I robots di Barbara

Valeria Fieramonte


Si chiamano plantoidi e sono ideati partendo dall’osservazione dei comportamenti della natura, in particolare dal comportamento delle radici delle piante, e delle loro mutue interazioni.

Servono per il monitoraggio del suolo ( per esempio per segnalare la presenza di metalli pesanti), per l’agricoltura (livelli di acqua, azoto e fosforo), e per tante altre cose. I primi sono stati ideati dall’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Pontedera.

E’ una nuova frontiera della robotica, che, sebbene anch’essa produca inquinamento, dato che i robots senza elettricità non funzionano, può contribuire, almeno, alla tutela di suoli fin troppo abusati, e per favorire il ripristino e la proliferazione delle micorrize.

Che cosa sono le micorrize (dal greco mycos che significa fungo e rizha, radice)

Sono una associazione simbiotica tra i due regni dei funghi e delle radici delle piante, iniziata, pare, circa 400 milioni di anni fa, fondamentale per la salute dei suoli e la riduzione del carbonio nell’atmosfera.

Sono una fattore determinante del buon funzionamento degli ecosistemi perché migliorano la struttura del terreno e soprattutto rappresentano un vero e proprio deposito di carbonio, ( che viene immagazzinato togliendolo dall’aria, e sequestrato sotto terra), superiore persino a quello della restante vegetazione, dato che immagazzinano oltre 350 gigatonnellate (GT) di carbonio, mentre la vegetazione ‘visibile’ ne immagazzina non più di 30 GT.

Tutte le trasformazioni indotte dall’uomo riducono fortemente la vegetazione sotterranea micorrizica, rilasciando il carbonio immagazzinato dalle micorrize nell’atmosfera, che va ad aggiungersi a quello prodotto da tutti gli altri tipi di attività umane con ulteriore aumento del riscaldamento globale e impoverimento dei suoli.

Siamo infatti entrati purtroppo in una specie di girone dantesco: l’innalzamento della temperatura inibisce sempre di più la formazione nel suolo delle micorrize, che smettono così di sequestrare il carbonio sotto terra, lasciando invece che si disperda nell’ambiente.

Prendendo esempio dal World Wild Web, ideato a Ginevra dal fisico inglese Tim Berners-Lee, qualcuno ha cominciato a definire la rete sotterranea creata dall’insieme di radici e funghi, o meglio ife fungine, Wood Wide Web. In pratica una rete biologica che aiuta le piante a comunicare tra di loro.

Gli alberi si servono delle micorrize, per esempio, per avvertirsi in caso di pericolo, magari dovuto a un attacco di insetti: l’allarme corre da un albero all’altro e le piante hanno così il tempo di attivare difese chimiche antiinsetto. In Canada, in una foresta di abeti di Douglas, è stato dimostrato che le nuove piantine sono molto più resistenti quando sono collegate ad alberi più vecchi attraverso la rete sotterranea micorrizica. Insomma, le piante si aiutano tra di loro e hanno sviluppato molto prima degli umani e con molta maggiore efficienza, ( perché per esempio non imbrogliano con fake news), una rete di auto aiuto che corre attraverso messaggi chimici. Un web naturale di messaggi tanto più efficaci perchè quasi sempre senza i tipici trucchi umani da competizione bellica. In alcuni rari casi però anche loro ricorrono a una messaggistica di tipo selettivo: per esempio impedendo a alcune piante di crescere sul loro territorio e inibendone la riproduzione.

Si tratta di studi che sono solo all’inizio e riserveranno dunque molte sorprese.

Il suolo che calpestiamo distrattamente, senza alcuna attenzione né cura, è in realtà invece un organismo vivo e brulicante di vita: particolarmente importante è il ruolo dei lombrichi, e dei batteri che fissano l’azoto atmosferico ( N2) in forme chimiche più facilmente assimilabili dalle piante.

