Pubblichiamo questo saggio, rielaborazione in forma scritta a partire dall' intervento dell'autrice alle quattro giornate di ricerca e approfondimento che l' "Associazione culturale Nemus" ha organizzato presso il "Centro Candiani" di Venezia Mestre, nell' aprile-maggio 2004.


TRAPASSO
(UNA LETTURA DI GENERE)
di Donatella Bassanesi

 

 

La decisione di rischiare

Scrive Stefano Maso: "Decisione originaria di esporsi e di arrischiarsi è quella che possiamo definire come rischio esistenziale, quel rischio cioè essenzialmente appartenente al soggetto in quanto consente al soggetto di essere appunto soggetto che esiste come soggetto: insomma, più radicalmente, è il rischio 'essenziale'" (S. Maso, Rischio, Venezia, 2003, p. 43).
È il soggetto che rischia esponendosi alla luce dell'origine, o meglio ponendosi in quel punto 'di nascita' tra oscurità e luce (è come l'acqua della sorgente quando esce dall'oscurità della terra e viene gettata lontano).
Derivando da una decisione, corrispondendo a un passaggio dell'essere, io rischio colloca il soggetto (come intenzione, un tendersi) verso-in-contro la realtà data, al centro il caso. Per la tensione che lo spinge (verso la realtà che intende cambiare, da cui è cambiato) il soggetto attraversa quello spazio in cui si trova il caso. Caso che può essere colto (diventa atto) oppure no: asse di un equilibrio sempre nuovamente da ricercare, di un limite lungo cui arrischiarsi. Caso-giudice, attraverso cui si pesa la forza dell'intenzione e la realtà modificata (si pesa la forza dell'intenzione per mezzo della realtà modificata, e la realtà modificata per mezzo della forza dell'intenzione).
Quando ci si decide è per l'origine, "il celato fondamento di ogni natura" (F. Holderlin, Sul tragico, Milano, 1980, p. 68), e "dal battito del nostro cuore, noi siamo sospinti più giù, verso il fondo, l'origine" (P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Milano, 1959).
Ma l'origine non si colloca in un mitico passato. La percepiamo nel fenomeno, perché originario è un "fenomeno originario (…) non è un'idea su cui si possa sviluppare una teoria filosofica o teologica. È piuttosto una cosa reperibile concretamente e 'materialmente', in cui coincidono significato (…) e apparenza o fenomeno, parola e cosa, idea e esperienza" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, Bologna, 1981, p. 122).
L'origine ha reso ciascun uomo e ciascuna donna in tensione, in movimento (che è il susseguirsi ritmico di sbilanciamento e di ritrovamento di un punto di equilibrio, deriva da asimmetria e da simmetria). Movimento, che si regge per desiderio e si realizza per sbilanciamento, si riferisce a figure abissali che si protendono verso il vuoto, tra essere e non-essere. Fa profondamente in componibili i differenti. E rende, per altro verso, a ciascun uomo e a ciascuna donna il passo, che è movimento ed è equilibrio.
Equilibrio, che nasce nel movimento e implica sia asimmetria sia simmetria, è ricerca dell'equilibrio, si rivela nell'istante e immediatamente dopo si perde (come la verità che infatti è un percorrere, rimane come tracce di passi, passa). È punto tra due sbilanciamenti, o meglio è punto in cui in un certo senso si ha inversione del movimento. E per essere punto in cui si può afferrare il caso, si ha metamorfosi del tempo: il tempo ne esce trasformato.
Questo punto di equilibrio sempre da ricercare, che unicamente nell'istante mostra simmetria e si fonda sull'instabilità, non può essere tradotto in forma statica. Perciò la simmetria, separata artificialmente dal movimento e dall'asimmetria che l'hanno prodotta, divenuta espressione massima di stabilità, è un inganno. È l'inganno con il quale si intende 'naturalizzare' un sistema (quello delle complementarietà) che è una struttura di dominio posta a neutralizzare il movimento delle differenze, o meglio il movimento dei differenti (differente è il soggetto, chi si sta portando altrove, si sta spostando da sé), un sistema che sono gabbie (un sistema di gabbie), intricate complicità, competizioni sorde, conflitti irrisolvibili che si alimentano di sé, giochi di potere tra le parti.
È la lacerazione, che è origine, è originarsi (sentirsi mancare, svanire nell'immagine evanescente e scomposta dell'altro, di sé nell'altro, di sé altro, è staccarsi verso il molteplice) a produrre quel movente-movimento che è salto. E quel salto che il caso indurrebbe a fare, è senza pace, conduce eccentricamente. Ed è rischio. Dell'essere differente che è tensione, il movimento attraverso cui scorre l'anima - che è ricerca non di una verità consistente, ma di senso (W. Benjamin e H. Arendt).
Rischiare è dunque decidersi e attraversare il dolore di quella ferita che è separazione, quel sentiero che anima, mette in movimento (movimento che è trans-gradior: attraversare, necessariamente trasgressivo, sposta il soggetto, rende altro, dilata lo spazio e il tempo). E d'altra parte, a ragione del movimento, anche la realtà data (necessità) scontrandosi con la volontà del soggetto (desiderio) risulta insieme spostata e modificata. Si è modificato "il contesto di riferimento", c'è "differenza tra il prima e il dopo", si è prodotta "una diversione, rispetto al ritmo dell'azione" (S. Maso, cit., pp. 108, 110).
Rischiare è parte essenziale dell'azione (azione che appartiene al soggetto ma necessariamente si riflette sulla realtà data).
In quanto azione si colloca all'inizio, alla fine, e sta in mezzo tra inizio e fine.
Un'azione rischiosa ha un movente. Implica qualcosa che finisce. Con il passare del tempo l'azione rischiosa per conservarsi tale deve rinnovarsi. Cioè si fa un passo.
Rischio è dunque passo, l'andare. Cioè continuo sbilanciamento e ritrovamento del punto di equilibrio, che sempre nuovamente si perde.
Ed è proprio il punto di equilibrio (del perdersi e del ritrovarsi) a essere determinante. Perché è il tempo in cui si trova il caso, quell'evento imprevisto, quell'istante che si può cogliere oppure no, a ragione del quale ci si muove (ci si decide) oppure si sta fermi. Ossia il caso-occasione (kairòs) si traduce in tempo-istante del possibile.
Movente è l'occasione colta, è dunque attimo di equilibrio in cui il caso si trasforma in possibilità. Movente centrale. A cui ci si avvicina quasi senza accorgersi, che si coglie inconsapevolmente, che solo a posteriori si riconosce. Che tuttavia non è stasi, non è riposo, è attimo impercettibile scatto inversione di un movimento-tempo, perciò è metamorfosi e pur essendo in posizione centrale segna un inizio - inizio che è dunque sempre passaggio tra due stati dell'essere, pur essendo punto di equilibrio non è stasi, è teso disorienta: iniziare è rischiare, rischiare è tenersi in equilibrio.
Rischiando ci si gioca qualcosa per raggiungere qualcosa d'altro.
Uno scambio, ma non di equivalenze. La legge della contrattazione e dello scambio pari non vale.
O si vince o si perde. Oppure si vince qualcosa e si perde qualcosa d'altro - che è scambio comunque impari, perché acquisire e perdere sono misure incomparabili, staccarsi da qualcosa (conosciuta) non è accogliere (ciò che non si conosce), è solo la mediazione del denaro o un processo mentale a rendere, con una misura che tuttavia rimane costantemente da ricercarsi, un'equiparazione, che in realtà è una scommessa.
Si tratta dunque di un doppio movimento.
Un doppio movimento anche perché c'è un punto in cui si rompe l'equilibrio (con lo sbilanciamento non c'è simmetria); e c'è un punto di equilibrio che rivela la simmetria, una simmetria che immediatamente prima e immediatamente dopo non c'è.
Così il soggetto, che entra nel movimento (prodotto da asimmetria) che è "eccentricità del pensiero a se medesimo destabilizzante" (S. Maso, cit. p. 103), sempre nuovamente cerca il punto di equilibrio, che è "capacità di rivelazione del discorso e dell'azione (…) quando si è con gli altri" (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, 1999, p. 131).
Il soggetto non sa esattamente cosa rischia nel momento in cui rischia.
Perciò bisogna affrontare la paura, quella certa paura che risente dell'ignoto, partecipa dell'attendere e dell'imprevisto, è una paura che può trasformarsi in gioia. "Non sapevi dunque che la gioia è in realtà uno spavento di cui non temiamo nulla? Si percorre uno spavento da un capo all'altro, e la gioia sta proprio lì. Uno spavento di cui non si conosce solo l'inizio. Uno spavento in cui si ha fiducia" (R. M. Rilke, Fragments en prose, Paris, 1929).
Il rischio lo si intuisce. Non è possibile misurarlo prima. È possibile misurarlo dopo: dalla prospettiva del pericolo. Dalla fine perciò, quando si è perduta gran parte della percezione del rischio ed è rimasta quella del pericolo, sopraggiunto o evitato.
Rischio e pericolo sono incommensurabili come vuoto e pieno, quando c'è uno non ci può essere l'altro. Sono perciò collocati in tempi diversi, la distanza che li divide è abissale, per questo abissale sono trattenuti da una sorta di tensione (come quella che c'è tra immaginazione e realtà fattuale). Appartengono anche a due luoghi, uno interno (rischio), l'altro esterno (il pericolo).
Tuttavia si trovano in qualche modo in un rapporto consequenziale: il pericolo induce al rischio, chi rischia si è deciso ad affrontare il pericolo.
E possiamo anche dire, pur essendo il pericolo misura del rischio, c'è una misura che accomuna rischio (io rischio) e pericolo: è la paura, che è sentimento del soggetto. Cioè anche il pericolo viene, attraverso la paura, soggettivamente vissuto (immaginato). Per questa paura unità di misura spesso rischio e pericolo vengono confusi, tra le due parole c'è ambiguità.
Tra rischio e pericolo c'è dunque una differenza sostanziale. Ma anche una sorta di consanguineità.
Così sembra di vedere un gioco dell'avanzare e del fuggire. Un luogo dell'essere in cui si affrontano rischio, pericolo, sicurezze (che riducono i pericoli, bilanciano i rischi, attenuano le paure), paura (che deriva dal rischio e dal pericolo, li misura), coraggio (ha a che vedere con la forza, lo slancio, l'agilità) è "padronanza" ed "è sempre appannaggio dell'altra mano, di quella che non scrive, capace di intervenire al momento opportuno, capace di afferrare la paura e di allontanarla" (M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, 1967, p. 11).
Se fosse un gioco di scacchi, la 'mossa', il movimento rischioso, per il suo aspetto spiazzante, sarebbe la mossa del cavallo, cambia il gioco.

