Tre nodi
di
Rossana Rossanda

Marina Abramovic
Questo articolo
è apparso su
il manifesto
del 9 novembre
2004
Quel che mi interessa nella proposta di Alberto Asor Rosa è che si crei
una Camera di consultazione permanente della sinistra «radicale» - quella
che ha espresso il famoso 13,5 per cento dei voti ma poi non si è più
neppur consultata. E' importante che essa e il suo settore più rilevante,
Rifondazione Comunista, abbiano stabilito con Romano Prodi un accordo per
battere la Casa delle libertà e per far fronte alla spinosa eredità che
questa lascerà a un eventuale governo delle sinistre. Questo accordo è non
solo necessario per togliere di mezzo Berlusconi, ma per assicurare che un
governo delle sinistre non sarà perpetuamente in crisi. Nessuna delle due
condizioni è finora garantita. Il vento che tira non è progressista e
tantomeno riformatore o rivoluzionario. La vittoria di Bush dice che oggi
l'appeal è quello di una destra dura, decisionista, ultraliberista, che
risponde all'insicurezza con la guerra e considera un'anticaglia che le
controversie internazionali siano affrontate con mezzi politici e discusse
in un foro come l'Onu. E davanti al voto plebiscitario del 2 novembre, le
sinistre europee sono colpite e disorientate. Da noi, Ds e Margherita
esortano a indagarne i motivi, ed è giusto, ma aggiungono che si tratta di
andare loro incontro, ed è sbagliato. Non tutto quello che esprimono le
viscere di un paese arroventato da un leader bellicoso è da coltivare: si
rischia di ripetere l'errore di considerare un passo avanti tutto quel che
avviene apparentemente dal basso, come a suo tempo D'Alema considerò
progressista il populismo della Lega. E dedurne che quel che occorre è
conquistare un «centro», zona incerta né di destra né di sinistra ma un
po' di tutti e due, che vorrebbe dire ripetere l'errore dei governi Prodi,
D'Alema, Amato del 1996-2001 e della campagna elettorale di Kerry.
L'opposizione deve avere un progetto che agli stessi problemi non da' le
medesime risposte della destra: siamo un paese di interessi divisi, la
Casa delle libertà ha ulteriormente approfondito la divisione, occorre
dire a chi, su chi e a quale fine la Gad si rivolge, e da qui cercar di
conquistare una maggioranza. Così del resto hanno fatto, da parte loro,
Berlusconi e Bush. Se no si è perduto in partenza.
Ma precisare questo progetto non è semplice. Io credo che le divergenze
fra le sinistre non dipendano dalla mancanza di buona volontà o da piccoli
calcoli di partito. Da oltre venti anni la sinistra è in sofferenza, sotto
l'assalto di una restaurazione che ne ha messo in luce le debolezze
(nell'implosione dei socialismi reali e nel terremoto tecnologico e
politico dell'occidente capitalistico), ha mutato strutture materiali e
composizione delle classi, ha modificato la percezione delle possibilità e
dei bisogni. Insomma, la sinistra paga aspramente una sconfitta storica.
E' inutile negarla. Non si spiega altrimenti né l'impaurita flessione
moderata dei Ds, né la tormentosa ricerca di referenti in Rifondazione
comunista. E per questo gli appelli emotivi e apparentemente di buon senso
all'«uniamoci tutti», che partono ora di qua ora di là, concludono ben
poco. Meglio ricordare che la stessa riscossa antifascista partì da un
riesame della situazione che aveva di fronte, dei suoi paradigmi e dai
punti sui quali doveva essere incardinata la repubblica da conquistare.
Oggi l'opposizione fatica e nell'analisi e nella proposta. Mi limito
soltanto a tre esempi.
Primo. Nessuno dava per scontato il secondo mandato di Bush,
mentre è stato un trionfo. Esso da' la misura esatta del mutamento
dei rapporti di forza e dell'idea di convivenza nel mondo che erano
seguiti alla seconda guerra mondiale: nel 1946 si concluse che la
guerra sarebbe stata bandita dalle controversie internazionali (che
nessuno era così sciocco da ritenere finite) e che il governo delle
contraddizioni e dei fini andava discusso da un direttorio che avrebbe
rappresentato tutti i popoli e gli stati. Non si disse, ma era giudizio
comune, che era anche il metodo per regolare il conflitto delle due
grandi potenze rappresentanti due diverse idee di società.
Caduta l'Urss, virato quel che restava dei socialismi reali verso forme di
autoritarismo politico e capitalismo economico, la sinistra europea si è
limitata all'inizio a sperare che la sola grande potenza rimasta, gli
Stati Uniti, si desse il ruolo di una sorta di giudice di pace. E'
avvenuto il contrario e non soltanto dopo l'11 settembre, che ha offerto
un sanguinoso pretesto in più: nel corso degli anni Novanta gli Stati
Uniti hanno deciso che spettava a loro governare il pianeta al di qua o al
di là di ogni assise internazionale di diritto, e a questo fine si sono
riservati la decisione di imporre con la guerra il proprio modello. E
affermando di battere il terrorismo, come prima frontiera, hanno spedito
armi ed eserciti nel braciere del medioriente. Di fronte alla conferma
popolare del 2 novembre, l'Europa è rimasta interdetta e la sinistra si
divide fra una «accettazione moderata» della linea di Bush e una protesta
che, anche quando mobilita le masse, non incide sui poteri se non riesce a
cambiare i governi (Zapatero). I richiami alla carta dell'Onu e alla
Costituzione italiana restano inoperanti: anche per la maggior parte delle
sinistre la priorità del diritto stabilita nel 1946 e nel 1948 è più o
meno tacitamente abbandonata. Ne deriva anche l'incertezza della
fisionomia di una Europa appena nata e le spaccature al suo interno sulla
collocazione internazionale.
