non possono lasciarsi visitare dal medico né parlargli direttamente
senza un intermediario maschio; sono espulse dalla vita sociale e politica.
Per
la prima volta, a illustrare questa realtà in "Viaggio a Kandahar"
è un regista iraniano, Mohsen Makhmalbaf, non sospettabile
di pregiudizi, di propaganda né di opportunismo: il film è
stato girato nel 2000 e presentato nel maggio scorso al Festival di Cannes.
Makhmalbaf
è un regista che, parlando dell'Afghanistan, parla anche del suo
Paese, dell' Iran, dove una donna non può andare in giro da sola,
non può comprare un biglietto di viaggio, non può fumare
in pubblico né avere la testa scoperta né portare vestiti
corti e colorati.
Per la prima volta, questa straziante condizione femminile viene narrata
in un film bellissimo con grande bravura, con alta sapienza estetica,
con immagini meravigliose: così che il regista è stato accusato
da alcuni critici di "estetizzare la sofferenza", di "fare
del decorativismo al servizio di una causa umana", di "indulgere
eccessivamente alla metafora". Osservazioni
che sembrano assurde.
Chi non ha paura della bellezza, chi la considera una necessità
esistenziale e non un lusso superfluo, vede bene come la forza della denuncia
venga moltiplicata dalla perfezione, emozione dello stile.
E chi non si sente superiore ricordando la vita di tante italiane dei
paesi meridionali rurali prima della seconda guerra mondiale, si rende
conto di come la povertà, l' ignoranza, l' oppressione politica
e religiosa diano sempre i medesimi risultati antifemminili.
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