Pubblichiamo
questo saggio, rielaborazione in forma scritta a partire dall' intervento
dell'autrice alle quattro giornate di ricerca e approfondimento che l'
"Associazione culturale Nemus" ha organizzato presso il
"Centro Candiani" di Venezia Mestre, nell' aprile-maggio
2004.
TRAPASSO
(UNA LETTURA DI GENERE)
di Donatella Bassanesi
La decisione
di rischiare
Scrive Stefano
Maso: "Decisione originaria di esporsi e di arrischiarsi è
quella che possiamo definire come rischio esistenziale, quel rischio cioè
essenzialmente appartenente al soggetto in quanto consente al soggetto
di essere appunto soggetto che esiste come soggetto: insomma, più
radicalmente, è il rischio 'essenziale'" (S.
Maso, Rischio, Venezia,
2003, p. 43).
È il soggetto che rischia esponendosi alla luce dell'origine, o
meglio ponendosi in quel punto 'di nascita' tra oscurità e luce
(è come l'acqua della sorgente quando esce dall'oscurità
della terra e viene gettata lontano).
Derivando da una decisione, corrispondendo a un passaggio dell'essere,
io rischio colloca il soggetto (come intenzione, un tendersi) verso-in-contro
la realtà data, al centro il caso. Per la tensione che lo spinge
(verso la realtà che intende cambiare, da cui è cambiato)
il soggetto attraversa quello spazio in cui si trova il caso. Caso che
può essere colto (diventa atto) oppure no: asse di un equilibrio
sempre nuovamente da ricercare, di un limite lungo cui arrischiarsi. Caso-giudice,
attraverso cui si pesa la forza dell'intenzione e la realtà modificata
(si pesa la forza dell'intenzione per mezzo della realtà modificata,
e la realtà modificata per mezzo della forza dell'intenzione).
Quando ci si decide è per l'origine, "il celato fondamento
di ogni natura" (F. Holderlin, Sul tragico, Milano, 1980, p. 68),
e "dal battito del nostro cuore, noi siamo sospinti più giù,
verso il fondo, l'origine" (P. Klee, Teoria della forma e della figurazione,
Milano, 1959).
Ma l'origine non si colloca in un mitico passato. La percepiamo nel fenomeno,
perché originario è un "fenomeno originario (
)
non è un'idea su cui si possa sviluppare una teoria filosofica
o teologica. È piuttosto una cosa reperibile concretamente e 'materialmente',
in cui coincidono significato (
) e apparenza o fenomeno, parola
e cosa, idea e esperienza" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, Bologna,
1981, p. 122).
L'origine ha reso ciascun uomo e ciascuna donna in tensione, in movimento
(che è il susseguirsi ritmico di sbilanciamento e di ritrovamento
di un punto di equilibrio, deriva da asimmetria e da simmetria). Movimento,
che si regge per desiderio e si realizza per sbilanciamento, si riferisce
a figure abissali che si protendono verso il vuoto, tra essere e non-essere.
Fa profondamente in componibili i differenti. E rende, per altro verso,
a ciascun uomo e a ciascuna donna il passo, che è movimento ed
è equilibrio.
Equilibrio, che nasce nel movimento e implica sia asimmetria sia simmetria,
è ricerca dell'equilibrio, si rivela nell'istante e immediatamente
dopo si perde (come la verità che infatti è un percorrere,
rimane come tracce di passi, passa). È punto tra due sbilanciamenti,
o meglio è punto in cui in un certo senso si ha inversione del
movimento. E per essere punto in cui si può afferrare il caso,
si ha metamorfosi del tempo: il tempo ne esce trasformato.
Questo punto di equilibrio sempre da ricercare, che unicamente nell'istante
mostra simmetria e si fonda sull'instabilità, non può essere
tradotto in forma statica. Perciò la simmetria, separata artificialmente
dal movimento e dall'asimmetria che l'hanno prodotta, divenuta espressione
massima di stabilità, è un inganno. È l'inganno con
il quale si intende 'naturalizzare' un sistema (quello delle complementarietà)
che è una struttura di dominio posta a neutralizzare il movimento
delle differenze, o meglio il movimento dei differenti (differente è
il soggetto, chi si sta portando altrove, si sta spostando da sé),
un sistema che sono gabbie (un sistema di gabbie), intricate complicità,
competizioni sorde, conflitti irrisolvibili che si alimentano di sé,
giochi di potere tra le parti.
È la lacerazione, che è origine, è originarsi (sentirsi
mancare, svanire nell'immagine evanescente e scomposta dell'altro, di
sé nell'altro, di sé altro, è staccarsi verso il
molteplice) a produrre quel movente-movimento che è salto. E quel
salto che il caso indurrebbe a fare, è senza pace, conduce eccentricamente.
Ed è rischio. Dell'essere differente che è tensione, il
movimento attraverso cui scorre l'anima - che è ricerca non di
una verità consistente, ma di senso (W. Benjamin e H. Arendt).
Rischiare è dunque decidersi e attraversare il dolore di quella
ferita che è separazione, quel sentiero che anima, mette in movimento
(movimento che è trans-gradior: attraversare, necessariamente trasgressivo,
sposta il soggetto, rende altro, dilata lo spazio e il tempo). E d'altra
parte, a ragione del movimento, anche la realtà data (necessità)
scontrandosi con la volontà del soggetto (desiderio) risulta insieme
spostata e modificata. Si è modificato "il contesto di riferimento",
c'è "differenza tra il prima e il dopo", si è
prodotta "una diversione, rispetto al ritmo dell'azione" (S.
Maso, cit., pp. 108, 110).
Rischiare è parte essenziale dell'azione (azione che appartiene
al soggetto ma necessariamente si riflette sulla realtà data).
In quanto azione si colloca all'inizio, alla fine, e sta in mezzo tra
inizio e fine.
Un'azione rischiosa ha un movente. Implica qualcosa che finisce. Con il
passare del tempo l'azione rischiosa per conservarsi tale deve rinnovarsi.
Cioè si fa un passo.
Rischio è dunque passo, l'andare. Cioè continuo sbilanciamento
e ritrovamento del punto di equilibrio, che sempre nuovamente si perde.
Ed è proprio il punto di equilibrio (del perdersi e del ritrovarsi)
a essere determinante. Perché è il tempo in cui si trova
il caso, quell'evento imprevisto, quell'istante che si può cogliere
oppure no, a ragione del quale ci si muove (ci si decide) oppure si sta
fermi. Ossia il caso-occasione (kairòs) si traduce in tempo-istante
del possibile.
Movente è l'occasione colta, è dunque attimo di equilibrio
in cui il caso si trasforma in possibilità. Movente centrale. A
cui ci si avvicina quasi senza accorgersi, che si coglie inconsapevolmente,
che solo a posteriori si riconosce. Che tuttavia non è stasi, non
è riposo, è attimo impercettibile scatto inversione di un
movimento-tempo, perciò è metamorfosi e pur essendo in posizione
centrale segna un inizio - inizio che è dunque sempre passaggio
tra due stati dell'essere, pur essendo punto di equilibrio non è
stasi, è teso disorienta: iniziare è rischiare, rischiare
è tenersi in equilibrio.
Rischiando ci si gioca qualcosa per raggiungere qualcosa d'altro.
Uno scambio, ma non di equivalenze. La legge della contrattazione e dello
scambio pari non vale.
O si vince o si perde. Oppure si vince qualcosa e si perde qualcosa d'altro
- che è scambio comunque impari, perché acquisire e perdere
sono misure incomparabili, staccarsi da qualcosa (conosciuta) non è
accogliere (ciò che non si conosce), è solo la mediazione
del denaro o un processo mentale a rendere, con una misura che tuttavia
rimane costantemente da ricercarsi, un'equiparazione, che in realtà
è una scommessa.
Si tratta dunque di un doppio movimento.
Un doppio movimento anche perché c'è un punto in cui si
rompe l'equilibrio (con lo sbilanciamento non c'è simmetria); e
c'è un punto di equilibrio che rivela la simmetria, una simmetria
che immediatamente prima e immediatamente dopo non c'è.
Così il soggetto, che entra nel movimento (prodotto da asimmetria)
che è "eccentricità del pensiero a se medesimo destabilizzante"
(S. Maso, cit. p. 103), sempre nuovamente cerca il punto di equilibrio,
che è "capacità di rivelazione del discorso e dell'azione
(
) quando si è con gli altri" (H. Arendt, Vita activa.