In un cucchiaio di suolo fertile ci possono essere da un milione a un miliardo di batteri che decompongono e trasformano in humus le sostanze organiche.

Una menzione a parte, per la loro originalità , meritano i tardigradi, esserini visibili solo al microscopio che hanno dei veri e propri superpoteri: in caso di disseccamento dell’ambiente possono contrarsi e rimanere in uno stato di vita latente anche per lunghi periodi. Per questo sono chiamati anche ‘estremofili’ perché resistono nelle condizioni più estreme, in attesa di tempi migliori.

Ma gli animaletti più famosi e visibili che popolano la terra di sotto sono senza dubbio i lombrichi: sono diffusi in tutto il mondo e prediligono i terreni argillosi. Ingeriscono il suolo contenente detriti vegetali continuamente, lasciando il terreno sminuzzato e aiutando l’ossigeno a raggiungere le radici delle piante. Purtroppo sono in forte diminuzione, a causa anche, si pensa, dell’uso di macchinari pesanti in agricoltura che favoriscono la compattazione del terreno rendendo, assieme ai pesticidi, più arduo il loro compito. In un suolo più duro e difficile da penetrare, infatti, si è visto che le radici aumentano la loro tortuosità, diminuiscono la velocità e sviluppano più peli per ancorarsi. L’IIT studia dei piccoli robots lombrico e Barbara spera di poterli anche usare in futuro coi bambini delle scuole per capire meglio come funziona la natura, ormai, almeno nelle città, purtroppo visibile più che altro dagli schermi dei PC.

E il loro studio pare fondamentale soprattutto per trovare soluzioni nuove dal punto di vista energetico.

LE ORIGINI DELL’ENERGIA.

Petrolio, carbone e gas hanno rappresentato finora le principali fonti energetiche sulla terra.

Da dove traggono la loro origine?

Dal mondo dei vegetali. E’ una storia iniziata 350 milioni di anni fa, nel Carbonifero, un’era dove prevalevano le grandi foreste di conifere, come i pini, i cipressi , le sequoie, ma c’erano anche le Cycas, assieme ai Ginko biloba considerate fossili viventi. Il Ginko biloba è originario della Cina, significa ‘albicocco d’argento’: è una specie molto longeva, che come le sequoie, può raggiungere i 1500 anni d’età. Queste immense foreste si trasformavano, quando gli alberi morivano e nel corso di altri milioni di anni, appunto in carbone ( da cui il nome dell’era geologica).

Il fenomeno è avvenuto soprattutto grazie all’azione di particolari batteri anaerobici, che attaccano i tessuti delle piante morte, eliminando l’azoto e l’ossigeno ancora presenti, e lasciando il carbonio. Perciò i resti di queste foreste di alberi giganteschi sono diventati la base dei grandi depositi di carbon fossile.

Durante il Cretaceo, ultimo periodo dell’era mesozoica, circa 145 milioni di anni fa, la temperatura della terra aumentò di molti gradi, specie a causa dell’attività dei vulcani. Questo diede vita a un effetto serra che divenne particolarmente intenso attorno a 90 milioni di anni fa. Mentre la Pangea si rompeva, dando vita a una diversa disposizione dei continenti, negli oceani si sviluppò il fitoplancton, microscopici vegetali unicellulari che dopo la morte si depositavano sui fondali. Sono loro che hanno dato origine al cherogene, il precursore del petrolio, che si accumulava uno strato dopo l’altro formando vari tipi di strutture. Anche gli idrocarburi gassosi, come il metano, composti a base di idrogeno e carbonio, rientrano nella definizione di petrolio.

Queste fonti energetiche, proprio perchè sequestravano il carbonio sottoterra, permisero un aumento dell’ossigeno nell’aria. Che aumentò a sua volta nel corso di milioni di anni grazie all’attività di fotosintesi delle piante e in parte dei cianobatteri presenti negli oceani.

