Impegno intellettuale, impegno politico

Se le disuguaglianze sono alla base si potrebbe chiederci cosa è una sessualità egualitaria: non semplicemente mettendo in discussione la divisione sessuale del lavoro, ciò che permetterebbe di aumentare le possibilità di scelta delle donne ma anche le maniere in cui pensare una sessualità che non sia oggetto di scambio.   
 
Non è facile rispondere: E per ciò che riguarda la sessualità come relazione tra due persone è una questione troppo complessa. Una sessualità egualitaria è però anche una sessualità fuori da ogni condizione di dominio, di oppressione, dove non ci sarebbero costrizioni, una sessualità libera di esprimersi in qualsiasi modo, di sperimentare, non legata alla divisione tra I sessi e alle relazioni di potere. Tentare di immaginarla? Non so… certo a volte è difficile dire cosa sia l’uguaglianza nei rapporti individuali. Attualmente abbiamo una struttura di dominazione che impone anche in modo violento una differenza sociale tra i soggetti e tra le sessualità, una struttura che si basa infatti sullo scambio e l’eterosessualità.

Si può leggere il tuo lavoro come un lavoro che cerca di isolare certi fenomeni, un lavoro nel quale è necessario lasciare da parte certe cose.

Una quantità enorme di cose. Devo delimitare un campo. No, il mio obiettivo non è stato di esaminare tutta la sessualità (questo mi sembra assurdo, insensato) o la sessualità in quanto tale (che sarebbe la sessualità in quanto tale?) ma – come ho già detto – i rapporti sessuali tra uomini e donne nel quadro dei rapporti sociali tra I sessi, dei rapporti di genere.
E d’altronde la mia ricerca dal 1975 in poi non è stata che sui rapporti sociali tra i sessi, sulle condizioni della dominazione maschile, i mezzi con cui questo dominio si costruisce e si conserva. Nota 1 Quando ho studiato la divisione sessuale del lavoro e gli strumenti usati dai due sessi (1979) il mio interesse principale non era l’aspetto tecnico degli strumenti – certamente ho seguito con interesse le analisi di Leroi-Gourhan sull’evoluzione tecnica, le differenziazioni interne dei tipi di strumenti e così via – ma ho studiato piuttosto a chi spettavano i vari strumenti, chi poteva usare tale o talaltro strumento, a chi era veniva al caso impedito o vietato usarlo, e le costanti eventuali di questa divisione di strumenti e lavoro tra uomini e donne. E infine se gli strumenti e in modo particolare le armi (fondamentali in molte società come strumenti per la caccia, ma come è evidente anche come mezzi di offesa e difesa) avessero un ruolo nei rapporti di potere. E ho potuto mostrare che le costanti di questa divisione non erano legate a fattori naturali (per dirla in breve, l’idea più comune tra gli etnologi era che ciascun sesso faceva il lavoro a cui “per natura” era più adatto), ma che le donne facevano solo quei lavori che non richiedevano che gli strumenti più semplici, elementari di ogni società o, addirittura, i lavori a mano nuda, quelli che richiedevano come strumenti le sole mani. Era difatti l’accesso a strumenti e armi che determinavano l’attribuzione di un compito o l’altro agli uomini o invece alle donne. La divisione sessuale del lavoro era dunque una divisione tra chi aveva gli strumenti di produzione (e strumenti del potere, della violenza) e chi non li aveva. E la gestione degli strumenti, dei mezzi di produzione, dava e ancora dà un potere economico e politico. Tra parentesi, ricerche sulla divisione del lavoro in rapporto all’equipaggiamento tecnico usato da ciascun sesso nelle società industrializzate attuali e anche nel quadro della globalizzazione, potrebbe avere un grande interesse.
Lo stesso vale per il lavoro sulla procreazione (1985). Le questioni che mi ponevo non riguardavano “l’amore materno” né come è chiaro i fattori fisiologici come tali, ma la gestione della riproduzione, in che modo le diverse società ottengono il massimo di fertilità possibile in rapporto alle condizioni fisiologiche della specie umana (una specie che in realtà ha una relativa infertilità) e insieme in rapporto alle loro specifiche condizioni di vita, al loro livello nutritivo. E ho potuto mostrare come la riproduzione sia un luogo di gestione sociale, di interventi di potere sulle donne e la loro sessualità, sulla sessualità in generale, e ho così parlato di una riproduzione imposta o financo forzata.
Ugualmente nella ricerca sullo scambio sessuo-economico: di nuovo al centro del mio interesse non è stata direttamente la sessualità né le diverse sessualità o forme di sessualità, ma l’organizzazione sociale della sessualità, la sessualità come parte dei rapporti sociali tra i sessi, la sessualità come elemento dei rapporti di dominazione. E questo ha comportato la necessità di fare una scelta molto drastica: la scelta di lasciare da parte moltissime cose.
Ma qui forse dovrei fare una digressione personale, sul mio percorso intellettuale e di vita. Che sono strettamente legati.