La condizione umana, Milano, 1999, p. 131).
Il soggetto non sa esattamente cosa rischia nel momento in cui rischia.
Perciò bisogna affrontare la paura, quella certa paura che risente
dell'ignoto, partecipa dell'attendere e dell'imprevisto, è una
paura che può trasformarsi in gioia. "Non sapevi dunque che
la gioia è in realtà uno spavento di cui non temiamo nulla?
Si percorre uno spavento da un capo all'altro, e la gioia sta proprio
lì. Uno spavento di cui non si conosce solo l'inizio. Uno spavento
in cui si ha fiducia" (R. M. Rilke, Fragments en prose, Paris, 1929).
Il rischio lo si intuisce. Non è possibile misurarlo prima. È
possibile misurarlo dopo: dalla prospettiva del pericolo. Dalla fine perciò,
quando si è perduta gran parte della percezione del rischio ed
è rimasta quella del pericolo, sopraggiunto o evitato.
Rischio e pericolo sono incommensurabili come vuoto e pieno, quando c'è
uno non ci può essere l'altro. Sono perciò collocati in
tempi diversi, la distanza che li divide è abissale, per questo
abissale sono trattenuti da una sorta di tensione (come quella che c'è
tra immaginazione e realtà fattuale). Appartengono anche a due
luoghi, uno interno (rischio), l'altro esterno (il pericolo).
Tuttavia si trovano in qualche modo in un rapporto consequenziale: il
pericolo induce al rischio, chi rischia si è deciso ad affrontare
il pericolo.
E possiamo anche dire, pur essendo il pericolo misura del rischio, c'è
una misura che accomuna rischio (io rischio) e pericolo: è la paura,
che è sentimento del soggetto. Cioè anche il pericolo viene,
attraverso la paura, soggettivamente vissuto (immaginato). Per questa
paura unità di misura spesso rischio e pericolo vengono confusi,
tra le due parole c'è ambiguità.
Tra rischio e pericolo c'è dunque una differenza sostanziale. Ma
anche una sorta di consanguineità.
Così sembra di vedere un gioco dell'avanzare e del fuggire. Un
luogo dell'essere in cui si affrontano rischio, pericolo, sicurezze (che
riducono i pericoli, bilanciano i rischi, attenuano le paure), paura (che
deriva dal rischio e dal pericolo, li misura), coraggio (ha a che vedere
con la forza, lo slancio, l'agilità) è "padronanza"
ed "è sempre appannaggio dell'altra mano, di quella che non
scrive, capace di intervenire al momento opportuno, capace di afferrare
la paura e di allontanarla" (M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino,
1967, p. 11).
Se fosse un gioco di scacchi, la 'mossa', il movimento rischioso, per
il suo aspetto spiazzante, sarebbe la mossa del cavallo, cambia il gioco.
Unità
tematica
Qui (in questo
convegno, sotto questo tema) sono state affrontate le articolazioni del
sapere passando per una unità tematica, le discipline in un certo
senso si confrontano, misurano la loro capacità di lettura (di
interrogazione e di interpretazione) del reale, si affacciano oltre i
propri confini, provano in qualche caso a 'parlare', o almeno ad 'ascoltare',
altre lingue.
Ci si potrebbe domandare se quello che noi abbiamo chiamato il pensiero
delle donne in una situazione di confronto come questa si trovi in posizione
sfavorevole o favorevole. Se in un certo senso non finisca per trovarsi
troppo 'esposto', in qualche modo impreparato a un gioco al quale, d'altra
parte, è stato raramente invitato a giocare. Oppure se proprio
accettare di esporsi richieda una decisione, uno sforzo, uno slancio,
che è rischio (la messa in atto del tema stesso).
Si potrebbe dire che il pensiero delle donne è mettersi in quella
prospettiva particolare che è il 'genere' (implica la questione
mai risolta della differenza uomo-donna che interviene in tutte le differenze).
La storia delle donne e degli uomini mostra due livelli di esistenza ricondotti
artificialmente ad un sistema di complementarietà, di false simmetrie
(che tuttavia rimangono in un conflitto tragico e senza indifferenza).
Una falsa pacificazione, una stasi improbabile.
Nella composizione attraverso la quale si ritornerebbe all'unità
come fondamento, c'è una forzatura evidente, perciò "la
ricerca va portata molto lontano, fino all'iniziale atto di dominio attraverso
il quale il maschio ha preso il potere sulla femmina e lo ha chiamato
'natura'" (R. Rossanda, intr. Sofocle, Antigone, Milano, 1987, p.
50). E questo non solo e neanche tanto per un senso elementare di giustizia,
ma perché forzati, uomini e donne, avvertono le vite chiuse in
un involucro che li tiene stretti e senza movimento, perché si
ha sottrazione del possibile.
Il binomio uomo-donna come risoluzione in complementarietà è
esemplare: 'naturalizzazione' di un fondamento sociale diventa esempio
attraverso il quale si intenderebbe rendere l'uno all'indifferenza, e
cardine di un principio inteso come natura. Ma l'idea stessa del divino,
che si può articolare nel due, non mostra complementarietà.
Cronos il tempo che è Dio padre, si fa presente sia nella figura
della morte che è ex-statica, è caos da cui si muove il
tempo, sia in Zeus "Dio dello stato" (F. Holderlin) che è
tempo dello stato. E Derida osserva: "se Dio è (probabilmente)
un uomo per la dialettica speculativa, la deità di Dio - l'ironia
che lo divide e lo scardina - l'inquietudine infinita della sua essenza
è (forse) femminile", e nota anche: l' "eterna ironia
della comunità (
) rovescia l'universalità dello Stato"
(J. Derrida, Glas, Paris, 1974, pp. 211, 210).
È Diotima, la straniera - che "definisce Eros non un dio ma
un demone, l'abbisognante figlio di Povertà ed Espediente, Penìa
e Poros" - a ricollocare "i due sessi in posizione non neutra
e non gerarchica; due e demonicamente investiti da Eros" (R. Rossanda,
ibid. pp. 52, 53). La tensione che li spinge, a distanziarsi e ad avvicinarsi,
è desiderio di sciogliere il nodo. Nodo che tiene in quella gabbia
(concorre a costituirla: i ruoli, la complementarietà). Giocandosi
l'altro pone il rischio che è desiderio.
Il pensiero delle donne si potrebbe anche dire che è un pensiero
che risente di una certa estraneità e insieme di una certa tensione
verso le discipline. Le attraversa, interviene ponendosi ai limiti, a
volte formando intrecci, a volte collocandosi in un nodo.
Sono sentieri in un certo senso labirintici. È arrischiarsi ad
uscire dalle nicchie (parzialmente rassicuranti) delle discipline, non
è risolutivo, è capace di entrare, momentaneamente, nella
storia, nel tempo, scompigliando le carte. È una tensione che non
ponendosi un obbiettivo certo, fermandosi di fronte ai particolari, accetta
la confusione, le intuizioni, le ambiguità del vissuto.
È porsi nel luogo di nascita, come separazione, decisione, inizio,
ripercorrendo le origini (che si trovano in ogni segno, suono, parola,
movimento, tempo).
Quello che abbiamo cercato è di riconoscere, attraversando le fondamenta
su cui si sono costruiti (costituiti) gli ordinamenti (le città),
quella gabbia che ne è la struttura e rende le differenze delle
disuguaglianze ordinate in simmetrie, fermate in falso equilibrio. E abbiamo
provato ad evidenziare i punti nodali, quelli che legano, che tengono
nell'impotenza (e nel potere, suo simmetrico ed equivalente), abbiamo
voluto farlo perché sono il luogo in cui la struttura si rivela
meno compatta, luogo di crisi, dove traspare un'assenza, ciò che
non c'è, che non sappiamo se appartiene a un centro vuoto, a un
luogo altro, che potrebbe essere sopra, sotto, e che si presenta come
il caso, l'occasione.
Sono decostruzioni, è guardare nelle pieghe, le incrinature, i
vuoti.
Significa ripescare i frammenti da cui proveniamo, sottolineando l'appartenenza
alla terra - il senso del creare (ghìghnomai) ha a che fare con
la terra (ghéa,): creatura è ghénos, principio e
origine è ghénesis - e il vuoto in mezzo.
