LA VECCHIAIA AL FEMMINILE:
UNA DUPLICE RISORSA

di Alessandra Paganardi



Ricordate l'antologia di cortometraggi "Sogni", firmata dal regista giapponese Akira Kurosawa? In un episodio l'abitante di un villaggio arcaico, sospeso tra mito e realtà, illustra ad un perplesso turista la scena del funerale di una persona comune, morta vecchissima e seppellita fra i più sontuosi onori. Lo straniero ascolta stupefatto il resoconto di quella che, invece di apparire una mesta cerimonia, ha tutte le caratteristiche di una vera e propria festa. Sembra davvero un sogno: in una prospettiva antropologica assai lontana da noi la tarda età viene rispettata al punto tale che sia giudicato un onore giungervi e una festa da lì partire.

La vecchiaia come traguardo tagliato, segno di un telos raggiunto: cosa c'è di più distante rispetto ad un mondo che, erigendo a valori esclusivi la produzione e il consumo, cerca il proprio target ideale in una fascia d'età in pari tempo vigorosa e plasmabile qual è la giovinezza? Il pensiero unico, al quale stiamo abituandoci in forma sempre più inconsapevole, induce tutti a credere che terza e quarta età siano di per sé una malattia, resa contraddittoriamente inevitabile dal prolungamento della vita media dovuto a cure mediche, alimentazione e norme igieniche più accurate.

Ma questa "malattia" non è affatto tale in assoluto, a meno che non si accompagni a sofferenze e invalidità reali; essa è più che altro la proiezione ideologica di una perdita della funzione produttiva, cui il sistema, con meccanismo distorto, fa risalire la "felicità" individuale. Dove il benessere sociale è misurato soltanto in prodotto interno lordo l'anziano pensionato sta evidentemente dalla parte del malessere: anzi, contribuisce a crearlo. Da qui l'equazione surrettizia fra vecchiaia e malattia, equazione che le società arcaiche ignoravano al punto da capovolgerla.

Quando poi ad invecchiare sono le donne sembra quasi che la malattia sia duplice. Non solo perché le donne vivono più degli uomini e sono quindi biologicamente predisposte alla solitudine della vedovanza, ma per una ragione sottile. Con l'età, infatti, la donna non perde soltanto la funzione produttiva, sempre più richiesta dall'economia (il boom della new economy, solo per fare un esempio, non sarebbe stato possibile senza il massiccio ingresso nel mondo del lavoro di forze femminili qualificate); ella depone anche quella riproduttiva, oggi ugualmente preziosa, visto il notevole calo di natalità registrato in Italia e in altri Paesi occidentali.

Certe recenti iniziative locali di sapore un po' retrò vanno in questa direzione: pensiamo agli assegni recentemente erogati per il secondo figlio, riflettiamo anche su certe proposte di incentivare economicamente le famiglie con figli piccoli anziché aprire nuovi asili nido. La donna, per il sistema, è una doppia risorsa, anche se spesso non ne è cosciente. Ma che accade quando questa miniera raggiunge, se non l'ormai sempre più evanescente pensione, almeno l'età in cui ne avrebbe teoricamente diritto? Per l'economia è una doppia perdita, come fermare due ruote. Nella distorta proiezione ideologica di cui si accennava prima è una mancanza ulteriore, fatta ovviamente pesare sul soggetto come duplice infelicità.

L'ha ben capito Marguerite Duras, interprete sensibilissima della condizione femminile in ogni epoca della vita. In un bel libro di riflessioni, La vie materielle, l'autrice trova parole di forte solidarietà per le donne in procinto di affrontare la vecchiaia: non più in grado di suscitare desiderio sessuale, né di assicurare con la riproduzione il ricambio della forza lavoro, esse affondano ancor più dei coetanei maschi in una specie di malinconico limbo sociale. Spesso cercano riscatto in un ruolo di sostegno alla famiglia, non più propria ma dei figli, attraverso la cura dei nipoti: ma questo compito, certo importante e delicato, rischia di assumere una sfumatura di mortificazione se viene svolto "per sentirsi utili", prima che per la libera scelta di mettere a disposizione dei propri cari un'esperienza preziosa.

Forse, invece, dovrebbe partire proprio dalla donna una rivalutazione della terza o quarta età, innanzitutto come emancipazione dall'obbligo biologico e sociale di produrre e riprodurre. Penso ad una sorta di De senectute al femminile, capace di diffondere un messaggio positivo per tutti attraverso la possibilità di centrare nuovamente l'attenzione su se stessi e sui valori coltivati nel corso di molti anni. Un messaggio che naturalmente porta con sé, come corollario, il superamento della paura di invecchiare: forse per la donna, da sempre culturalmente indotta a presentarsi a tutti i costi come gradevole e seducente, questo è tuttora il passaggio meno facile.

Dipende da noi, come sempre, ribaltare punti di vista che non sono affatto "oggettivi", ma semplice residuo di una retorica di matrice autoritaria e ideologica. Pensiamo al fascino di Rita Levi Montalcini, al carisma di Lalla Romano nei suoi ultimi luminosi anni, e capiremo come sia davvero possibile una "trasvalutazione" della tarda età. Non ricordo se il protagonista del "sogno" di Kurosawa fosse un uomo o una donna, ma mi piace pensare a quest'ultima ipotesi: che il regista abbia reso omaggio alla saggezza di chi, proprio per aver ricevuto in sorte il dono e il peso di trasmettere la vita, al limitare di essa sia un exemplum - non di mortificazione per aver smesso di erogare risorse all'esterno, ma di fierezza, per poterle finalmente restituire a sé. Produrre e prendersi cura, dare la vita e migliorarla con il proprio lavoro quotidiano: due importanti impegni conclusi, quindi perfecti, avrebbero detto i latini. Il segno di una duplice, speciale libertà.


Pubblicato su "Odissea", numero di marzo-aprile 2005

7-3-06