Se le donne reinventano le virtù

di Adriana Perrotta Rabissi

 

 

 

I significati delle parole, come sappiamo, mutano nel tempo, si arricchiscono di nuove valenze grazie alle trasformazioni di sensibilità, alle modificazioni di costumi e al progresso delle conoscenze di una società, tuttavia le loro sedimentazioni, anche le più profonde, non si perdono mai del tutto, avvolgono la parola come un’aura, pronte a riemergere dando luogo a fraintendimenti, più o meno intenzionali, in chi parla e in chi ascolta, quando non si abbia la cura di precisare a quale tra le molteplici e a volte contraddittorie accezioni ci si riferisca e in quali contesti settoriali e campi disciplinari si intenda usare i termini.

E’ questo uno dei modi più comuni di creare confusione nella lingua, grazie alla sua potenza evocativa, legata alle costellazioni di sensi, emozioni e ricordi che le parole suscitano in ciascuna/o di noi, così da diventare perfino simpatiche o antipatiche. Si catturano in questo modo consensi o si scatenano dissensi; lo scrittore Edoardo Galeano definisce “macchina tradisci-parole” la tecnologia delle manipolazioni linguistiche, a me viene da dire parole maltrattate.

Credo che sarebbe lungo, ma senz’altro utile, un elenco di parole maltrattate, lista in cui inserire i termini più comuni impiegati oggi in discorsi pubblici e privati, in articoli di periodici, in trasmissioni radiofoniche e televisive, e in molti dei luoghi di comunicazione più frequentati, tutti orientati a costruire opinioni.

Una delle parole dell’ipotetico elenco è virtù, che rimanda al campo dell’etica, dei comportamenti individuali e collettivi i e, in particolare, delle relazioni tra uomini e donne.

Virtù è un termine che a prima vista a molti e a molte può risultare proprio antipatico, quando non obsoleto, dal momento che nel senso comune è stato associato fino ad anni recenti ad un modello vincolante di educazione di genere per le donne, incentrato sulla modestia, la riservatezza e la castità; se ne ha una prova se ci si sofferma a considerare quali rappresentazioni mentali suscita l’espressione donna virtuosa, confrontata con la parallela uomo virtuoso.

Un modello di genere fortemente messo in crisi dalla nuova coscienza femminile-femminista emersa negli ultimi trent’anni del secolo scorso, ma, per effetto dell’ inerzia della lingua, ancora attivo, malgrado le modificazioni delle attese sociali e del costume.

Per quanto riguarda poi un discorso più generale c’è da osservare che le virtù sono state sovente invocate dai poteri costituiti e contrapposte ai tentativi di cambiamento delle regole vigenti e dell’ordine sociale e culturale dati, così che la libertà di pensiero, elemento essenziale per la costruzione di una soggettività etica, è stata combattuta in nome di un’adesione a valori e modelli proposta come virtù da perseguire, mentre sono stati rubricati a vizi comportamenti di lotta politica, sociale e culturale.

Di qui il senso di fastidio che la parola può provocare a prima vista.

La parola è però riscattata da Barbara Mapelli nel suo recente libro Nuove virtù. Percorsi di filosofia dell’educazione, Milano, Guerini e Associati Editori, 2004, una riflessione storico-filosofico-letteraria rivolta a donne e uomini sull’abitare il mondo in quanto soggetti morali.

Mapelli definisce nuove le virtù di cui tratta, non perché esse siano acquisizioni recenti, ma perché sono dall’autrice riconsiderate e risignificate alla luce delle elaborazioni teoriche e delle pratiche politiche attivate da molte donne negli ultimi decenni del Novecento.

Così, ad esempio, accanto alle tradizionali quali coraggio, pietà, amore, umiltà, Mapelli tratta a lungo della “cura”, portata allo scoperto dalla dimensione di naturalità e di insignificanza a cui l’ha costretta  l’ordine patriarcale dalla riflessione femminile-femminista.

La ricerca di Mapelli è condotta sulla scorta di racconti di vita di uomini e donne incontrate nei Corsi di formazione docenti, di brani di romanzi di autrici e autori della modernità letteraria e di narrazioni autobiografiche di saggiste/i contemporanei, in modo che le tredici virtù analizzate risultano incarnate in soggetti concreti, della realtà e dell’immaginario, al sicuro dal rischio di possibili astrattezze teoriche e falsi universalismi.

L’orizzonte del testo è pedagogico, come attestato dal sottotitolo, l’ipotesi che lo sorregge è una speranza/possibilità: quelle che nel senso comune sono considerate per eccellenza virtù femminili, e come tali virtù minori, a patto di essere riconosciute e rimeditate diventino nuovi modi di essere per uomini e donne, nella prospettiva di costruzione di nuovi profili morali.

Il libro si apre con un lungo saggio di Duccio Demetrio, intitolato Virtuosi vizi in virtù viziose, quasi un contrappunto al testo di Mapelli, nel quale lo studioso ripercorre il periodico rovesciamento di vizi in virtù, e viceversa, verificatosi nel corso della storia; rovesciamento reso possibile dal comune statuto di passioni degli uni e delle altre; nota Demetrio: ”L’imprevedibilità delle passioni, la loro atavica funzione destabilizzante hanno indotto i detentori degli ordini morali, sociali e religiosi a ridurle infatti a vizio (o a virtù).[…] Ugual sorte dei vizi subirono le virtù, anch’esse passioni, moti dell’animo, desideri”(p. 10).

Ricollocate nell’ambito che è loro proprio, spogliate delle ambiguità che raccolgono durante il loro viaggio nel mondo e nelle menti, le parole tornano ad essere strumenti di pensiero e di comunicazione tra gli umani.

 

 

Milano, 25 maggio 2005  

 

Barbara Mapelli

Nuove virtù. Percorsi di filosofia dell’educazione

Guerini e Associati Editori, 2004
pagg. 254 -  Euro 18,5