Entrando "nelle profondità del passato non per richiamarlo
in vita così come era", ma "per aiutare il rinnovamento
di epoche già consumate", nella convinzione "che il mondo
vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione
sia insieme anche un processo di cristallizzazione (
), che nella
'protezione del mare' - nello stesso elemento non storico cui deve cedere
tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e
formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono
e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come
'frammenti di pensiero', come frammenti o anche come eterni 'fenomeni
originari' " (H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit. p. 170). Così,
attraversando il vuoto che sta tra quei frammenti, affacciarsi al possibile.
Una domanda
riguarda il presente
Una domanda
mi è stata fatta, è tornata più volte, come un'urgenza,
una chiave del presente.
La voglio mettere qui, in posizione centrale, come asse del discorso e
come caso che interroga e giudica il presente.
La domanda riguarda le soldatesse-torturatrici dell'esercito americano.
Non rendono superata una specificità (una distanza da) delle donne?
Direi che
la domanda (asse del discorso proprio in quanto domanda), richiedendo
e poiché intende chiedere risposta, rivela per un verso il peso
del problema che pone, e per un altro l'intenzione di alleggerirsi del
peso della cosa (res pondus) attraverso la risposta. Ma il peso della
cosa - così spostato (la risposta può convincere oppure
no, ma una risposta pur sempre c'è) - pur essendo passato per l'apparente
scioglimento del dilemma (è l'effetto rassicurante della soluzione
opposto all'inquietudine della domanda), infine torna al mandante (l'interrogante)
che aveva cercato, con la domanda, di liberarsene.
Una risposta è uscita dai luoghi delle donne. La risposta è
stata: questo avviene quando le donne vogliono emanciparsi.
Si potrebbe provare a ragionare intorno ai percorsi di emancipazione,
quelli a cui viene attribuito comunemente un significato positivo, di
buon inserimento nella realtà sociale: potrebbero rivelarsi non
solo acquisizione di diritti per le donne o adattamento alle necessità
del presente, ma anche contro-faccia rivelatore delle crescenti zone di
povertà delle società ricche (i ruoli sociali, diventati
generalmente più permeabili, adattati al presente, potrebbero mostrare
sotterranei processi, anch'essi di matrice emancipazionista ma in negativo,
come uno scorrimento verso il basso, è ciò che le torturatrici
soldatesse americane starebbero a dimostrare).
Ci sarebbe da domandarsi quale legame ci sia con il generale processo
di omologazione, che per le donne è passato per l'integrazione
e anche l'emancipazione.
Aggiungerei perciò io una domanda: nella spettacolarizzazione,
in cui ogni evento viene reso prodotto da essere immediatamente consumato
e velocemente scomparire affinché la memoria posa venir distrutta
e sia fatto posto ad altro, è possibile pensare a qualcosa che
frammenti un mondo compatto e oppressivo? Detto in altri termini: i processi
di omologazione non hanno così ampliato i limiti da rendere irreale
ogni movimento, la possibilità di essere differente, che è
appunto spostamento da?
Tutto ciò riguarda l'anima dell'occidente (la seconda parte del
titolo del convegno).
Si potrebbe complessivamente osservare che abbiamo visto mettere in atto
"la logica della legge umana" che "comanda di non fare
assolutamente ciò che comanda assolutamente di fare: la guerra"
(J. Derida, Glas, cit. p. 167).
Guerra preventiva è stata chiamata una palese violazione del diritto
evidentemente intrapresa per imporre la 'teoria dell'impero' teorizzata
dal presidente americano G. W. Bush.
Ha evidenziato come un potere che tende ad essere sempre più dominante
si sia potuto imporre contro un'opinione internazionale molto ampia, sia
stato in grado di mobilitare un esercito che si è sovrapposto come
una realtà incompatibile a un popolo a una nazione, e, all'interno
di una macchina distruttiva, in una oscurità allucinata, ci abbia
fatto assistere a scene (in video che hanno girato il mondo) di soldati
che torturavano, all'abbattimento dei più elementari diritti umani.
Soldati e soldatesse americani sembravano operai del crimine. In un certo
senso apparivano insieme eccitati ed estranei a ciò che facevano.
In alcuni casi avevano una sorta di indifferenza annientata-annientante
verso l'oggetto del loro lavoro. La complicità si rivolge fuori,
verso la telecamera, una sorta di messa in scena dell'orrore e della morte.
Una danza macabra (guidata anche con un certo piacere?) nella quale, come
fossero maschere, soldati violentano, aizzano cani feroci, soldatesse
umiliano, irridono le vittime private, prima ancora che della vita, della
forza di continuare a esistere.
È avvenuto qualcosa, portato dal democratico occidente, che non
avevamo pensato sarebbe stato possibile, che a posteriori è sembrato
incredibile. Quasi alla luce del giorno, in realtà alla luce degli
obiettivi delle macchine fotografiche, oggi, ripeto nel democratico occidente,
si può chiedere a uomini e anche a donne di eseguire pratiche di
asservimento, violenze attuate al fine di nientificare l'altro (l'uccisione
non è un obbiettivo dichiarato, piuttosto un derivato, un incidente
di percorso, comunque, finché non appare alla luce del giorno,
irrilevante).
Gli aguzzini, sia gli uomini che le donne, indifferentemente, dicono di
aver obbedito agli ordini.
Hanno creduto di doverlo fare? Volevano farlo? Cosa è avvenuto
prima, quali soglie hanno (prima) attraversato per arrivare a torturare?
Si potrebbe dire che 'la teoria dell'impero' ha creato le condizioni (di
insicurezza, di povertà) utili alla formazione di volontari, giovani
pronti a fare quel lavoro 'sporco' che richiede obbedienza cieca, sorda
e muta.
Si vedono così 'prodursi' soggetti in cui la passività si
riferisce tutta all'accettazione dell'ordine, e l'attività viene
canalizzata in aggressività, una rabbia cieca e distruttiva alla
ricerca di una vittima: il potere totalmente sottratto si è trasformato
in divorante ansia di potere. Anche per le donne?
È possibile rendere il rischio-io rischio chiave interpretativa
di questo particolare evento?
I torturatori, rimovendo e spostando le loro annientate identità
(le loro paure, un orrore di sé che consapevolmente non provano)
sull'altro da annientare, si collocano (di fronte a questa realtà
data la guerra) come intenzione. Dunque, quali motivi e quali ideologie
sono stati la spinta ad accettare questo lavoro 'sporco'?
Avrebbero potuto dis-obbediere (negare ob-udienza, cioè ascolto
sottomesso, sottrarsi all'ordine, trarsene fuori). Avrebbe significato
la decisione di mettersi in gioco, cioè l'intenzione di rischiare.
Rischiando si decide qualcosa (ci si de-cide da qualcosa) e si modifica
la realtà.
Separandosi dall'ordine ricevuto, disobbedendo, avrebbero colto la loro
occasione, avrebbero visto il volto dei prigionieri, sarebbero passati
per quel centro che permette di 'cambiare strada', di arrischiarsi al
di là di sé.
Ma l'altro non hanno voluto vederlo, non hanno voluto riconoscerlo, non
hanno voluto incontrarlo. Hanno perso quell'appuntamento che è
incontro, appartiene "a quell'ordine, secondo cui si muovono le stelle
e si fecondano l'un l'altro i pensieri" (H. v. Hofmannsthal, L'ignoto
che appare, Milano, 1991, p. 274).
Si è avuta subordinazione, e il risultato della subordinazione
è stato cancellare la dignità di soggetti: qui tutti sono
sub-iecti, sottoposti - ma non indistintamente: ai prigionieri sono stati
lesi i diritti umani, per i torturatori c'è responsabilità,
su di loro pesa l'intenzione della cosa, sono res-ponsabili.
Così i prigionieri (l'occasione che avrebbero potuto cogliere soldati
e soldatesse americani), che sono il centro - "al centro vi è
la lotta e la morte del singolo" (F. Holderlin, Sul tragico, Milano,
1980, p. 55) e "Dio è presente nella figura della morte"
(F. Holderlin, Remarques sur Oedipe, Remarques sur Antigone, Paris, 1965,
p. 79) - non solo vittime, diventano giudici, che giudicano, in quell'incrocio
che è il non-tempo.