Eppure proprio in questo mutamento degli equilibri mondiali l'Europa
sarebbe in grado di avere un ruolo decisivo, costituendo una regione più
grande per popolazione e bilancio degli Stati Uniti, se assumesse come
strumenti politici l'interdizione della guerra e l'opera della diplomazia
e della mediazione politica. Non si tratta di separarsi conflittualmente
dagli Stati Uniti, ma di affermare una differenza dalla linea dell'attuale
amministrazione americana, che fra l'altro non sarà eterna. Per prima
cosa, oggi come oggi, rivendicando una funzione principe nel medioriente,
con il quale confina, chiudendo sulla linea di Ginevra almeno il primo
focolaio dei conflitti, quello fra Israele e Palestina.
Secondo problema. Non credo che a riemergere sia, come si usa
dire, la questione del «lavoro» ma quella dei «diritti del lavoro».
La prima passa ovviamente la mano alle imprese, sole in grado di offrire
o ritirare occupazione, precaria o meno, in una globalizzazione ingovernata,
salvo che dalle multinazionali, che permette loro di giocare su tutti
i tavoli del pianeta il minor costo della manodopera. Anzi competizione
e concorrenza quasi ve le costringono. I «diritti del lavoro» - bisognerà
pur dirlo - non stanno nella logica dell'impresa, né del mercato,
né della competizione, né della concorrenza. La piena occupazione
non è una priorità, ma una variabile assoluta nella logica della libera
circolazione dei capitali, sulla quale alla sfera politica, statuale
o continentale, è impedito di mettere mano. Possibile che nessuna
delle sinistre abbia finora il coraggio di dire che è su questa, e
dunque sulle regole di Maastrischt e di Amsterdam, che occorre intervenire?
E non limitarsi a dirlo ma ad elaborare un tragitto, delle alleanze,
delle tappe? Vale quello che su queste colonne ha scritto Emiliano
Brancaccio, e non è faccenda del solo sindacato, né di quello di un
solo paese: esige che sia fatta pressione sulla struttura puramente
monetaria sulla quale la Ue finora si tiene. E' un progetto di lunga
lena, cui nessuna lotta isolata, per quanto significativa - e tantomeno
i sussulti gestuali di piccolissime minoranze - può far fronte. Tocca
al complesso della sinistra radicale e non, in maggioranza, in minoranza
e nei movimenti, ripensare gli assetti del capitalismo, le formule
delle socialdemocrazie e quelle dei socialismi. E' urgente, e non
è affatto già dato nel senso comune delle società complesse. E' da
questo soltanto che possono uscire in forma non politicista e fragile
i programmi con le loro interne mediazioni e tappe.
Per terzo, la crisi della politica, che si esprime nell'indifferenza,
nel ritiro al privato e nel crescente astensionismo. C'è una situazione
paradossale: le masse sembrano mobilitabili solo dalla destra più
tradizionale, tipo le ultime elezioni americane, o all'opposto da
un levarsi fortemente critico della politica da parte delle coscienze
dei movimenti. Questi ultimi contraddicono la tendenza alla spoliticizzazione,
ma contestano tutte le forme istituzionali, che sono poi i meccanismi
della democrazia. Diamo a questo problema il suo vero nome: è una
crisi della democrazia nell'occidente, cui da fa contraltare il ritorno,
nei paesi terzi, del ripiegamento su soggettività arcaiche, come i
fondamentalismi religiosi e le etnie. Contro le istituzioni vanno
oggi sia la sottovalutazione dei poteri propria della generosità ma
anche dell'incultura di molti movimenti, sia la seduzione che esercitano
anche su soggetti smaliziati i vecchi «valori».
Non basta. Se la rappresentanza ha la febbre dovunque, è una ferita aperta
sul versante del pensiero femminile più avanzato della fine del secolo
scorso. Esso correttamente imputa al pensiero politico moderno l'assenza
di un «contratto» fra i sessi, anzi ne rimuove il conflitto. Asor Rosa
lamenta l'assenza dal dibattito delle femministe: ma non ricorda che a uno
dei più importanti rivoluzionamenti del paradigma politico e antropologico
degli anni recenti, le sinistre non hanno dato alcuna reale attenzione. Un
abisso rimane fra le categorie del politico e la riflessione femminile, e
produce uno stallo da una parte e dall'altra.
Mi sono limitata a ricordare tre nodi cui si connettono molti altri. Li
sottopongo al dibattito solo per dire che ci sono fasi nelle quali
analisi, elaborazione ed azione politica sono la stessa cosa. Uno spazio
non solo per confrontarsi ma per lavorare assieme è essenziale.
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