Unità tematica

Qui (in questo convegno, sotto questo tema) sono state affrontate le articolazioni del sapere passando per una unità tematica, le discipline in un certo senso si confrontano, misurano la loro capacità di lettura (di interrogazione e di interpretazione) del reale, si affacciano oltre i propri confini, provano in qualche caso a 'parlare', o almeno ad 'ascoltare', altre lingue.
Ci si potrebbe domandare se quello che noi abbiamo chiamato il pensiero delle donne in una situazione di confronto come questa si trovi in posizione sfavorevole o favorevole. Se in un certo senso non finisca per trovarsi troppo 'esposto', in qualche modo impreparato a un gioco al quale, d'altra parte, è stato raramente invitato a giocare. Oppure se proprio accettare di esporsi richieda una decisione, uno sforzo, uno slancio, che è rischio (la messa in atto del tema stesso).
Si potrebbe dire che il pensiero delle donne è mettersi in quella prospettiva particolare che è il 'genere' (implica la questione mai risolta della differenza uomo-donna che interviene in tutte le differenze).
La storia delle donne e degli uomini mostra due livelli di esistenza ricondotti artificialmente ad un sistema di complementarietà, di false simmetrie (che tuttavia rimangono in un conflitto tragico e senza indifferenza). Una falsa pacificazione, una stasi improbabile.
Nella composizione attraverso la quale si ritornerebbe all'unità come fondamento, c'è una forzatura evidente, perciò "la ricerca va portata molto lontano, fino all'iniziale atto di dominio attraverso il quale il maschio ha preso il potere sulla femmina e lo ha chiamato 'natura'" (R. Rossanda, intr. Sofocle, Antigone, Milano, 1987, p. 50). E questo non solo e neanche tanto per un senso elementare di giustizia, ma perché forzati, uomini e donne, avvertono le vite chiuse in un involucro che li tiene stretti e senza movimento, perché si ha sottrazione del possibile.
Il binomio uomo-donna come risoluzione in complementarietà è esemplare: 'naturalizzazione' di un fondamento sociale diventa esempio attraverso il quale si intenderebbe rendere l'uno all'indifferenza, e cardine di un principio inteso come natura. Ma l'idea stessa del divino, che si può articolare nel due, non mostra complementarietà. Cronos il tempo che è Dio padre, si fa presente sia nella figura della morte che è ex-statica, è caos da cui si muove il tempo, sia in Zeus "Dio dello stato" (F. Holderlin) che è tempo dello stato. E Derida osserva: "se Dio è (probabilmente) un uomo per la dialettica speculativa, la deità di Dio - l'ironia che lo divide e lo scardina - l'inquietudine infinita della sua essenza è (forse) femminile", e nota anche: l' "eterna ironia della comunità (…) rovescia l'universalità dello Stato" (J. Derrida, Glas, Paris, 1974, pp. 211, 210).
È Diotima, la straniera - che "definisce Eros non un dio ma un demone, l'abbisognante figlio di Povertà ed Espediente, Penìa e Poros" - a ricollocare "i due sessi in posizione non neutra e non gerarchica; due e demonicamente investiti da Eros" (R. Rossanda, ibid. pp. 52, 53). La tensione che li spinge, a distanziarsi e ad avvicinarsi, è desiderio di sciogliere il nodo. Nodo che tiene in quella gabbia (concorre a costituirla: i ruoli, la complementarietà). Giocandosi l'altro pone il rischio che è desiderio.
Il pensiero delle donne si potrebbe anche dire che è un pensiero che risente di una certa estraneità e insieme di una certa tensione verso le discipline. Le attraversa, interviene ponendosi ai limiti, a volte formando intrecci, a volte collocandosi in un nodo.
Sono sentieri in un certo senso labirintici. È arrischiarsi ad uscire dalle nicchie (parzialmente rassicuranti) delle discipline, non è risolutivo, è capace di entrare, momentaneamente, nella storia, nel tempo, scompigliando le carte. È una tensione che non ponendosi un obbiettivo certo, fermandosi di fronte ai particolari, accetta la confusione, le intuizioni, le ambiguità del vissuto.
È porsi nel luogo di nascita, come separazione, decisione, inizio, ripercorrendo le origini (che si trovano in ogni segno, suono, parola, movimento, tempo).
Quello che abbiamo cercato è di riconoscere, attraversando le fondamenta su cui si sono costruiti (costituiti) gli ordinamenti (le città), quella gabbia che ne è la struttura e rende le differenze delle disuguaglianze ordinate in simmetrie, fermate in falso equilibrio. E abbiamo provato ad evidenziare i punti nodali, quelli che legano, che tengono nell'impotenza (e nel potere, suo simmetrico ed equivalente), abbiamo voluto farlo perché sono il luogo in cui la struttura si rivela meno compatta, luogo di crisi, dove traspare un'assenza, ciò che non c'è, che non sappiamo se appartiene a un centro vuoto, a un luogo altro, che potrebbe essere sopra, sotto, e che si presenta come il caso, l'occasione.
Sono decostruzioni, è guardare nelle pieghe, le incrinature, i vuoti.
Significa ripescare i frammenti da cui proveniamo, sottolineando l'appartenenza alla terra - il senso del creare (ghìghnomai) ha a che fare con la terra (ghéa,): creatura è ghénos, principio e origine è ghénesis - e il vuoto in mezzo.
Entrando "nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era", ma "per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate", nella convinzione "che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia insieme anche un processo di cristallizzazione (…), che nella 'protezione del mare' - nello stesso elemento non storico cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come 'frammenti di pensiero', come frammenti o anche come eterni 'fenomeni originari' " (H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit. p. 170). Così, attraversando il vuoto che sta tra quei frammenti, affacciarsi al possibile.