Dove si situa quella linea sottile che è vuoto (quando i tempi
bui distruggono il ricordo e il futuro, quando il passato ha cessato di
far penetrare la sua luce nel futuro) ci appare un mondo reso sordo muto
e cieco dalle violenze esercitate. Maschere grottesca, ombre di viventi,
stendono un'ombra sulle loro vittime.
In questo orrendo gioco della guerra e delle torture abbiamo visto in
azione donne. È normale, o più normale la presenza di uomini?
E tuttavia, perché non si sono rifiutate? Perché non è
sembrato grave quello che veniva loro chiesto di fare? Perché non
hanno sentito una contraddizione tra sé e pratiche di annientamento?
Perché non si sono sentite umiliate? Quanto c'è di adesione
alla datità? Quanto ha giocato la paura verso chi sta fuori della
propria casa, verso lo straniero? Quando e come la paura verso il mondo
esterno si è trasformata in ostilità che è anche
indifferenza?
Antigone
e Penelope
A proposito
del rischio (e della sua forma estrema l'azzardo), una questione che appartiene
al soggetto, proprio per essere il soggetto, insieme, singolarità
e suddito (sottoposto, condizionato da), affronterò ora Penelope
e Antigone.
Sono-non-sono due donne. Poiché stanno nel passato - e nel passato
si confondono i tipi di esistenza reali e irreali che appaiono ugualmente
reali e insieme irreali (J.-P. Sartre).
Ognuna di loro ha inciso una traccia. La profondità della traccia,
la forza con cui ritornano, è la loro vivezza.
Segnali e segni di luoghi dell'essere, pongono la questione del limite
e del suo tendersi verso l'illimitato, attraversando il (io) rischio.
Cercherò di indagare la questione della disobbedienza e dell'obbedienza,
alle leggi scritte e alle leggi non-scritte.
Proverò a misurare l'intensità del gioco che gioca ognuna
di loro, ricercando cosa mettono in gioco, quando vincono, quando perdono.
L'azzardo
di Antigone
Antigone
(che per essere tragedia segna il punto più alto del mistero della
civiltà greca) riguarda lo Stato e i legami più stretti,
e ha come soggetto l'amore tra i vivi e i morti, un movimento eccentrico.
Quella mutazione enigmatica che crea l'origine, il silenzio dell'origine.
Perché l'altro si presenta come infinita ripresentazione dell'assenza
quando per un momento brilla il segreto che sta nella cesura attraverso
cui qualcosa è profondamente cambiato, si è avuta metamorfosi
del cuore.
Delle tragedie è la più profonda e oscura. Qui il silenzio
dell'origine è silenzio degli dèi: "in questa tragedia
terrena gli dèi non ci sono, non intervengono" (R. Rossanda,
cit. p. 16).
Conclude il ciclo di Edipo. Ma Sofocle probabilmente la scrive dieci anni
prima del primo Edipo. Procedendo a ritroso il racconto, si altera il
movimento del tempo e Antigone viene indicata come testimone e interprete
prima dei fatti.
Verso
lo Stato
All'origine
si riferisce Antigone, che non è destinata a custodire il focolare
(i riti, la tradizione). Se ciò che è logos è scritto
negli ordinamenti della città e ciò che non è logos
sta nel cuore della città, l'origine è il principio come
principio nel quale è compresa la fine (di una vita, di un atto):
"l'origine è la meta" (K. Kraus). È tempo come
in-stante (ogni istante, nel quale nascita-morte si rispecchiano). Luogo
in cui la massima appartenenza è estrema lontananza.
Perciò Antigone non occupa né custodisce il centro, se non
come ritorno a sé. Per desiderio di centro che è ineliminabile
funzione del gioco. Per ritornare al centro che è "assenza
di gioco e di differenza" (e "non è un altro nome della
morte?") (J. Derida, La scrittura e la differenza, Torino, 1971,
p. 380).
È il corpo di Polinice, morto-morte che è il caso, morte
che implica l'intervento degli dei sotterranei che stanno al centro, giudicano
(sono il corpo morto di Polinice) a spingerla a guardare oltre le mura
(lo spazio) della città, come a misurare i suoi ordinamenti a confronto
con un tempo nel quale passato e futuro si riflettono, uno spazio che
comprende, si fonda sull'altro, anche l'altro che verrà, che non
c'è ancora, di cui intuiamo la venuta.
Riguardo
allo Stato si può dire che è tragedia della disobbedienza
(Rossanda).
Da una parte l'etica della polis di Creonte e dall'altra quella assoluta
e pura di Antigone (Hegel).
Antigone, per corrispondenza al divino mondo degli antenati, comprendendo
il giudizio degli dei sotterranei (non vuole lasciare insepolto il fratello
Polinice), è interprete (come il coro) delle voci dei custodi del
niente (essi stessi appartengono al niente) che "danno al conflitto
infinito la direzione oppure la forza, come organi sofferenti dell'essere
in lotta col dio" (F. Holderlin, Remarques
cit. p. 83).
Il suo è "delirio sacro (
) la più alta manifestazione
(
) della bellezza (
) sorgente dell'anima nel suo travaglio
segreto" (F. Holderlin, Remarques
cit., p.73).
Si colloca in un luogo che è prima del conflitto. Da quel luogo,
in quel tempo-non-tempo, si oppone, perché non c'è possibilità
di agòn tra informalità dell'eterno e presente, c'è
creatura (la possibilità di creare, di far trasparire, rendere
trasparente il tessuto) .
Diventa, o si svela, anti-agòn.
Perciò il suo non è odio: "durante l'odio tutto è
distorto e contrastante" (Diotima nel Simposio di Platone). Non si
getta nella mischia, e tuttavia è pronta a "compiere azioni
fuor di misura", il suo è "lucido furore". "Hai
cuore ardente per cose che raggelano" dice Ismene ad Antigone (Sofocle,
cit. v. 88). Come Edipo, sa sostenere il vuoto del cielo senza fondo perché
ha cuore fermo.
È tessitrice d'amore, come dice l'Arpia: "Tessitrice tu, col
tuo andirivieni da una terra all'altra. Col tuo andirivieni dai vivi ai
morti. Da quella Legge dell'Amore che tu sola conosci a quella del Terrore
cui tutti, guarda, sappilo, si attengono" (M. Zambrano, La tomba
di Antigone, Milano, 1995, p. 95). E questo perché era nata "non
per condividere odio, ma per condividere amore", "Afrodite,
la dea, non combatte: gioca" (Sofocle, cit. v. 524 e vv. 800-801).
Perciò, ponendosi in quell'incrocio vita-morte che è amore
- una forza che anima, risorgente, non appartiene interamente al mondo
dei vivi e neppure al mondo dei morti, collega gli uni agli altri, sta
in quel non-tempo, in quella tensione verso il possibile che appunto è
amore - è come Cybele. "Precede e accompagna. Assiste a tutte
le catastrofi, le sconfitte, le carneficine e resta invulnerabile. La
sua stessa morte non la tocca" (J. Derida, Glas
cit., p. 210).
"In una creatura così compiuta, infatti, essere e vita non
possono venir separati, nemmeno dalla morte" (M. Zambrano, cit. p.
60).
Antigone non riconoscendo l'ordine di Creonte non riconosce l'ordine di
Zeus che impone l'etica della polis e la sua tirannia, ha fondato il mondo
dei vivi imponendo una separazione "che non solamente erige un limite
tra questa terra e il selvaggio mondo dei morti, ma forza più decisamente
verso la terra lo slancio panico eternamente ostile all'uomo, slancio
sempre in cammino verso l'altro mondo" (F. Holderlin, Remarques
cit., p. 79).
Disobbedendo contrasta di Creonte il suo incarnare l'etica della polis,
e il suo essere tiranno. Il gesto di pietà per cui è pronta
a morire è anche gesto che intende allontanare l'orrore dalla città,
perciò non ascolta ragioni, non giustifica l'atto di dominio: perché
iniquo è l'atto originario di dominio.
Creonte al contrario è obbediente perché rispettoso delle
regole di Zeus.
Non comprende tuttavia il giudizio degli dei sotterranei, perciò
disobbedisce.