Punto primo, provengo da una famiglia di intellettuali comunisti  di cui una parte era emigrata negli Stati Uniti a causa del fascismo e delle leggi sulla razza del governo Mussolini (1938). Ho passato la mia infanzia a Manhattan e siamo rientrati in Italia a guerra finita. I miei ci parlavano di politica, di razzismo, comunismo, della Cina, dell’Unione Sovietica, e assai giovane, a 12-13 anni ho fatto parte della Federazione Giovanile Comunista. Durante il liceo partecipavo alle manifestazioni, insomma ero nelle attività politiche di quel tempo. Sono uscita dal Partito in seguito all’invasione dell’Ungheria nel 1956. Un soggiorno di sei mesi in URSS, all’epoca di Krusciov ha fatto il resto. L’educazione politica ricevuta mi ha senz’altro segnato, Nota 2 sono restata di sinistra ma non ho più fatto parte di un’organizzazione politica.
La mia formazione universitaria e in parte post-universitaria è stata una formazione filologico-linguistica. Mi sono occupata della filologia dei testi popolari, canzoni, indovinelli, fiabe, facendo anche ricerche sul campo in diverse regioni italiane. Solo più tardi sono arrivata all’antropologia.
Alla biblioteca, dopo la tesi, mi è capitato tra le mani L’anthropologie structurale di Lévi-Strauss e per me è stato un colpo di fulmine. Ma ho continuato le ricerche di folklore e anche iniziato una ricerca sulla parentela in Calabria. L’antropologia è diventata la mia disciplina in seguito, dopo una serie di esperienze personali. Dopo aver lasciato gli studi precedenti (e il mio matrimonio) che non mi interessavano più e aver deciso di viaggiare.
In Tunisia ho incontrato e poi sono vissuta con un gruppo di hippies della West Coast americana, con un rapporto di amicizia in particolare con due giovani gay di San Francisco.  Vivendo in questo ambiente mi è sembrato possibile pensare a una vita collettiva fuori della famiglia e della coppia fissa, rapporti liberi non autoritari e assai diversi da quelli che si vedevano nel resto della società Ho persino creduto che fosse possibile avere figli e farli crescere in una collettività, fuori dai modelli di famiglia correnti. E ho messo in pratica le mie idee: ho avuto due gemelli. Ma in seguito, vivendo due o tre anni con i bambini in gruppi o comuni in Italia la disillusione è stata totale. I rapporti tra noi, nonostante una partecipazione più regolare dei maschi ai lavori domestici, non erano tanto diversi che altrove, e in particolare I rapporti tra uomini e donne erano sì più liberi ma alla fin fine assai patriarcali. E c’era una chiara omofobia.
I bambini non erano in realtà qualcosa che riguardava la collettività, spettavano alle madri, erano una faccenda di donne. L’autorità invece no, erano gli uomini. E oltre a tutto questo la noia dei discorsi ripetitivi a non finire. Sentivo il bisogno di riflettere sui rapporti di potere tra uomini e donne, di capirci qualcosa, di studiarli.
E’ questo in definitiva che mi ha spinto a tornare alla ricerca (e ho ottenuto un contratto all’Università di Pisa). E’ allora che sono arrivata alla ricerca antropologica. E’ stato, specie all’inizio, un percorso fondamentalmente solitario. Non conoscevo nessuno, mi chiedevo se c’erano in antropologia degli studi femministi, avevo idee assai vaghe. Un’antropologa americana incontrata a Parigi (era il 1976 o 1977) mi segnala un libro di Reyna Reiter: Towards an Anthropology of Women. E’ stato il punto di partenza.
A Pisa intanto con ricercatrici di altre discipline avevo formato un piccolo gruppo di riflessione, il tipo di gruppo femminista così diffuso all’epoca. E’ durato forse un paio d’anni.
Poi, forse due anni dopo, verso il 1978, a Parigi sono entrata in contatto con il gruppo di Questions Féministes, Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Colette Guillaumin, Monique Wittig. La gioia di trovare delle amiche, delle idee comuni, un costante stimolo intellettuale.
Vedi dunque, l’interesse di partenza era politico e è rimasto tale. Ed è stato il cuore della mia ricerca come del mio insegnamento universitario. Ho seguito nelle mie ricerche e nell’insegnamento anche altre tematiche come il razzismo, l’idea di razza nei bambini in età scolare. E anche altre tematiche nel campo dei rapporti di genere che non ho poi sviluppato. I miei corsi universitari erano in genere seguiti con interesse e assai animati. Ma insegnare non mi è mai veramente piaciuto. Solo è stata l’unica possibilità per fare ricerche di antropologia dato che in Italia non abbiamo per questa disciplina una sezione del C.N.R.  o di altro ente scientifico. Per quello che concerne l’ambiente intellettuale e politico in Italia (all’epoca la tendenza più forte era quella del femminismo della differenza, assai distante quindi dalle mie posizioni) sono rimasta parecchio isolata, o comunque con ben pochi contatti, solo alcune amiche. Ma questo è, credo, anche un tratto del mio carattere.
Ma torniamo allo scambio sessuo-economico.

