I tram di notte
di Lea Melandri


Helen Wilson

I tram di notte parlano lingue straniere e, al tempo stesso, famigliari.

Spesso sono proprio i suoni e le intonazioni dal significato incomprensibile a tracciare le linee di un paesaggio che ci accomuna agli altri esseri umani, al di là delle culture e delle appartenenze diverse.

Il popolo dei lavoratori immigrati, che di giorno si muove invisibile negli interstizi della città, nell’ora in cui si chiudono i negozi esala come un vapore colorato dalle bocche delle metropolitane e trasforma i mezzi di superficie nella grande casa del mondo. Se non ci si lascia prendere dallo smarrimento e dall’ombra minacciosa che sembra portarsi dietro ogni “forestiero” che appare improvviso all’orizzonte, la memoria non tarda a riconoscere, dietro la diversità di un colore di pelle o di taglio degli occhi, figure di parenti.

La città “rende liberi” ma anche smemorati, e tocca agli ultimi venuti ravvivare il ricordo di un paese, di una campagna, di un interno di famiglia, caduti fuori dal tempo per troppo dolore o per insopportabile nostalgia. Il contrappunto delle voci che finalmente possono alzarsi senza timore, sicure dell’indifferenza complice del passeggero vicino, porta l’eco di dolori, fatiche e speranze che attraversano quasi senza variazioni la storia dei singoli e dei popoli, racconta di quella piccola morte e rinascita che è l’abbandono del luogo dove si è cresciuti, evoca angosce, umiliazioni, e la felicità di incontri inattesi.

Mondi che si sono fatti la guerra, il Nord e il Sud, la città e la campagna, seduti accanto nell’atmosfera ovattata del tragitto sospeso tra la stanchezza del giorno e il tempo del riposo, scoprono inavvertitamente di avere passioni condivise, corpi segnati dalle stesse ferite, ricordi che parlano la stessa lingua.

La xenofobia insidia oggi una convivenza che si fa ogni giorno più difficile, divisa dalle crescenti disuguaglianze sociali e dall’incrocio di culture diverse. Più si stringono vincoli di bisogno reciproco e più si fa intima la vicinanza, in quel corpo a corpo che è la cura di un malato o di un anziano, più si ingigantisce la figura dell’ “intruso” posto ambiguamente tra la nostra morte e la nostra sopravvivenza.

La tentazione di separare con un taglio netto il “noi” e il “voi” è la minaccia che incombe su una collettività che vede il lontano farsi sempre più prossimo, l’estraneo divenire famigliare, e ciò che è proprio perdere la nettezza dei suoi confini.

Desertificando la storia e la memoria, il fantasma del “nemico” che turba i sonni dell’Occidente, rischia di cancellare l’unica terra su cui gli umani possono riconoscersi al medesimo tempo simili e diversi.
 

questo articolo è apparso su D di Repubblica il 12 dicembre 2005