Eppure Antigone "si lamenta con la voce acuta di un uccello addolorato
che ha visto il fondo del nido vuoto, predato dei piccoli" (Sofocle,
Antigone, Milano, 1987, vv. 422-426). L'aveva ammonito Tiresia (il veggente,
il custode della potenza della natura che trascina eccentricamente verso
la sfera dell'altro): "Pensaci; ora cammini (
) sull'affilato
rasoio della sorte", "odo un grido incomprensibile di uccelli
che, con malevolo furore, stridono nel loro linguaggio barbaro (
).
La città è malata per tuo volere. Altari e bracieri sono
tutti contaminati dal cibo strappato da cani e uccelli al morto, al misero
figlio di Edipo. Perciò gli dèi non accettano più
da noi preghiere e sacrifici". E il figlio Emone gli aveva detto:
"Tu governeresti bene, da solo, su una terra vuota" (Sofocle,
cit. vv. 1015-1020 e v. 739).
Creonte nega 'esistenza' al morto Polinice - senza sepoltura non starà
né tra i vivi né tra i morti - possiamo pensare che soggiace
a un odioso e squallido errore (Eckermann, Colloqui con Goethe, Torino,
1957).
Possiamo pensarlo un criminale (A.W. Schlegel), possiamo anche pensarlo
come detentore di un dominio divenuto assoluto immobile tirannico. E tuttavia
Creonte non agisce per ottuso desiderio di potere. Agisce nel senso di
religioso timore di fronte a quel destino rappresentato da Zeus (per il
quale è fondativa la regola di non venir governati da donne). Così,
semplicemente, attingendo alla "legge del giorno, (
) pubblica,
visibile, universale" quella che "regola (
) la città,
il governo, la guerra", ha dimenticato "la legge divina"
che "si nasconde (
) è notturna" (J. Derida, Glas,
cit. p. 161).
Indicando "l'insopportabilità di essere governato da una donna"
(R. Rossanda, cit. p. 54) - "bisogna difendere quanto ordinato dall'autorità
e non lasciarsi vincere da una donna; se si deve cadere, meglio per mano
di un uomo: non si dica che soggiacciamo alle donne" (Sofocle, cit.
vv. 677-680) - Creonte mostra di sé certamente il "momento
più basso, il suo mancare di argomenti (
) prova della sua
(
) stoltezza ed errore" (R. Rossanda, cit. p. 54), ma ribadisce
che la regola va onorata, anche se la città risulta devastata proprio
a ragione del principio etico che avrebbe dovuto garantirla.
Così, perché quell'etica possa conservarsi 'vera', bisogna
cancellare Antigone. "Scelga lei, o di morire, o di restare sepolta
viva in quella dimora; noi riguardo a quella ragazza, siamo innocenti;
solo le sarà negato di vivere quassù, insieme ai vivi"
(Sofocle, cit. vv. 886-890), è il verdetto di Creonte, che rimane
vero per gran parte dei suoi interpreti (perciò in questo senso
rimane vero): perché il mondo dei vivi risulti comunque fermo,
in ordinate simmetrie.
Antigone, per il principio etico della polis a cui ha disobbedito, privata
"del diritto al desiderio come della libertà di desiderare"
(J. Derida, Glas, cit. p. 185), da Creonte che ha diritto (negoziando
con la legge) di imprigionare e di rilasciare, di chiudere e aprire quella
porta oltre la quale egli stabilmente abita, viene condannata all'oscurità
(non avendo negoziato con mediazioni).
In questo punto i due si rivelano rappresentazione della disimmetrica
e imprigionante relazione donna-uomo che affonda nella negazione del desiderio.
Ma Creonte, decidendo di nascondere alla vista della città Antigone,
con la volontà di sopraffarla, non può impedire il possibile
che vorrebbe negare, le rende la possibilità di essere altra, rende
altra l'altra. Una freccia, che ha riaperto la ferita originaria, porta
Antigone colpita verso una alterità di sé con sé
creante: qualcosa da lì nasce. L'oscurità verso la quale
si inoltra si illumina - "Quest'altra luce che non ho mai visto ma
che sento sempre più via via che divento cieca" (M. Zambrano,
cit. p. 117).
Spinta, o meglio provocata dall'altro - che tuttavia non le è propriamente
nemico: Creonte rappresenta la "negazione del desiderio", "l'istituzione
contro il flusso desiderante dell'io" (riferendosi a un seminario
di Lacan: R. Rossanda, cit. p. 14) - diventa, a ragione del caso (il fratello
Polinice morto e insepolto) e in forza della propria cieca veggenza, altra,
passa per l'origine, si origina.
Il cieco vedere, che permette ad Antigone di opporsi all'ordine di Creonte,
di affacciarsi oltre la sua legge, si situa non lungo quella legge (non
aderisce alla legge) ma lungo la sua riga di sangue - "io sono passata
sulla riga e l'ho oltrepassata, l'ho di nuovo passata e ripassata, andando
e venendo dalla terra proibita" (M. Zambrano, cit. p. 76).
Perché è condannata all'oscurità risale lungo l'oscurità
della sorgente - fonte che "non è costituita, non essendo
nel mondo, né da un corpo (
) e neanche da un'anima (
)
non appartenendo alla totalità delle cose che esistono, che sussistono
per lei e di fronte a lei, questa fonte non è nulla, quasi nulla"
(J. Derida, Margini - della filosofia, Torino, 1997, p. 362) - con il
suo movimento all'indietro verso ciò che precede, verso ciò
che è pura possibilità precedente ad ogni espressione, diventa
anti-theos, cioè a-theos (athea), "riconosce fuori stato lo
Spirito dell'Altissimo" (F. Holderlin, Remarques
cit. p. 77).
Lei assetata - e "essere assetato (alteré), è divenire
altro: corrompersi", è "lasciarsi moltiplicare o dividere
dalla differenza dell'altro" - ritrova imprigionata nelle fondamenta
stesse della città la sorgente, che è il luogo dell'origine,
che originandosi, uscendo alla luce diventa sorgente.
Percorre quella strada all'indietro che è "dissetarsi purificarsi
(se désalterér)", "ritornare a sé, ritrovare,
con la pura trasparenza dell'acqua, il miraggio sempre operante di quel
punto sorgivo, di quell'istante dello sgorgare" (J. Derida, Margini
,
cit. pp. 355, 356). "Lì berrei dell'acqua, dalla radice oscura
dell'acqua" (M. Zambrano, cit. p. 70).
Attingendo a quel non-luogo che è rimasto imprigionato nel fondamento,
vede ciò che traspare nelle incrinature, nei punti di rottura del
fondamento stesso, vede ciò che non è visibile, lancia il
suo avvertimento (la sua vita) oltre la città, perciò sta
ai limiti del mondo.
Da quel nulla rende alla città la possibilità.
Due
Antigone
e la sorella Ismene erano giocatrici: "era da giocarsi, da giocare,
il nostro gioco interminabile" (M. Zambrano, cit. p. 75). E Antigone
perdeva al gioco.
Tra l'una e l'altra, tra Antigone e Ismene, si gioca il gioco del trapassare
e del restare. Non procedono unitamente, una si avvia verso la vita e
l'altra verso la morte. E tuttavia, tra essere e non-essere, una è
l'altra dell'altra (non come i loro due fratelli dalla stretta identità/contrapposizione,
che si uccidono reciprocamente).
Questo è il segreto. "Il nostro segreto" (M. Zambrano,
cit. p. 76) (e il segreto, lo sappiamo, vale per coloro che unisce).
Il segreto unisce, rende una-due Antigone e Ismene. "Vestite tutte
e due di bianco" (M. Zambrano, cit. p. 75).
Unitamente costituiscono l'essere erotico (l'essere capace d'amore): una
vive per l'altra (perché l'altra ha accettato di morire), una muore
per l'altra (perché l'altra possa vivere).
Perciò, essendo una l'altra, uno è il segreto che è
"nel cuore come una freccia che la vita, implacabile, ha scagliato
sempre più in profondità, senza però riuscire ad
ucciderla. Finché, infatti, rimarrà nel suo cuore, ella
vivrà. Ma quando sarà estratta, dovrà morire"
(S. Kierkegaard).
E poiché il segreto "non è cosa da dirsi", "era
da farsi" (M. Zambrano, cit. p. 75), il segreto diventa "una
delle forme dell'esteriorità (
) precisamente il tempo".
