LA
VITA SEGRETA DELLE PAROLE
di
Gemma De Magistris
Contrariamente
a quello che può apparire, a me sembra che questo film con la chiusura
o apertura finale ritorni all'inizio come una struttura circolare. Una
cucina, il silenzio di una domenica mattina, quel momento in cui la casa
è "tutta per me" . Entra la protagonista, Hanna (Sarah
Polley), prende un bicchiere d'acqua, si siede al tavolo, lo sguardo
è solo per un attimo smarrito, poi la sua espressione torna imperturbabile
e alle spettatrici viene da chiedersi fino a che punto la rimozione abbia
funzionato.
Il film di Isabel Coixet, prodotto da Pedro Almodovar, non
racconta tutto dall'inizio: all'inizio c'è solo una interminabile
ripetizione di gesti scarni, essenziali: una donna, un lavoro in una fabbrica
rumorosa, il ritorno a casa e l'assenza di ogni rumore. Hanna può
lavorare senza cuffie isolanti perché è sorda e le basta
chiudere l'interruttore dell'apparecchio acustico per non sentire.
Ma le viene imposta una vacanza addirittura dalla direzione!! I colleghi
si sono un po' lamentati perché è isolata, non ha voglia
di entrare in relazione, il suo apparecchio è acceso solo quando
è strettamente necessario. Non comunica, ma è diligente
nel suo noioso e ripetitivo lavoro. Desta inquietudine. Ed invece di andare
in una spiaggia tropicale con le palme, Hanna accetta uno strano incarico:
accudire un uomo gravemente ustionato per un incidente su una piattaforma
petrolifera. E qui si scopre che la donna è una infermiera. Le
altre scoperte vengono poco a poco e la lentezza, in questo caso, mi sembra
un gran pregio perché ci vuole tempo per assorbire. Inutile svelare
i dettagli: il rimorso che Josef (Tim Robbins, il paziente di Hanna)
ha dentro, il dolore atroce e indicibile che Hanna porta con sé
insieme ai ricordi di tutto ciò che ha visto e subito perché
è una sopravvissuta delle guerra nei Balcani.
Come si può dire, rappresentare un dolore così grande? Come
si va avanti? Hanna non ha più parole se non quelle che trova per
raccontare qualcosa a Josef. Però lentamente comincia a partecipare
alla vita della piattaforma, invidia l'oceanologo perché non si
arrende, perché vuole realizzare qualcosa di irrealizzabile, ed
accetta i piatti che il cuoco prepara, rinunciando ad una alimentazione
sempre uguale a se stessa che la rassicurava sulla routine. Hanna sta
cercando di capire se "con la vergogna del sopravvissuto" può
andare avanti. Il momento esplicativo del film è il colloquio che
si svolge tra l'analista d Hanna e Josef che vuole sapere: la terapeuta
è dura, racconta che le parole non sempre bastano, che forse occorre
agire. E Josef promette di tentare "Imparerò a nuotare"
rischierò di perdermi anche io nella tua sofferenza, perché
credo che, senza alcuna certezza, forse possiamo tentare timidamente di
andare avanti.
L'ho trovato soprattutto un film delicato, con una appropriata colonna
sonora. Un ulteriore modo per dire che le vittime delle guerre sono sempre
di più le donne? Sicuramente c'è anche questo ma mi sembra
ci sia altro, un tentativo. Il finale è solo, a mio avviso, apparentemente
consolatorio. Certo la cucina è bella, sono arrivati dei bambini,
la vita va avanti ma gli occhi di Hanna, i suoi lenti movimenti aprono
un imprevisto che non necessariamente sarà sopportabile.
24 Marzo
2006
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