Intorno alla memoria
con Tzvetan Todorov
e Eyal Sivan

di Donatella Bassanesi

 

L’incontro-seminario a Milano alla Casa della cultura con Tzvetan Todorov e Eyal Sivan – progettato da Maria Nadotti, introdotto da Fulvio Papi – si è tenuto sul filo dei temi presenti nel film Izkor, les esclaves de la memoire (di Eyal Sivan, Francia, 1991).

È proprio il film a suscitare già nel titolo la questione delle catene immobilizzanti con le quali può essere trattenuta la memoria, che fissano in un non-luogo e non-tempo assoluti e indifferenti.

Così essere schiavi della memoria corrisponde a quella fissità del ricordo nella quale la coincidenza di sacralità e banalizzazione si produce come ideologia (quella falsa risposta alle questioni del presente la cui funzione repressiva permette di conservare privilegi).

La memoria usata per sacralizzare è per principio una trincea, un assoluto, sta in tutti e in nessun luogo. Al contrario di un fatto che occupa un tempo e uno spazio unici.

Così la sacralizzazione risolve con un assoluto l’analisi puntuale dei fatti e le responsabilità morali proprie, svia l’attenzione dalle questioni del presente, convince della propria buona coscienza (con la commemorazione rituale viene confermata un’immagine negativa degli altri e un’immagine positiva propria). Simmetrica all’atto di vendetta esonera da un giudizio su di sé, e non permette di interrogarsi.

Essere schiavi della memoria conduce alla sua sacralizzazione, e alla sacralità come fattore protettivo, garanzia di sicurezza. È perciò arroccarsi, e allontanare da sé quel punto di rischio che corrisponde al passo, all’andare di ogni singolo, si riferisce alla materialità delle storie personali, all’insieme delle loro contraddizioni, ai conflitti interni a ciascuno. Corrisponde a una schiavitù rispetto a una forma di potere che immobilizza la memoria.

E quando la sacralizzazione ha come complementare la banalizzazione (con una assimilazione abusiva del presente al passato, quando avvenimenti del presente perdono specificità e vengono assimilati al passato) allora possono realizzarsi i fatti peggiori (così sono stati agiti i massacri recenti).

Avviene, afferma Eyal Sivan a proposito dell’essere israeliano e dell’essere ebreo, che la vittima (l’ebreo) sia uccisa dall’israeliano (il vincitore). Avviene perciò, nell’incatenamento del passato a quella rigidità sacrale che lo toglie alla sua materialità e contraddittorietà, una specie di suicidio.

Qui i termini sono molto importanti: non si tratta di uno che ha vinto un altro che è stato da lui vinto, ma di una sostituzione di un vittima con un vincente (mettendo in primo piano uno o l’altro, di volta in volta). Questo rende anche possibile alla vittima di fare un’altra vittima: il palestinese, che è vittima di una vittima (‘vittime delle vittime’ è il nodo evidenziato da Eyal Sivan: i palestinesi vittime degli israeliani che in quanto ebrei sono stati vittime).

Così la vittima che si assolutizza in un raddoppiamento di se stessa si pone fuori dal tempo e da un luogo, e pone la questione dell’assoluto. La sua assolutezza (che sta nella atemporalità in cui si colloca) diventa trasformabilità in martire, figura simmetrica a quella dell’eroe (che è la trasformazione atemporale, e sacrale, del vincente).

Assoluto che ha il potere di immobilizzare. Rende schiavi in quell’isolamento e di quell’isolamento che è mancanza di relazione. L’altro è cancellato perché è stato posto fuori dal proprio orizzonte. Le possibilità sono cancellate dall’incatenamento a una memoria statica.

Ma dentro il tempo, quando c’è un vinto c’è un vincitore.

Considerare la memoria come espressione del tempo (ossia del presente) è riferirla a quel doppio, vincitore-vinto, la cui opposizione si colloca proprio intorno al potere. (il potere che immobilizza attraverso la memoria, e la memoria che ha il potere di immobilizzare).

Il vincitore possiamo vederlo come l’eroe, a cui corrisponde il vinto, lo schiavo (Todorov).

Ambedue sono collocati (dalla vicenda che li ha uniti) a una distanza abissale, incolmabile. Uno dall’altro è separato.

E tuttavia c’è differenza.

Il vincitore si definisce come tale a ragione del vinto ma non può intrattenere con il vinto una relazione, annullandolo come vinto può vederlo ma non può avere con lui una relazione. Una volta vinto, finita la contesa, non può che mancarlo, e gli manca.

Invece il vinto, per la sua posizione bassa, terrestre, vedendo il vincitore nella sua parte d’ombra, intrattiene, indirettamente, con il vincitore una relazione (che in quanto relazione è tra pari).

Poiché “le simple est double”, e “le dernier atome, indivis, est faut de deux” (T. Todorov, Notes d’un souterrain, in: Les genres du discours, ed. du Seuil, Paris, 1978, p. 153), la parte inferiore immersa schiava sta nella relazione maestro-schiavo – che non ammette un terzo, che pone il maestro, la parte emersa, come superiore rispetto a una inferiore che tuttavia si esercita, e non può che esercitarsi “sur des égaux” (ibid. p. 149).

Così “l’homme souterrain n’existe pas en dehor de la relation avec autrui, sans regard de l’autre. Or n’étre pas est un mal plus angoissant encore qu’étre un rien, qu’étre esclave» (ibid. p. 153).

L’uomo sotterraneo è veramente l’ombra, il niente schiavo-che non può che esercitarsi sull’uguale. In quanto parte della relazione è interprete, sta in quell’intreccio tra memoria e oblio che è farsi figura nei tracciati che sono scavati nell’oblio stesso.

Lungo i margini la memoria si perde come assoluto immutabile. Rivelando la parte d’ombra si mostra come interpretazione. Quindi mutevole, continuamente si ricrea, eppure riporta alla materialità dei fatti.

Cosa significa allora essere schiavi della memoria è la questione che Eyal Sivan, come dicevamo, pone in relazione agli ebrei e agli israeliani.

Del fatto che gli ebrei (i vinti) sono stati vinti nella trasformazione in israeliani (vincitori). Israeliani che perciò sono prima di tutto i vincitori su ciò che erano, cancellatori paradossalmente della propria storia che apparentemente esaltano, che continuamente sottolineano nell’osservanza delle tradizioni e nell’attualizzazione dei miti. Questo significa guardare la storia da parte del vincitore, ossia da quella parte che annulla l’altro. Mentre, al contrario, è il vinto (la parte immersa e schiava) a comprendere nel suo ‘tessuto’ quel doppio che è la relazione (quella relazione che è maestro-schiavo).

Dunque è l’essere ebraico (fatto schiavo dall’israeliano vincitore), sotterraneo, a poter essere interprete della coppia oppositiva ebreo-israeliano.

E la domanda: cosa significa essere ebreo? (Eyal Sivan risponde: è sapere di esserlo) ha una risposta profonda, non manifesta. È una risposta che si colloca in un silenzio che è più profondo di quello dello schiavo rispetto al vincitore, più profondo di quello dell’ebreo vinto dall’israeliano. E per questo silenzio profondo l’israeliano non ha forse veramente completamente annientato l’ebreo.

 

20 aprile 2006