Così lo spirito, che "è sdoppiamento, estraniamento
(
) per venire a se stesso"; si trasforma nella "varietà
(
) nel fluire (
) nel moto dello svolgimento", nelle "differenze"
che "sono i pensieri" (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della
filosofia, vol. I, Firenze, 1947, pp. 33, 45).
Pensieri-lampi in conflitto, attraversati da intuizioni che tracciano
e stracciano. L'una e l'altra si contrastano violentemente. Eppure si
assomigliano. Antigone (nel primo verso della tragedia) rivolgendosi ad
Ismene aveva detto: "O volto di Ismene, somigliante, fraterno"
(Sofocle, Antigone, cit. v.1).
Antigone e Ismene, ognuna singolare e frammento di un'identità
a cui è consentito vivere unicamente spezzata.
Sono in un movimento eccentrico, si muovono divergendo.
Ma si comprendono, distanziandosi non si perdono.
E non stanno in un rapporto di opposizione, intervengono (come vita-morte).
Distanze
abissali
Come figliesorelle
conducono Edipo - che si appoggia ad Antigone e cammina come cercando
la terra con un bastone ma rivolgendosi al cielo (nell'interpretazione
di Louise Bourgeois che si è vista alla Biennale di Venezia 2004).
Dal padrefratello, lungo le strade, imparano in un disperato sforzo di
equilibrio la luce nell'oscurità, il cieco vedere (la veggenza,
che è anche di Tiresia l'indovino, il consigliere inascoltato di
Creonte). Attratte e perdute vanno, fuori dalla città, nell'esilio,
dove sono le leggi non-scritte, dove, tra due fuochi (gioia e dolore),
appare la voce di tutto ciò che vive, l'ignoto che sta "prima
e fuori e dopo la civiltà", l'originario che è "il
nascere dell'individuale dall'infinito e il nascere dal finitamente infinito
o individualmente eterno da ambedue" (F. Holderlin, Sul tragico,
cit., p. 64). Imparando che vita si genera da morte - "Non ho mai
potuto pensare il pensiero della morte o l'attenzione alla morte, se non
addirittura l'attesa o l'angoscia della morte come altra cosa rispetto
all'affermazione della vita. Sono due movimenti per me inseparabili: un'attenzione
di ogni istante all'imminenza della morte che non è necessariamente
triste, negativa o mortifera ma al contrario, per me la vita stessa, la
più grande intensità di vita" (J. Derrida, Sulla parola,
2004).
La prossimità al padrefratello Edipo (anche Kierkegaard desidera
essere padrefratello, vuole avere la figliasorella, che "inizia a
vivere solo nel momento in cui la porto alla luce", "devo costantemente
guardare dietro di me per ritrovarla") comporta per essere rapporto
padre-figlia "affettività dello spirito" (J. Derida,
Glas, cit. p. 167), per essere rapporto fratello-sorella "il non-desiderio"
che "non è senza-desiderio di un rapporto non sessuale, è
un desiderio sospeso" (ibid. p. 184).
Antigone doppiamente straniera, che cammina ai margini del mondo dei vivi
- compagna del fratello Polinice morto, compagna di Edipo il padrefratello
(parola ambigua come quelle di figliomarito, di madremoglie per Giocasta)
- che per avere un padre fratello ha una madre che le è forse sorella.
Edipo che, esperto in giochi sapienziali, era caduto nella trappola della
Sfinge, aveva sciolto l'enigma ed era diventato re della città,
amante e figlio della regina. Che, in qualche modo, si era liberato dalla
trappola: come la volpe che per liberarsi si strappa la zampa, Edipo si
era strappato gli occhi. Così i suoi occhi rendono ad Antigone
lo sguardo che intende l'oscurità.
Antigone ascolta, in quel luogo tra essere e non-essere, nel deserto dello
spazio il ritmo dell'assenza, dell'attesa, cioè il tempo come possibilità,
tra assenza e ripresentazione.
Sprofondare è il movimento eccentrico di Antigone che si fa concentrico,
ritorno presso Polinice il fratello morto.
"Il mondo sotterraneo dello sprofondamento, simbolizzato dall'oscurità
fredda della tomba" contrapposto a "uno spazio lontano e sommo
della luce" (M Foucault, Il sogno, Milano, 2003); i sotterranei che
avevano spaventato Medea, dove viveva la regina di Corinto "avviluppata
dentro una fitta rete di voci terribili, nascosta efficacemente dietro
la sua inavvicinabilità", e il suo respiro sembrava "un
guaito appena udibile ma penetrante, poteva essere anche una bestia"
(C. Wolf, Medea. Voci, Roma, 1996, pp. 20, 23), non sono l'oscurità
di Antigone.
L'oscurità in cui si trova Antigone è quella di Edipo che
infine "è quasi assunto dalla terra" (R. Rossanda, cit.
p. 7).
Lei sembra cercare disperatamente un'altra luce. "Dovrei arrivare
ancora più in basso e sprofondarmi fino al centro stesso delle
tenebre, che chissà dove si estendono, per accendermi dentro di
esse. Perché io ho fiducia solo in quella luce che si accende dove
maggiore è l'oscurità, facendo di essa un cuore" (M.
Zambrano, cit. p. 118).
Trapasso
Non l'opposto,
non complementare di Creonte, Antigone compie il passo, il salto. Il suo
è trapasso, non opposizione simmetrica agli ordinamenti della città.
Anima la città. È la città che dall'oscurità
rinasce.
Abitando tra lo stato e il caos, partecipando dell'uno e dell'altro, passando
da una terra all'altra - "col tuo andirivieni da una terra all'altra.
Col tuo andirivieni dai vivi ai morti" (M. Zambrano, cit. p. 95)
- Antigone si presenta come mezzo, "il modo attraverso cui lo spirito
(
) passa dall'inconscio al conscio" (J. Derida, Glas, cit.
p. 192).
L'Arpia la chiama prudente come un ragno e tessitrice (M. Zambrano). Dunque
prudente è la disobbediente Antigone che è (col suo andirivieni
dai vivi ai morti) tessitrice, come Penelope, e che perciò ritorna.
È attuale in "tempi di crisi, di grandi inquiete domande",
fa parte di quelle tragedie che ritornano "come allusive, rivissute"
(R. Rossanda, cit., p. 12). Ed evidenzia (a noi oggi, lei tornando, perché
fa parte di quelli che restano oltre il tempo che era stato dato loro)
l'intreccio "di pubblico e privato, dell'esistenza individuale e
di quella storica", "fra gli eventi domestici e quelli pubblici"
(G. Steiner, Le Antigoni, Milano, 1990, p. 21).
La "divina Antigone, la più radiosa figura mai apparsa sulla
terra" (Hegel), 'lampo' da cui nasce la luce, non è divina
come Persefone, piuttosto è "estrema radice".
Recita il Coro: "Ora che l'estrema / radice delle case / d'Edipo
di luce / è inondata, la sanguinante / lama degli dei / inferi
ecco la falcia". "Luminosa e lodata tu dunque te ne vai alla
dimora dei morti (
) scenderai viva, unica dei mortali, nell'Ade"
(Sofocle, Antigone, cit. vv. 599-602 e vv. 817-818).
Per essere radice è anti-ghenos, precede ed è testimone
delle generazioni "che appaiono, scompaiono e si disegnano nella
trama variante della storia" (R. Rossanda, cit.). Ed è anti-ghenos
perché non genera, come destino-eternità custodisce la specie.
Posta in un non-luogo tra vita e morte, Antigone, "in remoti antri
allevata" (Sofocle, Antigone, cit. v. 985), si domanda "per
quali leggi, / me ne vado alla cella / sepolcrale di una strana tomba,
/ Ahimè, misera, né tra i mortali, né tra i / morti,
straniera agli uni e / agli altri" (Sofocle, Antigone, cit. vv. 848-852).
Fanciulla entra viva nell'Ade.
Mentre Sofocle la vede infine perdersi nella morte (l'ordine di Creonte
che la vuole nascondere ai vivi è per lei condanna a morte), Maria
Zambrano la vede andare nella separazione che infinitamente si ripete,
la lascia in un silenzioso colloquio con gli assenti, quelli che erano
venuti prima, da cui proviene come loro generazione.