Le piante sono dunque un potente serbatoio di anidride carbonica, che vanno ad aggiungersi ai giacimenti di carbone e petrolio a loro volta sequestrati sotto terra dall’attività delle ere geologiche.

Per questo il consumo di fonti fossili deve essere bloccato, o meglio usato con molta più parsimonia e in modo più intelligente: perché nell’aria non ci sarà mai abbastanza ossigeno per compensare tutte queste trasformazioni durate milioni di anni, se noi riimmettiamo, per di più a grande velocità se paragonata ai tempi della natura, l’anidride carbonica nell’atmosfera.

Oggi più della metà delle foreste del mondo si trova in soli cinque paesi: Russia, Brasile, Canada USA e Cina. Andrebbero assolutamente preservate, cosa che sappiamo non avviene. Sono gli unici organismi che hanno imparato a produrre energia con consumi minimi e attraverso la fotosintesi clorofilliana, regalandoci quel mondo bello e abitabile che l’ormai eccessiva pressione antropica e frenesia di attività va deteriorando sempre di più.

Tra le varie cose che studiano all’IIT c’è anche il tentativo di usare le foglie, con l’aggiunta di foglie artificiali, per produrre elettricità innescando un procedimento che è il contrario di quanto avviene a causa dell’uso di fonti fossili per produrla. Ovvero una produzione di elettricità senza l’uso di prodotti che riimmettono carbonio nell’atmosfera da cui erano stati sottratti ( l’aria prima dell’avvento delle piante non era infatti respirabile per gli esseri umani.)

Infine la Mazzolai pensa che riusciranno a resistere meglio ai nuovi cambiamenti anche climatici i popoli che avranno saputo tutelare, almeno in parte, la biodiversità della natura.

Perchè tanto maggiore è la diversità biologica, tanto minore è il rischio di estinzione di specie e habitat. ( Il termine biodiversità è relativamente recente, ha fatto la sua comparsa negli anni ‘80 ed è stato poi ratificato alla Conferenza di Rio del ‘92.) Eppure dovrebbe essere intuitivo da sempre che le varietà vegetali vanno salvaguardate nel nostro interesse.

Molto interessante è poi il capitolo del libro che parla della ricerca nei mari profondi, e in particolare dell’importanza delle praterie di posidonie. Sono stati ideati anche robots per l’esplorazione subacquea, tra i quali il più intrigante è un aliante sottomarino, il glider, che può spingersi fino a 1000 metri di profondità! Consuma pochissima energia e raccoglie una enorme quantità di dati.

Data la proverbiale capacità distruttiva degli uomini è sperabile che questi mezzi, davvero utili in termini di ricerca, non servano anche per fare danni persino in questi territori finora inesplorati: l’acqua degli oceani e dei mari è infatti un ambiente ideale per la nascita della vita ed è probabile che si scopriranno molte nuove varietà di pesci. Il team della Mazzolai ha trovato affascinante in particolare lo studio del polpo con le sue otto braccia costellate di ventose dotate di recettori chimici e tattili. ( E’ una specie le cui femmine producono dalle quarantamila alle centomila uova, che sorvegliano e accudiscono senza mangiare e lasciandosi morire alla schiusa).

All’IIT hanno creato un braccio robotico ispirato appunto al polpo e fatto di materiali siliconici, che ora è esposto all’Acquario di Genova. Può essere utilizzato in moltissimi modi dato che si adatta agli oggetti con cui interagisce, un concetto nuovo in robotica, in genere legata a robots metallici e rigidi.

I ricercatori studiano anche lo sviluppo di piccolissimi robots ispirati ai semi delle piante, specie quelli capaci di prenetrare nel suolo o di volare: insomma, le suggestioni del libro sono davvero tante e non resta che augurare buona fortuna a questa brillante ricercatrice.


 


Barbara Mazzolai, Il futuro raccontato dalle piante,
Longanesi, 2021, 18 euro, pagg 224


 

 

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