Una domanda riguarda il presente

Una domanda mi è stata fatta, è tornata più volte, come un'urgenza, una chiave del presente.
La voglio mettere qui, in posizione centrale, come asse del discorso e come caso che interroga e giudica il presente.
La domanda riguarda le soldatesse-torturatrici dell'esercito americano.
Non rendono superata una specificità (una distanza da) delle donne?

Direi che la domanda (asse del discorso proprio in quanto domanda), richiedendo e poiché intende chiedere risposta, rivela per un verso il peso del problema che pone, e per un altro l'intenzione di alleggerirsi del peso della cosa (res pondus) attraverso la risposta. Ma il peso della cosa - così spostato (la risposta può convincere oppure no, ma una risposta pur sempre c'è) - pur essendo passato per l'apparente scioglimento del dilemma (è l'effetto rassicurante della soluzione opposto all'inquietudine della domanda), infine torna al mandante (l'interrogante) che aveva cercato, con la domanda, di liberarsene.
Una risposta è uscita dai luoghi delle donne. La risposta è stata: questo avviene quando le donne vogliono emanciparsi.
Si potrebbe provare a ragionare intorno ai percorsi di emancipazione, quelli a cui viene attribuito comunemente un significato positivo, di buon inserimento nella realtà sociale: potrebbero rivelarsi non solo acquisizione di diritti per le donne o adattamento alle necessità del presente, ma anche contro-faccia rivelatore delle crescenti zone di povertà delle società ricche (i ruoli sociali, diventati generalmente più permeabili, adattati al presente, potrebbero mostrare sotterranei processi, anch'essi di matrice emancipazionista ma in negativo, come uno scorrimento verso il basso, è ciò che le torturatrici soldatesse americane starebbero a dimostrare).
Ci sarebbe da domandarsi quale legame ci sia con il generale processo di omologazione, che per le donne è passato per l'integrazione e anche l'emancipazione.
Aggiungerei perciò io una domanda: nella spettacolarizzazione, in cui ogni evento viene reso prodotto da essere immediatamente consumato e velocemente scomparire affinché la memoria posa venir distrutta e sia fatto posto ad altro, è possibile pensare a qualcosa che frammenti un mondo compatto e oppressivo? Detto in altri termini: i processi di omologazione non hanno così ampliato i limiti da rendere irreale ogni movimento, la possibilità di essere differente, che è appunto spostamento da?
Tutto ciò riguarda l'anima dell'occidente (la seconda parte del titolo del convegno).
Si potrebbe complessivamente osservare che abbiamo visto mettere in atto "la logica della legge umana" che "comanda di non fare assolutamente ciò che comanda assolutamente di fare: la guerra" (J. Derida, Glas, cit. p. 167).
Guerra preventiva è stata chiamata una palese violazione del diritto evidentemente intrapresa per imporre la 'teoria dell'impero' teorizzata dal presidente americano G. W. Bush.
Ha evidenziato come un potere che tende ad essere sempre più dominante si sia potuto imporre contro un'opinione internazionale molto ampia, sia stato in grado di mobilitare un esercito che si è sovrapposto come una realtà incompatibile a un popolo a una nazione, e, all'interno di una macchina distruttiva, in una oscurità allucinata, ci abbia fatto assistere a scene (in video che hanno girato il mondo) di soldati che torturavano, all'abbattimento dei più elementari diritti umani.
Soldati e soldatesse americani sembravano operai del crimine. In un certo senso apparivano insieme eccitati ed estranei a ciò che facevano. In alcuni casi avevano una sorta di indifferenza annientata-annientante verso l'oggetto del loro lavoro. La complicità si rivolge fuori, verso la telecamera, una sorta di messa in scena dell'orrore e della morte. Una danza macabra (guidata anche con un certo piacere?) nella quale, come fossero maschere, soldati violentano, aizzano cani feroci, soldatesse umiliano, irridono le vittime private, prima ancora che della vita, della forza di continuare a esistere.
È avvenuto qualcosa, portato dal democratico occidente, che non avevamo pensato sarebbe stato possibile, che a posteriori è sembrato incredibile. Quasi alla luce del giorno, in realtà alla luce degli obiettivi delle macchine fotografiche, oggi, ripeto nel democratico occidente, si può chiedere a uomini e anche a donne di eseguire pratiche di asservimento, violenze attuate al fine di nientificare l'altro (l'uccisione non è un obbiettivo dichiarato, piuttosto un derivato, un incidente di percorso, comunque, finché non appare alla luce del giorno, irrilevante).
Gli aguzzini, sia gli uomini che le donne, indifferentemente, dicono di aver obbedito agli ordini.
Hanno creduto di doverlo fare? Volevano farlo? Cosa è avvenuto prima, quali soglie hanno (prima) attraversato per arrivare a torturare?
Si potrebbe dire che 'la teoria dell'impero' ha creato le condizioni (di insicurezza, di povertà) utili alla formazione di volontari, giovani pronti a fare quel lavoro 'sporco' che richiede obbedienza cieca, sorda e muta.
Si vedono così 'prodursi' soggetti in cui la passività si riferisce tutta all'accettazione dell'ordine, e l'attività viene canalizzata in aggressività, una rabbia cieca e distruttiva alla ricerca di una vittima: il potere totalmente sottratto si è trasformato in divorante ansia di potere. Anche per le donne?
È possibile rendere il rischio-io rischio chiave interpretativa di questo particolare evento?
I torturatori, rimovendo e spostando le loro annientate identità (le loro paure, un orrore di sé che consapevolmente non provano) sull'altro da annientare, si collocano (di fronte a questa realtà data la guerra) come intenzione. Dunque, quali motivi e quali ideologie sono stati la spinta ad accettare questo lavoro 'sporco'?
Avrebbero potuto dis-obbediere (negare ob-udienza, cioè ascolto sottomesso, sottrarsi all'ordine, trarsene fuori). Avrebbe significato la decisione di mettersi in gioco, cioè l'intenzione di rischiare. Rischiando si decide qualcosa (ci si de-cide da qualcosa) e si modifica la realtà.
Separandosi dall'ordine ricevuto, disobbedendo, avrebbero colto la loro occasione, avrebbero visto il volto dei prigionieri, sarebbero passati per quel centro che permette di 'cambiare strada', di arrischiarsi al di là di sé.
Ma l'altro non hanno voluto vederlo, non hanno voluto riconoscerlo, non hanno voluto incontrarlo. Hanno perso quell'appuntamento che è incontro, appartiene "a quell'ordine, secondo cui si muovono le stelle e si fecondano l'un l'altro i pensieri" (H. v. Hofmannsthal, L'ignoto che appare, Milano, 1991, p. 274).
Si è avuta subordinazione, e il risultato della subordinazione è stato cancellare la dignità di soggetti: qui tutti sono sub-iecti, sottoposti - ma non indistintamente: ai prigionieri sono stati lesi i diritti umani, per i torturatori c'è responsabilità, su di loro pesa l'intenzione della cosa, sono res-ponsabili.
Così i prigionieri (l'occasione che avrebbero potuto cogliere soldati e soldatesse americani), che sono il centro - "al centro vi è la lotta e la morte del singolo" (F. Holderlin, Sul tragico, Milano, 1980, p. 55) e "Dio è presente nella figura della morte" (F. Holderlin, Remarques sur Oedipe, Remarques sur Antigone, Paris, 1965, p. 79) - non solo vittime, diventano giudici, che giudicano, in quell'incrocio che è il non-tempo.
Dove si situa quella linea sottile che è vuoto (quando i tempi bui distruggono il ricordo e il futuro, quando il passato ha cessato di far penetrare la sua luce nel futuro) ci appare un mondo reso sordo muto e cieco dalle violenze esercitate. Maschere grottesca, ombre di viventi, stendono un'ombra sulle loro vittime.
In questo orrendo gioco della guerra e delle torture abbiamo visto in azione donne. È normale, o più normale la presenza di uomini?
E tuttavia, perché non si sono rifiutate? Perché non è sembrato grave quello che veniva loro chiesto di fare? Perché non hanno sentito una contraddizione tra sé e pratiche di annientamento? Perché non si sono sentite umiliate? Quanto c'è di adesione alla datità? Quanto ha giocato la paura verso chi sta fuori della propria casa, verso lo straniero? Quando e come la paura verso il mondo esterno si è trasformata in ostilità che è anche indifferenza?