Vi sono situazioni più egualitarie di altre, delle sperimentazioni o dei tentativi che rimettano in discussione la struttura?

Ci sono tanti rapporti tra uomini e donne, tra ragazzi e ragazze, tra uomini o tra donne che non sembrano implicare relazioni inegualitarie. O almeno non immediatamente. Ma se guardi nell’insieme delle relazioni sociali, prendendo anche quelli che sembrano i più liberi tra i rapporti, bè, lui resta un uomo e ha accesso a certe cose, lei, lei rimane una donna che sarà secondo le società più o meno gravemente stigmatizzata se ha mostrato una forma di libertà. E anche nelle società dove vi è una certa libertà sessuale nelle giovani generazioni, spesso le varie relazioni delle ragazze sono viste come qualcosa di positivo se vanno a sfociare in una vita “regolare”, se alla fine la ragazza imbocca la strada giusta dell’eterosessualità, magari felicemente riproduttiva, all’interno della generale situazione di disparità tra i sessi.

Si arriva alla questione degli intrecci dei rapporti di potere: l’omosessualità implica un rapporto di genere, la scelta di una sessualità non eterosessuale: per gli uomini c’è una posizione dominante dal punto di vista del genere e nella sessualità una posizione dominata.

Ma un omosessuale maschio non ha una posizione dominata rispetto a una donna. I gay restano degli uomini, senza dubbio stigmatizzati, ma come uomini in posizione diversa da quella delle donne.  Per giunta se guardi le omosessualità, l’omosessualità femminile ha avuto nella storia una posizione ancora più nascosta. Detto così c’è senza dubbio una semplificazione eccessiva Ma di fatto non si sfugge facilmente alla struttura generale della società. Però tutto questo andrebbe discusso assai più a fondo e io non sono in grado di dire che delle banalità. Tanto più che non ho lavorato su questo.

Nel libro vi sono effetti di struttura talmente forti che si ha l’impressione che gli individui siano prigionieri della struttura: certe relazioni non sono degli scambi sessuo-economici ma lo possono diventare perché le donne hanno uno statuto inferiore o dominato. Si possono prendere delle relazioni senza seguito, le relazioni multipartnerariali tra uomo e donna, come esempio.

