Il tema e il tempo

di
Donatella Bassanesi



Carla Accardi

 

Alla domanda "cos'è l'arte?" si può rispondere che, anzitutto, si sviluppa in uno spazio fisico e appartiene a uno spazio mentale. È azione (da ago-agere, uno spingere, far muovere). Ed è atto (actus, gesto e quindi rappresentazione, ha a che vedere con il teatro) ossia è spazio del soggetto.
È agente di emozioni, cioè di immediatezza.
Ritorna: è il soggetto che ri-torna su di sé ri-guardando. L'arte perciò si fonda sulla ripetizione (come infinite variazioni della percezione). È rivissuto. Il rivedere (nel doppio significato di vedere nuovamente e di correggere: la nuova visione modifica la precedente).

L'arte è anche una delle forme dal 'fare'. Sta nelle cose.
Perciò descrivere le opere è 'smontarle' e poi rimontarle, e vedere se funzionano.

È una delle forme del fare che non serve a niente, o serve il niente. Cioè un silenzio. Serve a creare uno spazio altro, una lingua altra che, come quella filosofica, non propone risposte, interroga.
Questo spazio altro può, e chiede di essere indagato, non come parte di un tutto, ma parte di un mondo che si coglie per parti.

Significa ricercare il senso, nelle cose e negli intervalli (nel silenzio).
Riconoscere le linee come realtà prime, il segreto che affiora in forma cifrata. Sapendo che i segni 'respiravano' prima di essere presi nelle reti della ragione (che è fondamentalmente logos, parola). E che di quel 'respiro' che esisteva prima di essere oggettivati, quando erano soggettività libera, il segreto affiora proprio tra le maglie di quella ragione nella quale sono presi.
Perciò i segni, pur catturati e diventati oggetti, si rivelano inquieti.
Non si danno che per cancellarsi, corrispondono all'interruzione, al doppio senso, alla ripetizione. (J. Derrida, Aporie, Milano, 1999).

L'arte, infine, come lettura del libro cosmico è decifrazione di un codice archetipico.
In questo senso è coesistenza dei contrari, il pulsare della vita, movimento cosmico, espansione e contrazione dell'essere (W. Blake).

Può essere intesa come "patto tra la luce e l'ombra". Lo scrive Maria Zambrano che continua, a proposito della pittura: "tale sembra essere nel suo fondo originario la pittura. Non si tratta però di origine nel senso dell'inizio, della sua nascita, ma del fondo intimo e duraturo che costantemente la ispira, e che è ciò che cerchiamo" (Maria Zambrano, Luoghi della Pittura, Milano, 2002).

L'arte (le arti) è dunque ricerca di senso.
L'arte è un percorso di conoscenza, come la filosofia. Filosofia che non è sapienza, è amore (filia) di sapienza (sofia).
L'arte, in quanto percorso di conoscenza è ricerca della verità.
Ma la verità si svela rivelandosi. Cioè noi abbiamo l'impressione di coglierla quando sta ri-velandosi (ricoprendosi con il velo), lo s-velamento (il velo tolto) è avvenuto prima, quando non ce ne siamo accorti. Perciò il pensiero non è mai puro pensiero, l'astratto non è assolutamente astratto, è una meta.

L'operare artistico dunque come atto primigenio non riducibile al caos, è farsi opera dell'origine.
Essenziale è analizzare gli elementi primari. E innanzitutto quello originario, il punto.
Il punto geometrico, essendo invisibile è "un'entità immateriale".
"Nello scorrere della scrittura "il punto è il simbolo dell'interruzione, del non essere (…) e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (…). Questo è il suo significato interno nella scrittura".
"Pensato materialmente (…) equivale a uno zero".
Ed "è il più alto e assolutamente l'unico "legame tra silenzio e parola", "appartiene al linguaggio e significa silenzio" (ibid. pp. 17-18).
Dunque dall'originarietà del silenzio deriva ogni possibile parola (il logos).
L'artista si deve porre come scopritore di un mondo sconosciuto.
Ascoltare la risonanza interiore di una linea è scoprire gli elementi di un linguaggio primordiale, rigenerare il mondo. Il mondo, privato della relazione con l'oggetto, è riportato all'origine, è messo a nudo. E poiché l'origine è una, ogni 'segno', ogni 'senso' (vista, udito, tatto, gusto) corrisponde a un altro, risuona in un altro. Il gruppo pensa che sonorità e colori, movimenti, segni si influenzino, si corrispondano. E anche tutte le arti "provengono da una medesima e unica radice. Di conseguenza, tutte le arti sono identiche" (W. Kandinsky). Una, risuonando nell'altra, è strumento di lettura dell'altra.

