Tricolori, svastiche e rigurgiti nazionalisti
di Angela Azzaro



Sarà che non sono fiera di essere italiana, che neanche capisco cosa voglia dire “essere italiana”, ma davanti allo spettacolo dei festeggiamenti per la vittoria ai mondiali non ho gioito. Ho provato sì qualcosa, ma di altro tipo: un sentimento che si chiama fastidio, preoccupazione, paura, per l’insorgere - non certo inedito - di un nazional-nazionalismo che porta in sé il rischio della degenerazione nell’odio per il diverso, cioè del razzismo, dell’antisemitismo, della misoginia, dell’omofobia.

E’ per questa ragione che non mi sono sorpresa, ma certo scandalizzata, scoprendo che nella stessa notte della parata trionfale della nazionale, il ghetto ebraico, a Roma, sia stato imbrattato con svastiche e scritte antisemite. Un fatto gravissimo, non certo imputabile al milione di uomini e di donne andato ad accogliere Lippi e compagni, ma che non può non essere letto in relazione col contesto che stiamo vivendo: le scritte “Zidane ebreo”, le accuse di essere “froci” rivolte ai giocatori francesi, le madri e mogli definite “puttane”, i cartelli “francesi tutti appesi”.

Il nazionalismo non è un fenomeno nuovo, ma proprio per questo va analizzato sia nelle sue invarianti storico-antropologiche, sia nei mutamenti che lo rendono fattore determinante del presente. Il dato immutabile è il filo sottile che lega il tifo per una squadra nazionale al sentimento di appartenenza di una comunità fondato sul sangue, la razza, insomma l’esclusione di chiunque non abbia le stesse caratteristiche.

L’equazione: sono nato in Italia e per questo tifo per l’Italia, non l’ho mai capita se non sulla base di questa dinamica che farà gioire se si vincono i mondiali, ma fa poco ridere se significa un paese chiuso, xenofobo, in cui la cittadinanza è basata sul “sangue” - sei italiano solo se sei concepito da sangue italiano - invece di essere libera e aperta. Si possono muovere diverse obiezioni. Come quella che rivendica nei festeggiamenti di questi giorni l’elemento ludico, di partecipazione, di festa, di una comunità che trova nuova linfa. Ma è innocente la coincidenza che la festa, la gioia, l’unità siano così plateali quando il collante è la retorica dell’orgoglio di essere italiani?

La nazionale di calcio ha già vinto i mondiali. Molti di noi, per età, ricordano quelli dell’82. Anche allora si festeggiò, si scese in piazza, ma con minor enfasi, soprattutto con una sensibilità diversa da parte del sistema mediatico, vero protagonista della scena e del discorso pubblico in questi mondiali. Che cos’è cambiato? In mezzo ci sono stati il berlusconismo, la crisi della partecipazione, l’impatto, oltre che politico, simbolico di Forza Italia, ci sono state la guerra nella ex Jugoslavia, le guerre del Golfo, Genova, c’è stata Nassiriya e gli eroi di “così muore un italiano”. Il senso comune si è spostato verso la retorica del tricolore tanto che ieri un giornale di sinistra, l’Unità, poteva titolare, in un gioco di parole, “E’ tornata l’Italia”, identificando la vittoria contro l’altro nell’affermazione di sé come entità nazionale.

Il sistema mediatico ha fatto di tutto per alimentare questo nuovo mito collettivo, usarlo per definire un’identità certa in un’epoca in cui di certo non c’è niente. Gli uomini e le donne, i tanti giovanissimi che hanno partecipato alle manifestazioni per la vittoria ai mondiali non sono evidentemente gli autori di questo disegno. Ma, nella società dello spettacolo, linguaggio dei media e senso comune sono due elementi che si alimentano l’uno dell’altro, creano un cortocircuito pericoloso tra la rappresentazione dei fatti e la loro realtà. Sono anni, anni di quella che abbiamo chiamato guerra permanente, in cui giornali e tv hanno costruito la retorica dell’italiano, di colui che è eroe solo perché rappresenta la nazione in un paese “straniero” a prescindere da quello che fa o pensa. Lo slittamento semantico è stato costante, efficace, ha cambiato la percezione degli eventi e ha rafforzato forme di nazionalismo, antiche appunto, ma che oggi trovano nuova ragion d’essere nel contesto globale. Una parte della politica è stata connivente. Non penso ai Calderoli, ma a personaggi moderati che, nel discorso pubblico, o hanno trovato conforto alla loro incapacità di costruire un’alternativa oppure hanno espresso una reale adesione.

Virginia Woolf, Nelle tre ghinee (1938) criticando la guerra critica l’idea di patria. Non c’è pace senza decostruire quell’entità, quella appartenenza. Da allora è passato molto tempo. L’idea di nazione ha conosciuto momenti di declino, tutta una letteratura l’ha messa in discussione in nome di un diritto di cittadinanza che non conosce confini ma forme organizzate di democrazia. Vogliamo riprendere a ragionarci prima che sia troppo tardi?
 

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 12 luglio  2006