La ricetta anti-crisi

Tassare rendite e patrimoni, lotta all'evasione: per la forza lavoro femminile

Giovanna Vertova
Alessandra Vincenti

 

 

Sono state formulate tante interpretazioni della crisi attuale, alcune anche su questo quotidiano. Tuttavia, il dibattito corrente sembra trascurare la struttura sociale di genere che prende in considerazione le disuguaglianze tra uomini e donne generate dal capitalismo. Troppo spesso il processo fondamentale di riproduzione sociale della forza-lavoro è oscurato e l'attenzione è concentrata solo sul processo di produzione.
Si dovrebbe, invece, mettere al centro dell'analisi il conflitto tra capitale e lavoro, unendo la prospettiva della produzione con quella della riproduzione sociale della forza-lavoro.
Le indagini sull'uso del tempo evidenziano che, tuttora, le donne italiane dedicano più tempo al lavoro (pagato e non pagato), svolgendo la maggior parte di quello non pagato (quello domestico, di cura, etc.).
Ciò pone due ordini di problemi. Il primo è che la conciliazione viene considerata una questione esclusivamente femminile, con la conseguenza che tutte le politiche pubbliche ideate, non rivelando le relazioni di genere, lasciano sullo sfondo una profonda disuguaglianza per la quale viene invocato un cambiamento culturale che tarda ad inverarsi.

Il secondo è che il problema della conciliazione influenza la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sia dal lato della domanda che da quello dell'offerta. Dal lato della domanda, le aziende considerano le donne come una forza-lavoro di «seconda categoria», in quanto sanno che, prima o poi, resteranno a casa per la maternità, chiederanno permessi per accudire i figli oppure decideranno di licenziarsi (circa un quinto delle donne tra i 35 e i 44 anni esce dal mercato per licenziamento o «dimissioni» in occasione della maternità). Quindi, è meglio che questa forza-lavoro non diventi funzionale al processo di produzione ma faccia parte di quel mercato del lavoro secondario di contratti precari, basse qualifiche o di qualifiche facilmente reperibili altrove.

Dal lato dell'offerta, la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia spinge, spesso, le donne a rinunciare al lavoro salariato. Il risultato è che le donne partecipano in modo più saltuario degli uomini al mercato del lavoro, potendo coltivare poche speranze di carriera e con un futuro previdenziale molto fosco. I dati confermano che le donne svolgono i lavori più flessibili, più dequalificati, più incerti e insicuri, subendo forti differenziali salariali.
E tutto questo indipendentemente dal livello della loro formazione. La relazione tra produzione e riproduzione è quindi particolarmente squilibrata per la presenza di forti carichi di lavoro domestico svolti dalle donne, per i bassi tassi di attività femminili, per una rete di servizi sociali pubblici tuttora inadeguata, per la mancanza di un sistema di ammortizzatori sociali che tenga conto delle numerose situazioni contrattuali e della discontinuità del lavoro femminile.
Finora il governo italiano non ha fatto interventi sostanziali.
Inoltre, recentemente, si torna a invocare il pareggio del bilancio pubblico e i parametri di Maastricht, lasciando intravedere una futura stretta fiscale, visto l'aumento del debito pubblico.

Con molta probabilità, qui in Italia, questo si tradurrà in tagli ai servizi pubblici (nascosto sotto il richiamo all'attivazione delle risorse delle comunità locali e alla responsabilizzazione di ciascuno di noi), comportando ulteriori difficoltà nella conciliazione e, conseguentemente, un aumento del lavoro di cura. Si verrebbe così a creare una situazione paradossale con poco lavoro pagato a disposizione di tutti e di tutte, ma tanto lavoro domestico a carico prevalentemente delle donne. Inoltre, il pubblico non è importante solo per l'offerta di servizi ma anche come fonte di occupazione tendenzialmente femminile. La stretta fiscale significherebbe anche la riduzione, per le donne, di questa possibilità di occupazione.
Che fare, quindi? Le donne in primis dovrebbero impegnarsi affinché si capisca che le condizioni della produzione capitalistica si intrecciano sempre con quelle della riproduzione della forza-lavoro.
Qualsiasi analisi economica che non unifichi le due questioni è parziale e rende invisibile i costi pagati dalle donne. Inoltre, bisognerebbe contestare le proposte di uscita dalla crisi che si tradurranno, inevitabilmente, in un aumento del carico di lavoro non pagato delle donne. In questa ottica vanno contrastate tutte le proposte generiche di detassazione del lavoro dipendente, ma va piuttosto aumentata la tassazione sui profitti e sulle rendite, accompagnata da una vera lotta all'evasione e all'elusione fiscale, per impedire che le minori entrate fiscali si traducano in una diminuzione dei servizi pubblici. Infine, occorre proporre politiche economiche alternative che unifichino le modalità di uscita dalla crisi con la necessità di ridurre le disuguaglianze di genere.
La crisi ha evidenziato i limiti della globalizzazione neoliberista, che ha aumentato tutti i tipi di disuguaglianze (tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri, tra uomini e donne). Che almeno diventi un'opportunità per riportare al centro del dibattito la questione delle relazioni di genere.

 

Giovanna Vertova - Università di Bergamo e IFE-EFI
Alessandra Vincenti - Università di Urbino e IFE-EFI

articolo apparso su il manifesto del 3 gennaio 2010

 

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