L'origine è tensione verso la generazione - "la genesi è l'essenza dell'opera", "per sempre resterà imponderabile e incommensurabile": "dal battito del nostro cuore, noi siamo sospinti più giù, verso il fondo, l'origine" (P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Milano, 1959).
Dunque dall'originarietà del silenzio deriva ogni possibile parola (il logos).
L'artista si deve porre come scopritore di un mondo sconosciuto.


Seconda questione: Cosa significa interpretare opere?

Interpretare opere è situarle nel tempo e nello spazio: sono le tracce recenti (e il soggetto come soggetto del presente che parla il 'linguaggio' del nostro mondo) quelle che fanno risuonare per noi il lontano, che è-non-è quello spazio-tempo.
Proviamo a pensare chi è, in generale, l'interprete.
È chi traduce da una lingua all'altra. Ma è anche l'attore che interpretando fa rivivere un testo, il suo agire è trasporre, trasferire, far rivivere.
Si tratta dunque di 'tradursi' dal proprio soggettivo (mio, vostro, di ognuno) tempo-spazio (noi che siamo qui ora) in quello del testo (il tempo-spazio dell'opera cioè dell'arte, e il tempo-mondo in cui si colloca l'opera).
Quello che noi facciamo interpretando è una rilettura, una ripetizione che dissolve l'opera come realtà separata, prova a ri-crearla. Ed è un ricercare.
Così gli interpreti sono insieme ascoltatori e attori. Agiscono nel doppio significato di ascoltare e di dire. E l'opera, che sta come oggetto e come interpretazione, è perciò opus, che è poi il lapis (la pietra filosofale, la mutazione del metallo in oro, che Jung dice essere il processo di conoscenza di sé, del sé, la parte più profonda e inconscia).
Perciò interpretare non è un fatto puramente soggettivo.
Il parlare non può essere puramente affermativo, deve esserci un rimando (una reciprocità) di interrogazioni. E si deve riconoscere come in ogni affermazione sia nascosta una domanda. Perché la domanda precede sempre l'affermazione, cioè l'affermazione è la risposta provvisoria di una domanda (che la precede).

Oggi, un'agonia prolungata senza decesso?
"Oggi non si inventa perché non si vuole sapere, si rifà - nelle arti - il verso a questo o a quello. Si è principiato, sul finire degli anni Settanta, col rifare la metafisica di de Chirico, poi si è andati sul liscio con i surrealisti, si è continuato con l'astrattismo e l'informale.
Se accettassimo la paura per ciò che è successo in passato, non avremmo bisogno di far finta che il passato può essere presente. Ma noi rimoviamo, reprimiamo, viviamo per delega (…).
La rimozione del passato significa che una parte della nostra vita è perduta. La visione inibita del futuro, la visione del futuro come perdita, porta solo quello che lo psichiatra-filosofo Ludwig Binswanger avrebbe indicato come una 'propensione melanconica'.
Finiremo tutti, negando il mondo di cui facciamo parte, in un delirio di immagini e rappresentazioni trascorse, in un'agonia prolungata senza decesso" (L. Vergine, Arte: utopia o regressione, Milano, 1992, p. 14).

Il rilievo di Lea Vergine, che la paura di ciò che è avvenuto nel passato produce oggi rimozioni che chiudono possibilità future, ossia un futuro consapevolmente affrontato come possibile futuro, non subìto come "un'agonia prolungata senza decesso", è una prospettiva da cui non si può sfuggire.

E tuttavia rimangono frammenti di possibilità intorno ai quali ha senso ragionare.
Uno di questi frammenti può essere quell'opera d'arte che è il rapporto instaurato da Carla Lonzi (critica d'arte) con Carla Accardi (artista).
Fissato in una scrittura che è trascrizione dal registratore di dialoghi sull'arte. È il vuoto che intercorre tra i corpi, gli avvicinamenti e gli allontanamenti di queste due donne a costituire l'opera.

