Virus e identità. Le ideologie alla prova del corpo

Lea Melandri


Chiara Corio, Il sogno

 

Il “partire da sé” nasce come pratica femminista di riscoperta della cultura che è rimasta sepolta per secoli nei vissuti personali, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra i sessi, ma, più in generale, ha significato riconoscere che sono le vite, nella loro singolarità, a spingere l’agire politico “alle radici dell’umano”.

Riportato al presente dell’emergenza che stiamo vivendo e col dubbio purtroppo che durerà a lungo, in quanto legata alla crisi del modello di civiltà conosciuto finora, il “sé” con tutte le sue risorse di creatività e limiti può essere il luogo attraverso il quale si incontrano senza farsi la guerra opinioni, scelte diverse, e, per un altro verso, brevi tracciati di un sentire comune. Non ne usciranno saggi né teorie di sistema, ma notazioni sparse, balbettamenti, come del resto sono già i commenti che escono in questi giorni sulle pagine dei social.

Alla particolarità delle nostre vite, più che ai nostri saperi e alle nostre competenze professionali, appartengono sicuramente alcune delle contraddizioni e dei conflitti che si stanno addensando intorno al coronavirus, dai provvedimenti di varia natura, giuridica e politica, con cui le istituzioni lo affrontano, alla risposta dei cittadini. Mi limito ad alcune considerazioni che mi sembrano incontestabili.

Se è vero che il timore del contagio e la permanenza obbligata nelle case sta facendo nascere comunione di sentimenti e solidarietà inaspettate, è altrettanto vero che mai come in questa calamità emergono differenze significative, di età, classe sociale, condizione famigliare e abitativa (per chi una casa ce l’ha).

Non è la stessa cosa:

-appartenere alla categoria dei “vulnerabili”, cioè alle persone di età avanzata e con altre malattie, o a generazioni più giovani;

-essere garantite economicamente o essere invece dipendenti da un lavoro che è venuto a mancare o che devi continuare a fare a tuo rischio;

-abitare da soli o condividere la casa con famigliari e amici;

-essere uomini o donne in una situazione in cui la cura della casa e dei bambini sono raddoppiate, dove le relazioni di coppia già compromesse rischiano di sfociare in violenza;

-avere una abitazione che permette, in caso di quarantena, spazi separati, o invece piccoli appartamenti dove ci si muove a mala pena. Per non parlare del carcere, dei centri di accoglienza, dei senza casa, delle case di riposo, e di tutti i luoghi dove la convivenza e l’affollamento sono inevitabili.

Le teorie hanno piedi, mani, volti, e rispecchiano nel loro confrontarsi, spesso aspramente, la difficoltà a entrare nei panni dell’altro e mettere in primo piano ciò che ci accomuna. In questo drammatico passaggio di vita, personale e sociale, le abitudini possono cambiare in meglio, ma si possono anche perdere affetti e amicizie, se non se ne ha cura. Le solidarietà che nascono impreviste tra sconosciuti, in modi che non avremmo mai immaginato –il saluto da finestra a finestra, torce che si accendono alla medesima ora sopra strade deserte la sera, musica e canti inaspettati dai balconi- dicono che in parte siamo già diversi da un mese fa, che abitudini consolidate dal quieto vivere possono eclissarsi all’improvviso e aprire la strada al dubbio come alla speranza, al dolore della perdita come all’interesse per nuove opportunità.

Non per questo tuttavia scompaiono, dietro l’illusione di una comunità ideale a venire, le differenze di sesso, razza, classe, che già c’erano e che oggi fuoriescono con la spigolosità e la ruvidezza dei vissuti reali, anche se appannati dal bisogno di muoversi in concordanza contro il nemico comune . Se siamo stati a lungo spettatori dei mali degli altri, attenti nella lontananza ai dolori di umani vittime di ogni flagello –dalle guerre, alle migrazioni, alle catastrofi naturali-, combattivi nell’affiancarli con le manifestazioni nei nostri paesi, oggi siamo noi, per una sorta di contrappasso, al centro di un assalto che entra invisibile nei nostri corpi, passando paradossalmente dai gesti dell’amore e dell’amicizia, come i baci e le strette di mano. Si potrebbe dire che il corpo, e la natura a cui appartiene, si prende la sua rivincita e in questo modo presenta il conto della violenza, dello sfruttamento e dell’uso che ne abbiamo fatto, delle ingiustizie che vi sono passate sopra.

D’ora innanzi non potremo più limitarci a gridare slogan anticapitalisti, antipatriarcali, antirazzisti, quando è l’ordine sociale e politico a lasciare allo scoperto, nel momento del suo crollo, il posto che vi hanno occupato le nostre vite.

Se possiamo immaginare all’orizzonte un “altro mondo possibile”, sarà solo perché avremo dato corpo, sentimenti, pensieri alle tante “differenze” prodotte da millenarie logiche di dominio.

 

Articolo pubblicato su "Il riformista" del 20 Marzo 2020

 

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