Antigone e Penelope

A proposito del rischio (e della sua forma estrema l'azzardo), una questione che appartiene al soggetto, proprio per essere il soggetto, insieme, singolarità e suddito (sottoposto, condizionato da), affronterò ora Penelope e Antigone.
Sono-non-sono due donne. Poiché stanno nel passato - e nel passato si confondono i tipi di esistenza reali e irreali che appaiono ugualmente reali e insieme irreali (J.-P. Sartre).
Ognuna di loro ha inciso una traccia. La profondità della traccia, la forza con cui ritornano, è la loro vivezza.
Segnali e segni di luoghi dell'essere, pongono la questione del limite e del suo tendersi verso l'illimitato, attraversando il (io) rischio.
Cercherò di indagare la questione della disobbedienza e dell'obbedienza, alle leggi scritte e alle leggi non-scritte.
Proverò a misurare l'intensità del gioco che gioca ognuna di loro, ricercando cosa mettono in gioco, quando vincono, quando perdono.

L'azzardo di Antigone

Antigone (che per essere tragedia segna il punto più alto del mistero della civiltà greca) riguarda lo Stato e i legami più stretti, e ha come soggetto l'amore tra i vivi e i morti, un movimento eccentrico. Quella mutazione enigmatica che crea l'origine, il silenzio dell'origine. Perché l'altro si presenta come infinita ripresentazione dell'assenza quando per un momento brilla il segreto che sta nella cesura attraverso cui qualcosa è profondamente cambiato, si è avuta metamorfosi del cuore.
Delle tragedie è la più profonda e oscura. Qui il silenzio dell'origine è silenzio degli dèi: "in questa tragedia terrena gli dèi non ci sono, non intervengono" (R. Rossanda, cit. p. 16).
Conclude il ciclo di Edipo. Ma Sofocle probabilmente la scrive dieci anni prima del primo Edipo. Procedendo a ritroso il racconto, si altera il movimento del tempo e Antigone viene indicata come testimone e interprete prima dei fatti.

Verso lo Stato

All'origine si riferisce Antigone, che non è destinata a custodire il focolare (i riti, la tradizione). Se ciò che è logos è scritto negli ordinamenti della città e ciò che non è logos sta nel cuore della città, l'origine è il principio come principio nel quale è compresa la fine (di una vita, di un atto): "l'origine è la meta" (K. Kraus). È tempo come in-stante (ogni istante, nel quale nascita-morte si rispecchiano). Luogo in cui la massima appartenenza è estrema lontananza.
Perciò Antigone non occupa né custodisce il centro, se non come ritorno a sé. Per desiderio di centro che è ineliminabile funzione del gioco. Per ritornare al centro che è "assenza di gioco e di differenza" (e "non è un altro nome della morte?") (J. Derida, La scrittura e la differenza, Torino, 1971, p. 380).
È il corpo di Polinice, morto-morte che è il caso, morte che implica l'intervento degli dei sotterranei che stanno al centro, giudicano (sono il corpo morto di Polinice) a spingerla a guardare oltre le mura (lo spazio) della città, come a misurare i suoi ordinamenti a confronto con un tempo nel quale passato e futuro si riflettono, uno spazio che comprende, si fonda sull'altro, anche l'altro che verrà, che non c'è ancora, di cui intuiamo la venuta.