L' arte come colloquio, mostrare "come sei in rapporto agli altri" è il suggerimento di Carla Accardi, che attribuisce "un valore straordinario" al registrare interviste e mostrarle. Ma "non sono mai state considerate produzione artistica, diciamo, nel mondo: l'hai capito cos'è terribile? Inventare…" (C. Lonzi, Autoritratto, Bari, 1969, p.39).
È il vuoto che intercorre tra il corpo dell'autrice e dell'interprete a costituire un'opera.
Così Carla Lonzi (femminista e critica d'arte) si mette in relazione con l'altra (Carla Accardi, artista) mettendo in gioco il senso del suo essere critica d'arte.
Afferma che "il critico, invece di essere colui che è disponibile e ha bisogno, diventa colui il quale giudica e crea tutta una gerarchia"(ibid. p.47). Ma "invece di essere un emissario della società il critico doveva essere proprio un emissario dell'artista" (ibid. p.78).

Denuncia così il "controllo repressivo" del critico "sull'arte e sugli artisti".
Si tratta di un modo di contenere l'arte considerata "un accessorio, un problema secondario, un pericolo da trasformare in diversivo, un incognita da tramutare in mito", "attraverso l'esercizio della critica, che opera sulla falsa dissociazione: creazione-critica" (ibid. p. 7).
Così la dissociazione creazione-critica, che partecipa del generale processo di ruolizzazione attraverso il quale le disuguaglianze vengono trattenute in simmetrie statiche, rende il critico il giudice che determina il successo, rende prodotto che si definisce dal ritorno economico, l'opera d'arte, toglie perciò all'opera d'arte il suo valore (di interpretare il mondo).
E "l'atto critico completo e verificabile" che "è quello che fa parte della creazione artistica" (ibid. p. 5) - perché "l'artista è naturalmente critico, implicitamente critico, proprio per la sua struttura creativa" (ibid p.6) - diventa ininfluente.

Per Carla Accardi i critici hanno inventato l'idea del consumo in arte, ma non se ne sente veramente toccata. "Io capisco che siamo in una società consumistica, però non lo sento proprio attaccato alla mia pelle il consumo (…). A me, questo consumo velocissimo ancora non m'ha toccato" (ibid.p.30).
Forse perché quella per l'opera è una passione. "Il grande amore per la pittura può essere proprio questo grande amore, passione…": "quando finisco un periodo in cui lavoro molto, penso sempre 'ho finito, non so se dipingerò più, se ricomincerò a dipingere' " (ibid. p.71).
Ciò che le importa è essere presente. "Se per un momento perdo l'interesse il pensiero se ne va" (ibid. p. 12). È l'"atteggiamento vitale di voler capire, stare a contatto con le cose" (ibid. pp.26-27).

Per Carla Lonzi è stata "la consuetudine con gli artisti, il parlare insieme, l'ascoltare" a chiarirle come "non c'è critico che possa interessare l'artista in merito, proprio, del lavoro" (ibid. p. 6). Così si ritrova attratta e insieme ridicola, ad esercitare un'attività (quella di artista) non appartenendovi. "Sono forse diventata artista? Posso rispondere: non sono più un'estranea. Se l'arte non è nelle mie risorse come creazione, lo è come creatività, come coscienza dell'arte" (ibid. p.8). Ed "è probabile che ho provato interesse per gli artisti perché mi sembrano (…) i meno dissociati (…) quelli che hanno meno un senso di disaccordo" (ibid. p.45).
E allora, potrebbero esserci per l'umanità "delle possibilità molto forti (…), sensazioni di apertura, come se fossero possibili delle cose straordinarie tra gli esseri (…). Allora io da questa mia sensazione esistenziale, ho cominciato a cercare (…) mi consideravo, diciamo, una persona di frontiera, che non era entrata nel paese, ma insomma, sapeva che questo paese esisteva" (ibid. p. 42).

Essere una persona di frontiera, è essere ad una frontiera, dunque rivolta verso l'altro, che ti interroga, che ti mette nella condizione di mutare. È ricerca di sé altra, significa dare corpo al possibile, disporre la realtà frammentaria rilevando il possibile degli innumerevoli ordini che la compongono. Nell'attraversare il frammento, si ha movimento di sé da sé che costituisce, insieme, la ricerca del centro (il proprio centro) e lo sfuggire il centro (il sé), e la ricerca di senso - perché ogni opera non è compiuta, va compiendosi intorno all'interpretazione.