degli stereotipi commercial-estetizzanti. Le undici artiste presenti formano e sformano il nudo cercando corpi assenti o prosperosi, vestiti frantumati o gocciolanti di metallo prezioso, svestiti dal loro abituale sguardo addomesticato, maliziose seduzioni per essere un’attrazione a volte di crudeltà sopraffina. Originalità del nudo, o del corpo che non c’è, placata nel tempo, che accede a via furtive per essere accattivante”.

Sono donne le artiste, femminile il corpo attraversato dal segno artistico e restituito allo sguardo nella sua complessa stratificazione di significati. Come descrivere le opere d’arte se non attraverso le emozioni che suscitano?

Nel quadro di Bruna Aprea non sono le natiche nude delle due donne a turbarmi, ma il loro sguardo a me mentre guardo, esse stesse guardate da due maiali. Nell’atto di guardare mi accorgo: non sono i maiali, ma io stessa a scrutare le forme di quei nudi femminili. I loro occhi mi osservano da sotto i capelli, puntando nel fondo di un voierismo che permea la società e il nostro stesso sguardo, immergendoci in una sorta di continuum pornografico.

I seni del quadro di Silvia Abbiezzi, modellati e dipinti con una tecnica mista (colore e imbottitura) sono tanto belli da sembrare veri, viene voglia di toccarli. Vediamo solo il tronco di un corpo che immaginiamo stupendo, ma è un corpo cucito – ago, filo, ganci - come un modello di perfetta sartoria. Immersa nella visione del quadro, affiorano alla mente due immagini: la chirurgia estetica e i corpi sfigurati dalle guerre, sbranati dalle mine, ricuciti per pietà.

L’opera di Hera Mendikian affonda nello stomaco come uno di quegli incubi da cui ti svegli sudata e raccapricciata. A descriverla fisicamente, è fatta di bambole e stoffe. Ma nell’impatto con l’immaginazione, le creature avviluppate in bozzoli neri sono bimbi, oppure feti, oppure siamo noi stesse, sepolte sotto le macerie di antichi traumi?

Passiamo dal nero di Mendikian al bianco dell’istallazione di Nadia Magnabosco e il fremito non si stempera ma rimane sospeso all’imbocco della pancia, tra il sogno e la realtà. L’abito candido e fiorito di una bambina è chiuso dentro una gabbietta a forma di casa. E’ l’infanzia tradita dalla violenza degli adulti che hanno chiuso in gabbia la propria. Solo aprendo quella porta chiusa possiamo liberare la voce della bambina che ancora vive dentro di noi. Infatti la porticina della casa è aperta e qualcuno ha potuto mettere una scala e un’altra ancora e un’altra ancora.

Altre infanzie baluginano come ombre nella parte inferiore del trittico di Elisabetta Pagani. Al centro, una donna provocante, nuda su velluto rosso, ha il volto coperto da una veletta nera. Mentre espone il proprio corpo come oggetto di consumo e al tempo stesso di adorazione, maschera la parte vera di se stessa: lo sguardo. Gli occhi che ci guardano dalla parte superiore del quadro sono quello sguardo negato, che qui risplende con una luminosità tale da rimanere impressa come un ricordo tattile: il calore del sole sulla pelle.

Nell’istallazione di Anna Santiniello vedo un corpo femminile ridotto al suo involucro, o un involucro che da forma ad un corpo femminile, o anche un vuoto modellato a forma di donna da una fitta griglia di metallo nero. E’ senza bordi questo busto di trama nera che evapora nell’aria appena sotto i fianchi. Mentre lo guardo, ho il sospetto di vedere in uno specchio di materia quella mia parte dove l’orlo dell’anima è sfilacciato.

Ironica l’istallazione di Silvia Cibaldi, che ha preso un busto per la cura della scoliosi e lo ha reso oggetto d’arte. Ma, del resto, la moda impone schemi rigidi a chi ne fa non gioco, ma veicolo di identità. Il busto ha la pesantezza del piombo e sulle due protuberanze che – in origine – servivano a tenere dritte le spalle, Silvia ha dipinto due occhi. Dentro il busto, immagini di donne tratte da celebri dipinti ci ricordano che, nei secoli, busti fisici e culturali sono intervenuti a modellare la debordante soggettività femminile.

Nel collage di Jane Kennedy si affollano brani, strappi, tronchi e parti. Corpi e soggetti spezzettati, frammentari, inconsulti, amalgamati da una monocromia in scala di grigio. E’ un po’ come prendere il metrò in una giornata media di un inverno medio in una città media e accorgersi, all’improvviso, che siamo tutti mediamente, eccezionalmente differenti. O come quando ti ascolti dentro in cerca del “chi sono? Qual è il senso del mio stare al mondo?” e, in risposta, senti solo fragore, fruscii, frasi sconnesse; ma sai che il senso è nella domanda, non nella risposta.

E’ gioioso il gioco di neri e bianchi del quadro verticale di Sonia Avellino, che lì per lì ti accoglie come un gioco di forme morbide, gratificando lo sguardo. Osservando meglio, sullo sfondo della texture si stacca il profilo di un corpo femminile. Come in quel gioco in cui puoi vedere un vaso o due profili a seconda di come atteggi lo sguardo interiore, qui accade che se ti concentri sulla texture, non riesci più a vedere il corpo. E’ impossibile guardare contemporaneamente i due aspetti, il testo e il contesto, ma ciascuno è necessario a fare esistere l’altro.

Nel quadro di Marilisa Pizzorno l’abito è vuoto, ma pare si muova più del corpo nudo che gli cammina accanto, separato da una sventagliata di stoffa frivola. Lo sguardo passa con una certa inquietudine dalla materia morbida di una tuta blu che pare frusciare al vento – ma senza piedi, senza mani, senza testa – ad un corpo femminile che ha la fissità di una statua – ma senza occhi perchè tagliati fuori dal quadro. Possiamo forse immaginarli, ma non vederli.

Sono gioiose e liberate come fiamme bianche le forme dei “mostri” danzanti di Mavi Ferrando. Mi sento di stemperare nella miscela di spazio e luce che le figure, ritagliate nel legno e appese al soffitto proprio in mezzo alla stanza, amalgamano grazie al tratto fluido di una linea completa. In punta di piedi, leggere, danzano roteando su se stesse nell’equilibrio di un asse, trait d’union fra terra e cielo. Fossimo anche noi così delicatamente in equilibrio con noi stesse…
 

Potete vedere la mostra fino al 30 settembre, dalle 17.30 alle 19.30, in Via Col di Lana 8, Quintocortile.

 

pubblicato in Delt@ Anno III, n. 188 del 28 settembre 2005