Riguardo allo Stato si può dire che è tragedia della disobbedienza (Rossanda).
Da una parte l'etica della polis di Creonte e dall'altra quella assoluta e pura di Antigone (Hegel).
Antigone, per corrispondenza al divino mondo degli antenati, comprendendo il giudizio degli dei sotterranei (non vuole lasciare insepolto il fratello Polinice), è interprete (come il coro) delle voci dei custodi del niente (essi stessi appartengono al niente) che "danno al conflitto infinito la direzione oppure la forza, come organi sofferenti dell'essere in lotta col dio" (F. Holderlin, Remarques… cit. p. 83).
Il suo è "delirio sacro (…) la più alta manifestazione (…) della bellezza (…) sorgente dell'anima nel suo travaglio segreto" (F. Holderlin, Remarques…cit., p.73).
Si colloca in un luogo che è prima del conflitto. Da quel luogo, in quel tempo-non-tempo, si oppone, perché non c'è possibilità di agòn tra informalità dell'eterno e presente, c'è creatura (la possibilità di creare, di far trasparire, rendere trasparente il tessuto) .
Diventa, o si svela, anti-agòn.
Perciò il suo non è odio: "durante l'odio tutto è distorto e contrastante" (Diotima nel Simposio di Platone). Non si getta nella mischia, e tuttavia è pronta a "compiere azioni fuor di misura", il suo è "lucido furore". "Hai cuore ardente per cose che raggelano" dice Ismene ad Antigone (Sofocle, cit. v. 88). Come Edipo, sa sostenere il vuoto del cielo senza fondo perché ha cuore fermo.
È tessitrice d'amore, come dice l'Arpia: "Tessitrice tu, col tuo andirivieni da una terra all'altra. Col tuo andirivieni dai vivi ai morti. Da quella Legge dell'Amore che tu sola conosci a quella del Terrore cui tutti, guarda, sappilo, si attengono" (M. Zambrano, La tomba di Antigone, Milano, 1995, p. 95). E questo perché era nata "non per condividere odio, ma per condividere amore", "Afrodite, la dea, non combatte: gioca" (Sofocle, cit. v. 524 e vv. 800-801).
Perciò, ponendosi in quell'incrocio vita-morte che è amore - una forza che anima, risorgente, non appartiene interamente al mondo dei vivi e neppure al mondo dei morti, collega gli uni agli altri, sta in quel non-tempo, in quella tensione verso il possibile che appunto è amore - è come Cybele. "Precede e accompagna. Assiste a tutte le catastrofi, le sconfitte, le carneficine e resta invulnerabile. La sua stessa morte non la tocca" (J. Derida, Glas… cit., p. 210). "In una creatura così compiuta, infatti, essere e vita non possono venir separati, nemmeno dalla morte" (M. Zambrano, cit. p. 60).
Antigone non riconoscendo l'ordine di Creonte non riconosce l'ordine di Zeus che impone l'etica della polis e la sua tirannia, ha fondato il mondo dei vivi imponendo una separazione "che non solamente erige un limite tra questa terra e il selvaggio mondo dei morti, ma forza più decisamente verso la terra lo slancio panico eternamente ostile all'uomo, slancio sempre in cammino verso l'altro mondo" (F. Holderlin, Remarques… cit., p. 79).
Disobbedendo contrasta di Creonte il suo incarnare l'etica della polis, e il suo essere tiranno. Il gesto di pietà per cui è pronta a morire è anche gesto che intende allontanare l'orrore dalla città, perciò non ascolta ragioni, non giustifica l'atto di dominio: perché iniquo è l'atto originario di dominio.
Creonte al contrario è obbediente perché rispettoso delle regole di Zeus.
Non comprende tuttavia il giudizio degli dei sotterranei, perciò disobbedisce.
Eppure Antigone "si lamenta con la voce acuta di un uccello addolorato che ha visto il fondo del nido vuoto, predato dei piccoli" (Sofocle, Antigone, Milano, 1987, vv. 422-426). L'aveva ammonito Tiresia (il veggente, il custode della potenza della natura che trascina eccentricamente verso la sfera dell'altro): "Pensaci; ora cammini (…) sull'affilato rasoio della sorte", "odo un grido incomprensibile di uccelli che, con malevolo furore, stridono nel loro linguaggio barbaro (…). La città è malata per tuo volere. Altari e bracieri sono tutti contaminati dal cibo strappato da cani e uccelli al morto, al misero figlio di Edipo. Perciò gli dèi non accettano più da noi preghiere e sacrifici". E il figlio Emone gli aveva detto: "Tu governeresti bene, da solo, su una terra vuota" (Sofocle, cit. vv. 1015-1020 e v. 739).
Creonte nega 'esistenza' al morto Polinice - senza sepoltura non starà né tra i vivi né tra i morti - possiamo pensare che soggiace a un odioso e squallido errore (Eckermann, Colloqui con Goethe, Torino, 1957).
Possiamo pensarlo un criminale (A.W. Schlegel), possiamo anche pensarlo come detentore di un dominio divenuto assoluto immobile tirannico. E tuttavia Creonte non agisce per ottuso desiderio di potere. Agisce nel senso di religioso timore di fronte a quel destino rappresentato da Zeus (per il quale è fondativa la regola di non venir governati da donne). Così, semplicemente, attingendo alla "legge del giorno, (…) pubblica, visibile, universale" quella che "regola (…) la città, il governo, la guerra", ha dimenticato "la legge divina" che "si nasconde (…) è notturna" (J. Derida, Glas, cit. p. 161).
Indicando "l'insopportabilità di essere governato da una donna" (R. Rossanda, cit. p. 54) - "bisogna difendere quanto ordinato dall'autorità e non lasciarsi vincere da una donna; se si deve cadere, meglio per mano di un uomo: non si dica che soggiacciamo alle donne" (Sofocle, cit. vv. 677-680) - Creonte mostra di sé certamente il "momento più basso, il suo mancare di argomenti (…) prova della sua (…) stoltezza ed errore" (R. Rossanda, cit. p. 54), ma ribadisce che la regola va onorata, anche se la città risulta devastata proprio a ragione del principio etico che avrebbe dovuto garantirla.
Così, perché quell'etica possa conservarsi 'vera', bisogna cancellare Antigone. "Scelga lei, o di morire, o di restare sepolta viva in quella dimora; noi riguardo a quella ragazza, siamo innocenti; solo le sarà negato di vivere quassù, insieme ai vivi" (Sofocle, cit. vv. 886-890), è il verdetto di Creonte, che rimane vero per gran parte dei suoi interpreti (perciò in questo senso rimane vero): perché il mondo dei vivi risulti comunque fermo, in ordinate simmetrie.
Antigone, per il principio etico della polis a cui ha disobbedito, privata "del diritto al desiderio come della libertà di desiderare" (J. Derida, Glas, cit. p. 185), da Creonte che ha diritto (negoziando con la legge) di imprigionare e di rilasciare, di chiudere e aprire quella porta oltre la quale egli stabilmente abita, viene condannata all'oscurità (non avendo negoziato con mediazioni).
In questo punto i due si rivelano rappresentazione della disimmetrica e imprigionante relazione donna-uomo che affonda nella negazione del desiderio.
Ma Creonte, decidendo di nascondere alla vista della città Antigone, con la volontà di sopraffarla, non può impedire il possibile che vorrebbe negare, le rende la possibilità di essere altra, rende altra l'altra. Una freccia, che ha riaperto la ferita originaria, porta Antigone colpita verso una alterità di sé con sé creante: qualcosa da lì nasce. L'oscurità verso la quale si inoltra si illumina - "Quest'altra luce che non ho mai visto ma che sento sempre più via via che divento cieca" (M. Zambrano, cit. p. 117).
Spinta, o meglio provocata dall'altro - che tuttavia non le è propriamente nemico: Creonte rappresenta la "negazione del desiderio", "l'istituzione contro il flusso desiderante dell'io" (riferendosi a un seminario di Lacan: R. Rossanda, cit. p. 14) - diventa, a ragione del caso (il fratello Polinice morto e insepolto) e in forza della propria cieca veggenza, altra, passa per l'origine, si origina.
Il cieco vedere, che permette ad Antigone di opporsi all'ordine di Creonte, di affacciarsi oltre la sua legge, si situa non lungo quella legge (non aderisce alla legge) ma lungo la sua riga di sangue - "io sono passata sulla riga e l'ho oltrepassata, l'ho di nuovo passata e ripassata, andando e venendo dalla terra proibita" (M. Zambrano, cit. p. 76).
Perché è condannata all'oscurità risale lungo l'oscurità della sorgente - fonte che "non è costituita, non essendo nel mondo, né da un corpo (…) e neanche da un'anima (…) non appartenendo alla totalità delle cose che esistono, che sussistono per lei e di fronte a lei, questa fonte non è nulla, quasi nulla" (J. Derida, Margini - della filosofia, Torino, 1997, p. 362) - con il suo movimento all'indietro verso ciò che precede, verso ciò che è pura possibilità precedente ad ogni espressione, diventa anti-theos, cioè a-theos (athea), "riconosce fuori stato lo Spirito dell'Altissimo" (F. Holderlin, Remarques… cit. p. 77).
Lei assetata - e "essere assetato (alteré), è divenire altro: corrompersi", è "lasciarsi moltiplicare o dividere dalla differenza dell'altro" - ritrova imprigionata nelle fondamenta stesse della città la sorgente, che è il luogo dell'origine, che originandosi, uscendo alla luce diventa sorgente.
Percorre quella strada all'indietro che è "dissetarsi purificarsi (se désalterér)", "ritornare a sé, ritrovare, con la pura trasparenza dell'acqua, il miraggio sempre operante di quel punto sorgivo, di quell'istante dello sgorgare" (J. Derida, Margini…, cit. pp. 355, 356). "Lì berrei dell'acqua, dalla radice oscura dell'acqua" (M. Zambrano, cit. p. 70).
Attingendo a quel non-luogo che è rimasto imprigionato nel fondamento, vede ciò che traspare nelle incrinature, nei punti di rottura del fondamento stesso, vede ciò che non è visibile, lancia il suo avvertimento (la sua vita) oltre la città, perciò sta ai limiti del mondo.
Da quel nulla rende alla città la possibilità.

Due

Antigone e la sorella Ismene erano giocatrici: "era da giocarsi, da giocare, il nostro gioco interminabile" (M. Zambrano, cit. p. 75). E Antigone perdeva al gioco.
Tra l'una e l'altra, tra Antigone e Ismene, si gioca il gioco del trapassare e del restare. Non procedono unitamente, una si avvia verso la vita e l'altra verso la morte. E tuttavia, tra essere e non-essere, una è l'altra dell'altra (non come i loro due fratelli dalla stretta identità/contrapposizione, che si uccidono reciprocamente).
Questo è il segreto. "Il nostro segreto" (M. Zambrano, cit. p. 76) (e il segreto, lo sappiamo, vale per coloro che unisce).
Il segreto unisce, rende una-due Antigone e Ismene. "Vestite tutte e due di bianco" (M. Zambrano, cit. p. 75).
Unitamente costituiscono l'essere erotico (l'essere capace d'amore): una vive per l'altra (perché l'altra ha accettato di morire), una muore per l'altra (perché l'altra possa vivere).
Perciò, essendo una l'altra, uno è il segreto che è "nel cuore come una freccia che la vita, implacabile, ha scagliato sempre più in profondità, senza però riuscire ad ucciderla. Finché, infatti, rimarrà nel suo cuore, ella vivrà. Ma quando sarà estratta, dovrà morire" (S. Kierkegaard).
E poiché il segreto "non è cosa da dirsi", "era da farsi" (M. Zambrano, cit. p. 75), il segreto diventa "una delle forme dell'esteriorità (…) precisamente il tempo". Così lo spirito, che "è sdoppiamento, estraniamento (…) per venire a se stesso"; si trasforma nella "varietà (…) nel fluire (…) nel moto dello svolgimento", nelle "differenze" che "sono i pensieri" (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, Firenze, 1947, pp. 33, 45).
Pensieri-lampi in conflitto, attraversati da intuizioni che tracciano e stracciano. L'una e l'altra si contrastano violentemente. Eppure si assomigliano. Antigone (nel primo verso della tragedia) rivolgendosi ad Ismene aveva detto: "O volto di Ismene, somigliante, fraterno" (Sofocle, Antigone, cit. v.1).
Antigone e Ismene, ognuna singolare e frammento di un'identità a cui è consentito vivere unicamente spezzata.
Sono in un movimento eccentrico, si muovono divergendo.
Ma si comprendono, distanziandosi non si perdono.
E non stanno in un rapporto di opposizione, intervengono (come vita-morte).