Trapassando sta di fronte all'infinito dal quale ci si sente perduti e
attratti. "Rappresenta l'io, il sempre, rispetto alla collettività,
lo stato, l'oggi; l'informalità dell'eterno rispetto alla formalità
limitata del presente" (R. Rossanda, cit., p. 57).
"Si conduce più in là e al di sopra di se stessa".
Perché "nel momento in cui li raggiunge, infatti, la morte
occulta certi 'esseri' e altri ne rivela rivelando l'inestinguibile della
vita" (M. Zambrano, cit., pp. 62, 60).
Si direbbe che dalla morte lei torni sempre alla vita.
Quello di Antigone è un "continuo rinascere" quando "tutte
le cose cambiano le loro figure (
) sia tornando al caos, sia passando
a nuove figure" ((F. Holderlin, Remarques
, cit., pp. 83-85).
Sono gli echi di quelle leggi non scritte che si conservano nella terra.
Ed è "suprema / tra gli dei, la Terra", che conserva
"le leggi non scritte, ma infallibili degli dei", "da sempre
esse sono vive, e nessuno sa da dove attinsero splendore" (Sofocle,
Antigone, cit. vv 337-338).
Antigone, prestata alla vita più di ogni altra, ritorna perché
il suo è un messaggio che si svolge nel tempo (Holderlin ripreso
da Rossanda). Ritrovandosi, inventata, la sua è ex-stasi (sta fuori)
ed è eco.
Sempre ci propone l'azzardo.
Quell'azzardo detto nei versi di Rilke:"E quanto tempo abbiamo, noi
gettati nell'azzardo infinito! / chi siamo, lo sa solo la morte taciturna,
/ e sa quale guadagno ne trae quando ci presta" (R. M. Rilke, Sonetti
a Orfeo, XXIV).
Il rischio
di Penelope
Penelope
non varca le mura della casa.
Ulisse, tradotto in terre lontane, si distrae come seguendo un demone.
Ma Ulisse è anche conservato in immagine: che dalla città
è circondato, l'ossessione di Itaca. Tornando non dovrebbe trovarsi
cambiato (in un certo senso come se non fosse mai partito), Penelope vuole
che tutto possa tornare ad essere 'come prima', Ulisse sarà nuovamente
re e lei vera regina.
Possiamo pensare che Ulisse, ricomposto al suo fantasma, avrà dimenticato
il canto che scorre per i viaggiatori sul mare, il canto che commuove
gli dei sotterranei, gli dei del nulla (d'altra parte lo sapeva che avrebbe
dovuto dimenticarlo, quando si era fatto legare all'albero della nave).
Simmetrici, il re e la regina si affronteranno come due tori, sicuri della
loro forza (scrive Savinio nella sua opera teatrale Il capitano Ulisse,
Milano, 1989). E cadranno nella stessa trappola, dimenticando quel tempo-non-tempo
che si erano trovati a vivere, il silenzio dell'erranza, infine si accompagneranno,
e simmetrici si finiranno reciprocamente.
E tuttavia, quando erano accorsi i pretendenti a Itaca, per sfidarsi,
competere - la posta in gioco: Penelope, e il governo sulla città
- Penelope barava: non rispettava gli ordinamenti della città che
pretendevano la presenza di un re.
Rimandava la scelta attraverso la tela che ogni notte disfaceva. A cui
ogni giorno attendeva.
Penelope attende. Una doppia tensione: verso Ulisse perché ritorni,
e verso i Proci che chiedono di scegliere uno di loro come marito e re
di Itaca.
Questa doppia tensione la tiene ferma.
Perciò occupa il centro.
Ma la tela di Penelope è come una rete, flessibile permette di
intrappolare, è "trama invisibile di legami" che sono
le "armi privilegiate dalla metis" (M. Detienne-J.P.Vernant,
Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Roma-Bari, 1978, p. 32).
Penelope si rivela capace di metis. Prudente e astuta, bara, "non
cessa mai di intrecciare le due tesi contrarie" (ibid. p. 31), come
il sofista.
Il centro che occupa (ed è la sua prigione) è anche il luogo
da cui manovra la rete che è "la forma più fluida,
più mobile, ma anche più sconcertante, quella del cerchio"
(ibid., p. 32), accerchia, è imprendibile, come "acqua corrente
(
) scivola tra le dita dell'avversario" ed è "come
una trappola" (ibid. p. 33). Il cerchio "la cosa più
strana del mondo" (ibid. p. 36), "legame perfetto perché
interamente ripiegato e serrato in se stesso, che non ha né inizio
né fine, né davanti né didietro, reso dalla sua rotazione,
sia mobile che immobile, e che si muove nello stesso tempo in un senso
e nell'altro" (ibid. p. 35), unisce in sé "nella sua
curvatura continua e chiusa, diversi contrari, facendoli nascere l'uno
dall'altro" (ibid. p. 36).
Penelope perciò si prende gioco, per un suo gioco.
La questione di Penelope e di Ulisse apparentemente è finalizzata
alla affermazione di un principio di obbedienza (simmetrico, che perciò
lega, assoggetta): Penelope attende custodendo il focolare, Ulisse tende
costantemente verso Itaca, alla fine i due si incontrano, il gioco si
direbbe essere uno.
E tuttavia qualcosa è avvenuto. Al di là della volontà
di obbedire all'ordine della città, come per la distrazione di
un dio, per ciascuno un demone si fa avanti.
Penelope custodendo il centro lo svuota, ascolta il vuoto che è
nulla, ed è dove si origina il possibile. Disfacendo e rifacendo
la tela, rende impercettibili variazioni al disegno, il disegno per essere
lo stesso e differente si mette in movimento, il limite è costantemente
oltrepassato, si rivela il passaggio (il rischioso punto di equilibrio)
tra limite e illimitato.
Ulisse nell'inquieto e rischioso viaggio per mare si può dire che
conosca Metis (la prima dea del mare, in un certo senso all'origine di
Afrodite che ha per figlio un demone Eros), e che acquisisca metis (astuzia,
accorta prudenza) che è "più duttile, più ondeggiante,
più polimorfa del flusso del tempo", perché "soltanto
lo stesso agisce sullo stesso" e il mondo è "multiplo,
diviso, ondeggiante" (M. Detienne-J.P.Vernant, cit. pp. 12, 13).
Conoscendosi nel limite péras - che è forza centripeta,
inspirare, raccogliere-raccogliersi: il seme che è oikos: casa,
tomba, averi, famiglia, conservando ripete, e "lo spirito è
(
) il nome di questa ripetizione" (J. Derida, Glas, cit. p.
152) - toccando il limite, si arrischia oltre i limiti, àpeiron
l'illimitato (che è forza centrifuga, espirare, disperdere-disperdersi).
Così non solo è pantopòros (di grande e astuto ingegno,
come il coro nell'Antigone definisce in generale l'uomo), diventa incarnazione
di metis cioè polùmetis (dalle molte astuzie), e polùtropos
(dalle molte risorse), poluméchanos (dai molti artifici), polupaìpalos
(possiede le arti del cacciatore e del pescatore), perciò infine
intrappola in una rete i Proci.
Ma, per una tensione che lo spinge (è il suo respiro profondo),
trova l'inesauribilità dell'illimitato dove "stanno le cause
di differenziazione delle forme" (P. Zellini, Breve storia dell'infinito,
Milano, 1980, p.20) che tuttavia "sono sempre sul punto di confondersi
con la pura e semplice disgregazione della forma" (ibid. p. 19).
Ritornando porta con sé frammenti di altri mondi. Mai più
potrà essere interamente re di Itaca: la sua prospettiva si è
cambiata nel divenire (nel possibile).
Penelope per aver bruciato il centro disfacendo ogni notte la tela, Ulisse
per essere arrivato ai limiti del mondo, hanno seguito il loro demone
(che, per essere distrazione di un dio, si manifesta come passaggio del
puro possibile prima di ogni forma, conduce verso il molteplice). Sono
come re e come regina annientati (da involontaria disobbedienza all'etica
della polis). Rimangono separatamente come Ulisse e Penelope. La loro
obbedienza al dio della polis ha in sé una disobbedienza che è
obbedienza alla sua distrazione che è daimon, la percezione della
distrazione del dio.
