Viaggio a Kandahar

di Sara Sesti

Per la prima volta, non è un occidentale appartenente a un'altra cultura e facile al disprezzo a raccontare come vivono le donne nell'Afghanistan dei talebani, a descrivere un mondo inaccettabile
dove le femmine non possono mostrare la faccia, permanentemente nascosta dal burqa; non possono uscire di casa né fare la spesa senza un uomo al fianco;non possono studiare nè hanno scuole;


non possono lasciarsi visitare dal medico né parlargli direttamente senza un intermediario maschio; sono espulse dalla vita sociale e politica.
Per la prima volta, a illustrare questa realtà in "Viaggio a Kandahar" è un regista iraniano, Mohsen Makhmalbaf, non sospettabile di pregiudizi, di propaganda né di opportunismo: il film è stato girato nel 2000 e presentato nel maggio scorso al Festival di Cannes. Makhmalbaf è un regista che, parlando dell'Afghanistan, parla anche del suo Paese, dell' Iran, dove una donna non può andare in giro da sola, non può comprare un biglietto di viaggio, non può fumare in pubblico né avere la testa scoperta né portare vestiti corti e colorati.
Per la prima volta, questa straziante condizione femminile viene narrata in un film bellissimo con grande bravura, con alta sapienza estetica, con immagini meravigliose: così che il regista è stato accusato da alcuni critici di "estetizzare la sofferenza", di "fare del decorativismo al servizio di una causa umana", di "indulgere eccessivamente alla metafora".
Osservazioni che sembrano assurde.
Chi non ha paura della bellezza, chi la considera una necessità esistenziale e non un lusso superfluo, vede bene come la forza della denuncia venga moltiplicata dalla perfezione, emozione dello stile.
E chi non si sente superiore ricordando la vita di tante italiane dei paesi meridionali rurali prima della seconda guerra mondiale, si rende conto di come la povertà, l' ignoranza, l' oppressione politica e religiosa diano sempre i medesimi risultati antifemminili.