Distanze abissali

Come figliesorelle conducono Edipo - che si appoggia ad Antigone e cammina come cercando la terra con un bastone ma rivolgendosi al cielo (nell'interpretazione di Louise Bourgeois che si è vista alla Biennale di Venezia 2004).
Dal padrefratello, lungo le strade, imparano in un disperato sforzo di equilibrio la luce nell'oscurità, il cieco vedere (la veggenza, che è anche di Tiresia l'indovino, il consigliere inascoltato di Creonte). Attratte e perdute vanno, fuori dalla città, nell'esilio, dove sono le leggi non-scritte, dove, tra due fuochi (gioia e dolore), appare la voce di tutto ciò che vive, l'ignoto che sta "prima e fuori e dopo la civiltà", l'originario che è "il nascere dell'individuale dall'infinito e il nascere dal finitamente infinito o individualmente eterno da ambedue" (F. Holderlin, Sul tragico, cit., p. 64). Imparando che vita si genera da morte - "Non ho mai potuto pensare il pensiero della morte o l'attenzione alla morte, se non addirittura l'attesa o l'angoscia della morte come altra cosa rispetto all'affermazione della vita. Sono due movimenti per me inseparabili: un'attenzione di ogni istante all'imminenza della morte che non è necessariamente triste, negativa o mortifera ma al contrario, per me la vita stessa, la più grande intensità di vita" (J. Derrida, Sulla parola, 2004).
La prossimità al padrefratello Edipo (anche Kierkegaard desidera essere padrefratello, vuole avere la figliasorella, che "inizia a vivere solo nel momento in cui la porto alla luce", "devo costantemente guardare dietro di me per ritrovarla") comporta per essere rapporto padre-figlia "affettività dello spirito" (J. Derida, Glas, cit. p. 167), per essere rapporto fratello-sorella "il non-desiderio" che "non è senza-desiderio di un rapporto non sessuale, è un desiderio sospeso" (ibid. p. 184).
Antigone doppiamente straniera, che cammina ai margini del mondo dei vivi - compagna del fratello Polinice morto, compagna di Edipo il padrefratello (parola ambigua come quelle di figliomarito, di madremoglie per Giocasta) - che per avere un padre fratello ha una madre che le è forse sorella.
Edipo che, esperto in giochi sapienziali, era caduto nella trappola della Sfinge, aveva sciolto l'enigma ed era diventato re della città, amante e figlio della regina. Che, in qualche modo, si era liberato dalla trappola: come la volpe che per liberarsi si strappa la zampa, Edipo si era strappato gli occhi. Così i suoi occhi rendono ad Antigone lo sguardo che intende l'oscurità.
Antigone ascolta, in quel luogo tra essere e non-essere, nel deserto dello spazio il ritmo dell'assenza, dell'attesa, cioè il tempo come possibilità, tra assenza e ripresentazione.
Sprofondare è il movimento eccentrico di Antigone che si fa concentrico, ritorno presso Polinice il fratello morto.
"Il mondo sotterraneo dello sprofondamento, simbolizzato dall'oscurità fredda della tomba" contrapposto a "uno spazio lontano e sommo della luce" (M Foucault, Il sogno, Milano, 2003); i sotterranei che avevano spaventato Medea, dove viveva la regina di Corinto "avviluppata dentro una fitta rete di voci terribili, nascosta efficacemente dietro la sua inavvicinabilità", e il suo respiro sembrava "un guaito appena udibile ma penetrante, poteva essere anche una bestia" (C. Wolf, Medea. Voci, Roma, 1996, pp. 20, 23), non sono l'oscurità di Antigone.
L'oscurità in cui si trova Antigone è quella di Edipo che infine "è quasi assunto dalla terra" (R. Rossanda, cit. p. 7).
Lei sembra cercare disperatamente un'altra luce. "Dovrei arrivare ancora più in basso e sprofondarmi fino al centro stesso delle tenebre, che chissà dove si estendono, per accendermi dentro di esse. Perché io ho fiducia solo in quella luce che si accende dove maggiore è l'oscurità, facendo di essa un cuore" (M. Zambrano, cit. p. 118).

Trapasso

Non l'opposto, non complementare di Creonte, Antigone compie il passo, il salto. Il suo è trapasso, non opposizione simmetrica agli ordinamenti della città. Anima la città. È la città che dall'oscurità rinasce.
Abitando tra lo stato e il caos, partecipando dell'uno e dell'altro, passando da una terra all'altra - "col tuo andirivieni da una terra all'altra. Col tuo andirivieni dai vivi ai morti" (M. Zambrano, cit. p. 95) - Antigone si presenta come mezzo, "il modo attraverso cui lo spirito (…) passa dall'inconscio al conscio" (J. Derida, Glas, cit. p. 192).
L'Arpia la chiama prudente come un ragno e tessitrice (M. Zambrano). Dunque prudente è la disobbediente Antigone che è (col suo andirivieni dai vivi ai morti) tessitrice, come Penelope, e che perciò ritorna. È attuale in "tempi di crisi, di grandi inquiete domande", fa parte di quelle tragedie che ritornano "come allusive, rivissute" (R. Rossanda, cit., p. 12). Ed evidenzia (a noi oggi, lei tornando, perché fa parte di quelli che restano oltre il tempo che era stato dato loro) l'intreccio "di pubblico e privato, dell'esistenza individuale e di quella storica", "fra gli eventi domestici e quelli pubblici" (G. Steiner, Le Antigoni, Milano, 1990, p. 21).
La "divina Antigone, la più radiosa figura mai apparsa sulla terra" (Hegel), 'lampo' da cui nasce la luce, non è divina come Persefone, piuttosto è "estrema radice".
Recita il Coro: "Ora che l'estrema / radice delle case / d'Edipo di luce / è inondata, la sanguinante / lama degli dei / inferi ecco la falcia". "Luminosa e lodata tu dunque te ne vai alla dimora dei morti (…) scenderai viva, unica dei mortali, nell'Ade" (Sofocle, Antigone, cit. vv. 599-602 e vv. 817-818).
Per essere radice è anti-ghenos, precede ed è testimone delle generazioni "che appaiono, scompaiono e si disegnano nella trama variante della storia" (R. Rossanda, cit.). Ed è anti-ghenos perché non genera, come destino-eternità custodisce la specie.
Posta in un non-luogo tra vita e morte, Antigone, "in remoti antri allevata" (Sofocle, Antigone, cit. v. 985), si domanda "per quali leggi, / me ne vado alla cella / sepolcrale di una strana tomba, / Ahimè, misera, né tra i mortali, né tra i / morti, straniera agli uni e / agli altri" (Sofocle, Antigone, cit. vv. 848-852).
Fanciulla entra viva nell'Ade.
Mentre Sofocle la vede infine perdersi nella morte (l'ordine di Creonte che la vuole nascondere ai vivi è per lei condanna a morte), Maria Zambrano la vede andare nella separazione che infinitamente si ripete, la lascia in un silenzioso colloquio con gli assenti, quelli che erano venuti prima, da cui proviene come loro generazione.
Trapassando sta di fronte all'infinito dal quale ci si sente perduti e attratti. "Rappresenta l'io, il sempre, rispetto alla collettività, lo stato, l'oggi; l'informalità dell'eterno rispetto alla formalità limitata del presente" (R. Rossanda, cit., p. 57).
"Si conduce più in là e al di sopra di se stessa". Perché "nel momento in cui li raggiunge, infatti, la morte occulta certi 'esseri' e altri ne rivela rivelando l'inestinguibile della vita" (M. Zambrano, cit., pp. 62, 60).
Si direbbe che dalla morte lei torni sempre alla vita.
Quello di Antigone è un "continuo rinascere" quando "tutte le cose cambiano le loro figure (…) sia tornando al caos, sia passando a nuove figure" ((F. Holderlin, Remarques…, cit., pp. 83-85).
Sono gli echi di quelle leggi non scritte che si conservano nella terra. Ed è "suprema / tra gli dei, la Terra", che conserva "le leggi non scritte, ma infallibili degli dei", "da sempre esse sono vive, e nessuno sa da dove attinsero splendore" (Sofocle, Antigone, cit. vv 337-338).
Antigone, prestata alla vita più di ogni altra, ritorna perché il suo è un messaggio che si svolge nel tempo (Holderlin ripreso da Rossanda). Ritrovandosi, inventata, la sua è ex-stasi (sta fuori) ed è eco.
Sempre ci propone l'azzardo.
Quell'azzardo detto nei versi di Rilke:"E quanto tempo abbiamo, noi gettati nell'azzardo infinito! / chi siamo, lo sa solo la morte taciturna, / e sa quale guadagno ne trae quando ci presta" (R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo, XXIV).