Il movimento che ognuno dei due ha compiuto è stato passo. Ed è
stata la distanza (una dis-danza) a rendere ciascuno dei due differente,
a permettere loro il passo.
Luoghi
non-luoghi
Ogni volta
che c'è stata azione abbiamo visto presentarsi la questione del
rischio, e collegata la doppia questione dell'obbedire e del disobbedire,
dei rischi che inevitabilmente si corrono sia ad obbedire che a disobbedire.
Si è capito che ad ogni obbedienza corrisponde una disobbedienza:
si tratta di capire il gioco che si gioca e che cosa si mette in gioco.
Ogni notte Penelope disfa la tela - il lavoro è annullato, è
l'eterna fatica della sopravvivenza. Ogni giorno il suo è "dover
sempre e radicalmente cominciare da capo, come impone l'imperturbabile
mondo reificato" (Th. W. Adorno, Dissonanze, Milano, 1979, p. 50)
- ma poiché il tessuto è disfatto, Penelope, il cui tempo
è apparentemente uguale, ininterrotto, rassicurante, sta anche
in un tempo disatteso, interrotto, bruciato, un non-tempo, frammenti sempre
nuovamente distrutti. Rimane l'istante, gli in-stanti (le variazioni impercettibili
nel tessuto).
Sempre nuovamente iniziando, non si produce il tempo oscillante delle
stagioni.
Non essendoci una vera finalità (nel procedere del tempo l'attesa
è dell'inatteso) la sua attività in-definita ha un senso
suo proprio. Perché in-definita, la sua è creazione. E in
quanto creazione conduce all'annientamento temporale. (H. Arendt, La vita
della mente, Bologna 1987). È (come le parole) il contrario della
comunicazione verso l'esterno. È, come la verità, soprattutto
"morte dell'intenzione" (W. Benjamin).
La sua azione in questo senso non è operare, non serve, o serve
il niente, un vuoto che riconduce a un intimo colloquio con sé,
da cui provengono le forme, il solerte lavoro di continuamente disfare
perché possa prendere corpo, attraverso ritorni, impercettibili
variazioni, il tessuto.
Il centro è svuotato, è andato in fumo. "L'ago è
rovente, la tela è fumo" (E. Morante, Alla Favola, 1947, in:
Opere, Milano, 1988).
Favorita dal caso, aveva potuto frequentare quel luogo del silenzio che
accompagna uno spazio altro, un possibile diverso futuro.
Penelope, colei che ad-tende, agendo una tensione al niente si mette in
gioco.
Il suo vivere an-nientato (la tela continuamente distrutta) la dispone
ad ascoltare appunto il niente.
Ad-tendendo l'in-atteso lo schema omologante si è rotto, gli equilibri
precedenti finiti, si è prodotta un'asimmetria.
Per questo vuoto Penelope ascolta il silenzio. In questo tempo-non-tempo
si azzarda: dal passato (quasi dimenticato) verso il futuro (incerto)
ricreando continuamente, rendendo presente ciò che è assente,
trasformando ciò che non è più in ciò che
non è ancora.
Lei, tessitrice di quel tempo sospeso, nella volontà di fermare
il tempo, sta in un tempo nel quale tuttavia può generarsi un tempo
nuovo: la tela disfatta non è semplicemente continuamente annientata
(il centro, il focolare è svuotato), permette che infinite impercettibili
variazioni (spostamenti dal disegno) si attuino.
Il futuro della città potrebbe infine essere diverso. Itaca una
città nuova.
La questione di Antigone è della disobbedienza all'ordine della
città e di obbedienza agli dei sotterranei (Creonte, al contrario,
obbedisce all'ordine della città e disobbedisce agli dei sotterranei,
si gioca l'approvazione degli antenati che sono gli dei che custodiscono
il nulla). Per Antigone e Creonte c'è dunque sia disobbedienza
sia obbedienza. Opposte? Siamo di fronte a simmetrie? A false simmetrie
senza imparzialità dialettica e senza equilibrio?
Antigone, frequentando sia la terra dei vivi sia la terra dei morti (non
abitando unicamente la terra dei morti: è Creonte a condannarla
non a morte ma a vivere nella terra dei morti) mette in gioco la sua vita.
Si fa straniera. Ritorna a sé, verso un essenziale ed estremo esilio:
"è stato grazie all'esilio, che abbiamo conosciuto la terra"
(M. Zambrano, cit., p.115). Andando verso quelli che "portano qualcosa
che né lì né altrove, dove che fosse, nessuno aveva;
qualcosa che quanti abitano stabilmente in una città non hanno
mai; qualcosa che solamente ha chi è strappato alla radice, l'errante,
colui che un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra;
colui che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga"
(M. Zambrano, cit. p. 119). Per scoprire lo straniero dentro di noi, attraverso
cui si rivela "un paese di frontiere e di alterità incessantemente
costruite e decostruite", "inquietanti estraneità",
"condizione ultima del nostro essere con altri" (J. Kristeva,
Stranieri a se stessi, Milano, 1990, pp. 174, 175).
Indica necessario abitare il luogo che sta infra, che continuamente si
origina tra l'uno e l'altro, luogo originario in cui si producono le forme
della città. (H. Arendt, Vita activa, cit., e La vita della mente,
Bologna, 1987).
Per estraneità attraversa il conflitto tra passato e futuro. Nella
solitudine, tra vita e morte, vede la morte dell'altro e la sua propria
morte nell'equilibrio instabile del funambolo.
Lancia la sua vita oltre la città come un lampo - "La luce
fa apparire la cosa cacciando le tenebre, essa vuota lo spazio. E fa sorgere
appunto lo spazio come vuoto" (E. Levinas, Totalità e infinito,
Milano, 1982, p. 193). Ma lo spazio vuoto è condizione di un rapporto,
provenire dal vuoto è provenire dall'origine, che è possibilità.
Antigone
e Penelope sono differenti.
Perché (dif-ferenti) ambedue si portano altrove. Perché
il loro movimento porta ognuna di loro separatamente e altrove (non in
direzione inversa, questo avviene tra Antigone e Ismene - una va verso
la vita e l'altra verso la morte - ma loro, sorelle, sono una-due).
Penelope (intendendo custodire il focolare) va verso un centro che si
annienta rivelandosi vuoto (il farsi vuoto originandosi). E dal centro
svuotato esce pura voce, suono che appartiene ancora al silenzio, precede
quella tensione che è richiamo, e contiene, dell'incomprensibilità
della parola, il senso.
Antigone, che passa e ripassa la 'linea proibita', a quel vuoto del centro
si riferisce. Ma non assolutamente. Così la voce dell'origine (la
sua legge non scritta) entra, interloquisce con le leggi scritte della
polis.
Eppure ciascuna di loro attraversa in un certo senso l'origine.
Si potrebbe dire che Penelope viene prima, non sa quello che fa, anche
il suo rischiare è inconsapevole. Antigone, interamente (e modernamente)
politica, si arrischia consapevolmente, conosce e affronta il pericolo.
E potremmo anche dire che Antigone è radice, si origina, e originandosi
incontra inevitabilmente l'origine dell'origine (il centro svuotato da
Penelope).
È la trama di un tessuto che si forma per il doppio movimento dell'andare
e del tornare, che si compie per quel nodo che è l'istante punto
di incrocio, non immobilizzante ma teso all'inversione di un movimento,
di un tempo.
È il provenire da, e l'essere gettata lontano della sorgente. Sorgente
che non è fondo (lì non si costruiscono fondamenta, ma nei
pressi delle sorgenti si abita). Che nel punto in cui lascia l'oscurità
da cui proviene dirigendosi verso la luce si origina come sorgente, cioè
passa per l'origine. Ma se ci si inoltrasse, percorrendo a rovescio il
movimento della fonte, si contrasterebbe il suo movimento, si produrrebbe
in un certo senso un movimento che si annullerebbe come movimento (sarebbe
un ritornare), si entrerebbe nell'oscurità della terra (dove la
sorgente non è ancora sorgente) e si vedrebbe l'origine nell'origine,
si vedrebbe nella terra (nella parola origine che potrebbe venire da orao
vedere, ci potrebbe essere en ghéa nella terra, en ghénos
nella forza generativa). E a volerlo notare, l'origine dell'origine della
fonte (che è entrare nella terra) non è uno sprofondare
ma un risalire, come un alleggerirsi.
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