Se prendi come esempio i club di scambisti dove le donne non pagano l’ingresso e gli uomini sì ha già in effetti un’allusione al fatto che è una relazione che riguarda la sessualità maschile. Pagheranno magari il locale, ma è una specie di eco indiretta, è vero, dello scambio sessuo-economico. In ogni modo non sono certo luoghi di sessualità egualitaria.
Ma il mio problema sono le relazioni dove c’è lo scambio. Vi sono società dove gli scambi economico-sessuali sono la regola, è un fatto strettamente connesso alla divisione sessuale del lavoro. Nelle società industrializzate dove le donne trovano più mezzi per guadagnarsi da vivere, anche se hanno più difficoltà di accesso al lavoro che gli uomini e lavori meno interessanti, vi sono certo situazioni senza scambio. Quando ero sposata anch’io ero senza dubbio in una situazione di scambio, mio marito lavorava, aveva uno stipendio, questo mi ha permesso di fare l’università. Era qualcosa di assolutamente normale, come invisibile, apparentemente senza peso. In altre relazioni che ho avuto non è stato così. Erano relazioni brevi o lunghe, forti o meno, secondo… ma dove ero totalmente indipendente. Indipendente nel senso specifico che non vi era scambio sessuo-economico. E non si tratta di un caso eccezionale. Ma in che modo la sessualità sia pure fuori dallo scambio restasse comunque all’interno  di una struttura di dominio, questa è tuttavia un’altra questione e una questione senz’altro da discutere.
Il rapporto nel matrimonio implica un rapporto economico, di fatto un rapporto di scambio tra moglie e marito con tutto ciò che questo significa dal punto di vista di tutti I rapporti sociali e della posizione sociale. E’ un fatto generale con effetti assai specifici : data infatti la posizione generale subordinata delle donne, vi sono ripercussioni evidenti anche nei casi in cui sono le donne ad avere più soldi, un impiego più importante e così via. Hochschild (2003) in un’interessante saggio sulla gratitudine, analizza casi di questo tipo e mostra chiaramente come le donne debbano, o, in ogni caso, cerchino di compensare, quasi far perdonare, la propria posizione più elevata, si può dire “irregolare”.

L’epidemia di Aids ha avuto influenza sulla tua ricerca? 

No. Salvo che ha reso la sessualità un soggetto di ricerca possibile. Prima dell’Aids uno non poteva quasi dire che stava facendo ricerca sulla sessualità. Anche nelle università americane, come sottolinea Carol Vance (1991), la sessualità non era un soggetto conveniente, tanto che veniva assolutamente sconsigliato ai giovani ricercatori. L’Aids ne ha fatto un terreno di ricerca. La sessualità è diventata un soggetto accettabile. Sono usciti studi importanti. Ho così potuto vedere molti materiali interessanti.

Questo è entrato anche nell’agenda politica dei movimenti.

In effetti i movimenti politici femministi e gay sono stati fortemente presenti. E’ diminuita la distanza tra movimenti politici, militanza e ricerca e gli studi sulla sessualità hanno cambiato di orientamento. Come scrivono Gagnon e Parker (1995), con la nuova ottica basata su una prospettiva costruzionista l’interesse si è spostato dagli atti sessuali dei singoli corpi ai contesti sociali e culturali della sessualità. E il mio lavoro ha tratto beneficio da questa importante evoluzione degli studi.

 

Nota 1 Ho studiato però anche manifestazioni di un altro rapporto di potere basato anch’esso su un’ideologia della «natura» (Guillaumin 1972), il razzismo tra i bambini (e gli adulti) in Italia, cfr. Tabet  La pelle giusta, Einaudi 1997. Un discorso malauguratamente attuale anche oggi.

Nota 2 Insomma sarei in qualche modo un “red diaper baby” (bambino dal pannolino rosso) come vengono detti negli Stati Uniti i figli di genitori comunisti o di sinistra (particolarmente del periodo maccarthista) a indicare un’educazione che segna fortemente e lascia una netta impronta politica.


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