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apparso su L'Unità del
28 luglio 2004 Molti passano il confine per comprare clandestinamente i suoi libri. Come il giovane che pochi mesi fa è stato arrestato all'aeroporto di Dacca perché nella sua valigia sono state trovate alcune copie dell'autobiografia «Ka» (Parla), uscita nel 2003 e subito messa al bando dal governo bengalese. La sua autrice, Taslima Nasreen, è nata nel 1962 da una famiglia musulmana a Mymensingh, nel Pakistan orientale, poi diventato Bangladesh nel 1971 con la conquista dell'indipendenza. Taslima dichiara apertamente il suo lesbismo, con lo stesso coraggio e con la stessa sincerità con i quali combatte contro le persecuzioni religiose e la riduzione in schiavitù sessuale delle proprie simili. Comincia a scrivere da adolescente, coltivando nello stesso tempo un forte interesse per la scienza. Laureata in medicina nel 1984, lavora per otto anni in ospedali pubblici; poi la passione per la scrittura prende il sopravvento. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 1986, e subito dopo si impegna, su vari quotidiani progressisti, in un'attività giornalistica di denuncia della crescente oppressione delle donne e della terribile escalation di violenza che si sta verificando nel suo paese. Infatti nel 1988 la costituzione del Bangladesh, che in precedenza vantava tra i suoi valori fondanti il laicismo, viene emendata per proclamare l'Islam religione di Stato. In seguito a questo processo regressivo, la minoranza indù comincia ad essere ferocemente perseguitata. Taslima diventa una protagonista della resistenza intellettuale agli attentati contro la libertà. Nel 1990 i fondamentalisti islamici lanciano una campagna contro di lei, devastano il suo ufficio al giornale, l'aggrediscono parecchie volte, manifestano invocando la sua impiccagione. E quando lei, nel romanzo «Lajja» («Vergogna», 1993, pubblicato in Italia da Mondadori), racconta con estremo realismo le atrocità che costringono brutalmente una famiglia indù, nell'arco di tredici giorni, ad abbandonare la terra nativa, l'organizzazione «Soldati dell'Islam» la colpisce con una «fatwa» (la condanna a morte scagliata anche contro Salman Rushdie nel 1989) e mette una taglia su di lei. Il governo vieta la vendita delle sue opere, le impone di smettere di scrivere e le ritira il passaporto. Taslima non rinuncia
alla parola, viene processata e condannata alla prigione. Per sottrarvisi
si nasconde per due mesi, mentre sulla sua testa si accumulano altre due «fatwa»
con relative taglie. Riesce ad espatriare e a rifugiarsi in Svezia. Corpo e cuore li rivolge alle donne. In uno dei suoi poemi, canta: «Ho rivolto il mio cuore verso le donne / ho rivolto il mio corpo verso le donne./... Perché ora so / che solo le donne / possono salvare le donne.» Afferma: «Detesto fondamentalismo, integralismo, fanatismo, settarismo». E definisce «Vergogna», il suo libro più famoso, «la testimonianza di una disfatta collettiva», ribadendo che «issare la bandiera della religione è sempre stato il modo più facile per schiacciare le persone, per umiliarne lo spirito». Giudica inattuali le
scritture religiose e rivendica un codice civile che garantisca
uguaglianza e giustizia per tutti: «Ogni seme di progresso verrà soffocato
dai mullah che vogliono la mia morte, se permetteremo loro di avere la
meglio... Sono convinta che l'unico modo di arginare il fondamentalismo e
la sua perversa influenza sia l'unità di chi crede nei valori
dell'umanesimo e del laicismo. Per quanto mi riguarda, niente e nessuno
riuscirà a zittirmi.» Neppure l'ennesima, recente condanna «in absentia» a
un anno di carcere da parte del governo del Bangladesh, né il rogo in cui
i suoi avversari, nel gennaio scorso, hanno bruciato la sua effigie, non
potendolo fare con il suo corpo; né la minacciosa «spada di Allah» sempre
sospesa sul suo capo. |