Il rischio di Penelope

Penelope non varca le mura della casa.
Ulisse, tradotto in terre lontane, si distrae come seguendo un demone.
Ma Ulisse è anche conservato in immagine: che dalla città è circondato, l'ossessione di Itaca. Tornando non dovrebbe trovarsi cambiato (in un certo senso come se non fosse mai partito), Penelope vuole che tutto possa tornare ad essere 'come prima', Ulisse sarà nuovamente re e lei vera regina.
Possiamo pensare che Ulisse, ricomposto al suo fantasma, avrà dimenticato il canto che scorre per i viaggiatori sul mare, il canto che commuove gli dei sotterranei, gli dei del nulla (d'altra parte lo sapeva che avrebbe dovuto dimenticarlo, quando si era fatto legare all'albero della nave). Simmetrici, il re e la regina si affronteranno come due tori, sicuri della loro forza (scrive Savinio nella sua opera teatrale Il capitano Ulisse, Milano, 1989). E cadranno nella stessa trappola, dimenticando quel tempo-non-tempo che si erano trovati a vivere, il silenzio dell'erranza, infine si accompagneranno, e simmetrici si finiranno reciprocamente.
E tuttavia, quando erano accorsi i pretendenti a Itaca, per sfidarsi, competere - la posta in gioco: Penelope, e il governo sulla città - Penelope barava: non rispettava gli ordinamenti della città che pretendevano la presenza di un re.
Rimandava la scelta attraverso la tela che ogni notte disfaceva. A cui ogni giorno attendeva.
Penelope attende. Una doppia tensione: verso Ulisse perché ritorni, e verso i Proci che chiedono di scegliere uno di loro come marito e re di Itaca.
Questa doppia tensione la tiene ferma.
Perciò occupa il centro.
Ma la tela di Penelope è come una rete, flessibile permette di intrappolare, è "trama invisibile di legami" che sono le "armi privilegiate dalla metis" (M. Detienne-J.P.Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Roma-Bari, 1978, p. 32).
Penelope si rivela capace di metis. Prudente e astuta, bara, "non cessa mai di intrecciare le due tesi contrarie" (ibid. p. 31), come il sofista.
Il centro che occupa (ed è la sua prigione) è anche il luogo da cui manovra la rete che è "la forma più fluida, più mobile, ma anche più sconcertante, quella del cerchio" (ibid., p. 32), accerchia, è imprendibile, come "acqua corrente (…) scivola tra le dita dell'avversario" ed è "come una trappola" (ibid. p. 33). Il cerchio "la cosa più strana del mondo" (ibid. p. 36), "legame perfetto perché interamente ripiegato e serrato in se stesso, che non ha né inizio né fine, né davanti né didietro, reso dalla sua rotazione, sia mobile che immobile, e che si muove nello stesso tempo in un senso e nell'altro" (ibid. p. 35), unisce in sé "nella sua curvatura continua e chiusa, diversi contrari, facendoli nascere l'uno dall'altro" (ibid. p. 36).
Penelope perciò si prende gioco, per un suo gioco.
La questione di Penelope e di Ulisse apparentemente è finalizzata alla affermazione di un principio di obbedienza (simmetrico, che perciò lega, assoggetta): Penelope attende custodendo il focolare, Ulisse tende costantemente verso Itaca, alla fine i due si incontrano, il gioco si direbbe essere uno.
E tuttavia qualcosa è avvenuto. Al di là della volontà di obbedire all'ordine della città, come per la distrazione di un dio, per ciascuno un demone si fa avanti.
Penelope custodendo il centro lo svuota, ascolta il vuoto che è nulla, ed è dove si origina il possibile. Disfacendo e rifacendo la tela, rende impercettibili variazioni al disegno, il disegno per essere lo stesso e differente si mette in movimento, il limite è costantemente oltrepassato, si rivela il passaggio (il rischioso punto di equilibrio) tra limite e illimitato.
Ulisse nell'inquieto e rischioso viaggio per mare si può dire che conosca Metis (la prima dea del mare, in un certo senso all'origine di Afrodite che ha per figlio un demone Eros), e che acquisisca metis (astuzia, accorta prudenza) che è "più duttile, più ondeggiante, più polimorfa del flusso del tempo", perché "soltanto lo stesso agisce sullo stesso" e il mondo è "multiplo, diviso, ondeggiante" (M. Detienne-J.P.Vernant, cit. pp. 12, 13).
Conoscendosi nel limite péras - che è forza centripeta, inspirare, raccogliere-raccogliersi: il seme che è oikos: casa, tomba, averi, famiglia, conservando ripete, e "lo spirito è (…) il nome di questa ripetizione" (J. Derida, Glas, cit. p. 152) - toccando il limite, si arrischia oltre i limiti, àpeiron l'illimitato (che è forza centrifuga, espirare, disperdere-disperdersi).
Così non solo è pantopòros (di grande e astuto ingegno, come il coro nell'Antigone definisce in generale l'uomo), diventa incarnazione di metis cioè polùmetis (dalle molte astuzie), e polùtropos (dalle molte risorse), poluméchanos (dai molti artifici), polupaìpalos (possiede le arti del cacciatore e del pescatore), perciò infine intrappola in una rete i Proci.
Ma, per una tensione che lo spinge (è il suo respiro profondo), trova l'inesauribilità dell'illimitato dove "stanno le cause di differenziazione delle forme" (P. Zellini, Breve storia dell'infinito, Milano, 1980, p.20) che tuttavia "sono sempre sul punto di confondersi con la pura e semplice disgregazione della forma" (ibid. p. 19).
Ritornando porta con sé frammenti di altri mondi. Mai più potrà essere interamente re di Itaca: la sua prospettiva si è cambiata nel divenire (nel possibile).
Penelope per aver bruciato il centro disfacendo ogni notte la tela, Ulisse per essere arrivato ai limiti del mondo, hanno seguito il loro demone (che, per essere distrazione di un dio, si manifesta come passaggio del puro possibile prima di ogni forma, conduce verso il molteplice). Sono come re e come regina annientati (da involontaria disobbedienza all'etica della polis). Rimangono separatamente come Ulisse e Penelope. La loro obbedienza al dio della polis ha in sé una disobbedienza che è obbedienza alla sua distrazione che è daimon, la percezione della distrazione del dio.
Il movimento che ognuno dei due ha compiuto è stato passo. Ed è stata la distanza (una dis-danza) a rendere ciascuno dei due differente, a permettere loro il passo.

Luoghi non-luoghi

Ogni volta che c'è stata azione abbiamo visto presentarsi la questione del rischio, e collegata la doppia questione dell'obbedire e del disobbedire, dei rischi che inevitabilmente si corrono sia ad obbedire che a disobbedire. Si è capito che ad ogni obbedienza corrisponde una disobbedienza: si tratta di capire il gioco che si gioca e che cosa si mette in gioco.
Ogni notte Penelope disfa la tela - il lavoro è annullato, è l'eterna fatica della sopravvivenza. Ogni giorno il suo è "dover sempre e radicalmente cominciare da capo, come impone l'imperturbabile mondo reificato" (Th. W. Adorno, Dissonanze, Milano, 1979, p. 50) - ma poiché il tessuto è disfatto, Penelope, il cui tempo è apparentemente uguale, ininterrotto, rassicurante, sta anche in un tempo disatteso, interrotto, bruciato, un non-tempo, frammenti sempre nuovamente distrutti. Rimane l'istante, gli in-stanti (le variazioni impercettibili nel tessuto).
Sempre nuovamente iniziando, non si produce il tempo oscillante delle stagioni.
Non essendoci una vera finalità (nel procedere del tempo l'attesa è dell'inatteso) la sua attività in-definita ha un senso suo proprio. Perché in-definita, la sua è creazione. E in quanto creazione conduce all'annientamento temporale. (H. Arendt, La vita della mente, Bologna 1987). È (come le parole) il contrario della comunicazione verso l'esterno. È, come la verità, soprattutto "morte dell'intenzione" (W. Benjamin).
La sua azione in questo senso non è operare, non serve, o serve il niente, un vuoto che riconduce a un intimo colloquio con sé, da cui provengono le forme, il solerte lavoro di continuamente disfare perché possa prendere corpo, attraverso ritorni, impercettibili variazioni, il tessuto.
Il centro è svuotato, è andato in fumo. "L'ago è rovente, la tela è fumo" (E. Morante, Alla Favola, 1947, in: Opere, Milano, 1988).
Favorita dal caso, aveva potuto frequentare quel luogo del silenzio che accompagna uno spazio altro, un possibile diverso futuro.
Penelope, colei che ad-tende, agendo una tensione al niente si mette in gioco.
Il suo vivere an-nientato (la tela continuamente distrutta) la dispone ad ascoltare appunto il niente.
Ad-tendendo l'in-atteso lo schema omologante si è rotto, gli equilibri precedenti finiti, si è prodotta un'asimmetria.
Per questo vuoto Penelope ascolta il silenzio. In questo tempo-non-tempo si azzarda: dal passato (quasi dimenticato) verso il futuro (incerto) ricreando continuamente, rendendo presente ciò che è assente, trasformando ciò che non è più in ciò che non è ancora.
Lei, tessitrice di quel tempo sospeso, nella volontà di fermare il tempo, sta in un tempo nel quale tuttavia può generarsi un tempo nuovo: la tela disfatta non è semplicemente continuamente annientata (il centro, il focolare è svuotato), permette che infinite impercettibili variazioni (spostamenti dal disegno) si attuino.
Il futuro della città potrebbe infine essere diverso. Itaca una città nuova.
La questione di Antigone è della disobbedienza all'ordine della città e di obbedienza agli dei sotterranei (Creonte, al contrario, obbedisce all'ordine della città e disobbedisce agli dei sotterranei, si gioca l'approvazione degli antenati che sono gli dei che custodiscono il nulla). Per Antigone e Creonte c'è dunque sia disobbedienza sia obbedienza. Opposte? Siamo di fronte a simmetrie? A false simmetrie senza imparzialità dialettica e senza equilibrio?
Antigone, frequentando sia la terra dei vivi sia la terra dei morti (non abitando unicamente la terra dei morti: è Creonte a condannarla non a morte ma a vivere nella terra dei morti) mette in gioco la sua vita.
Si fa straniera. Ritorna a sé, verso un essenziale ed estremo esilio: "è stato grazie all'esilio, che abbiamo conosciuto la terra" (M. Zambrano, cit., p.115). Andando verso quelli che "portano qualcosa che né lì né altrove, dove che fosse, nessuno aveva; qualcosa che quanti abitano stabilmente in una città non hanno mai; qualcosa che solamente ha chi è strappato alla radice, l'errante, colui che un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra; colui che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga" (M. Zambrano, cit. p. 119). Per scoprire lo straniero dentro di noi, attraverso cui si rivela "un paese di frontiere e di alterità incessantemente costruite e decostruite", "inquietanti estraneità", "condizione ultima del nostro essere con altri" (J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Milano, 1990, pp. 174, 175).
Indica necessario abitare il luogo che sta infra, che continuamente si origina tra l'uno e l'altro, luogo originario in cui si producono le forme della città. (H. Arendt, Vita activa, cit., e La vita della mente, Bologna, 1987).
Per estraneità attraversa il conflitto tra passato e futuro. Nella solitudine, tra vita e morte, vede la morte dell'altro e la sua propria morte nell'equilibrio instabile del funambolo.
Lancia la sua vita oltre la città come un lampo - "La luce fa apparire la cosa cacciando le tenebre, essa vuota lo spazio. E fa sorgere appunto lo spazio come vuoto" (E. Levinas, Totalità e infinito, Milano, 1982, p. 193). Ma lo spazio vuoto è condizione di un rapporto, provenire dal vuoto è provenire dall'origine, che è possibilità.

Antigone e Penelope sono differenti.
Perché (dif-ferenti) ambedue si portano altrove. Perché il loro movimento porta ognuna di loro separatamente e altrove (non in direzione inversa, questo avviene tra Antigone e Ismene - una va verso la vita e l'altra verso la morte - ma loro, sorelle, sono una-due).
Penelope (intendendo custodire il focolare) va verso un centro che si annienta rivelandosi vuoto (il farsi vuoto originandosi). E dal centro svuotato esce pura voce, suono che appartiene ancora al silenzio, precede quella tensione che è richiamo, e contiene, dell'incomprensibilità della parola, il senso.
Antigone, che passa e ripassa la 'linea proibita', a quel vuoto del centro si riferisce. Ma non assolutamente. Così la voce dell'origine (la sua legge non scritta) entra, interloquisce con le leggi scritte della polis.
Eppure ciascuna di loro attraversa in un certo senso l'origine.
Si potrebbe dire che Penelope viene prima, non sa quello che fa, anche il suo rischiare è inconsapevole. Antigone, interamente (e modernamente) politica, si arrischia consapevolmente, conosce e affronta il pericolo.
E potremmo anche dire che Antigone è radice, si origina, e originandosi incontra inevitabilmente l'origine dell'origine (il centro svuotato da Penelope).
È la trama di un tessuto che si forma per il doppio movimento dell'andare e del tornare, che si compie per quel nodo che è l'istante punto di incrocio, non immobilizzante ma teso all'inversione di un movimento, di un tempo.
È il provenire da, e l'essere gettata lontano della sorgente. Sorgente che non è fondo (lì non si costruiscono fondamenta, ma nei pressi delle sorgenti si abita). Che nel punto in cui lascia l'oscurità da cui proviene dirigendosi verso la luce si origina come sorgente, cioè passa per l'origine. Ma se ci si inoltrasse, percorrendo a rovescio il movimento della fonte, si contrasterebbe il suo movimento, si produrrebbe in un certo senso un movimento che si annullerebbe come movimento (sarebbe un ritornare), si entrerebbe nell'oscurità della terra (dove la sorgente non è ancora sorgente) e si vedrebbe l'origine nell'origine, si vedrebbe nella terra (nella parola origine che potrebbe venire da orao vedere, ci potrebbe essere en ghéa nella terra, en ghénos nella forza generativa). E a volerlo notare, l'origine dell'origine della fonte (che è entrare nella terra) non è uno sprofondare ma un risalire, come un alleggerirsi.

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